Capitolo X I RE DEL MARE

Carse era appoggiato al parapetto, e stava guardando il mare, immensa distesa che lambiva il lontano orizzonte, quando giunsero i Celesti. Tempo e distanza erano ormai dietro le loro spalle e dietro la galera, come una lunga scia che seguiva la nave. E in quel periodo, Carse aveva potuto riposare. Ora indossava tin gonnellino pulito, e una nuova tunica, si era lavato e sbarbato, e ormai le ferite si erano rimarginate, sulla schiena e nel resto del corpo. Era ritornato padrone degli ornamenti che gli erano stati rubati, prima da Boghaz e poi da Scyld, e l’elsa della lunga spada sfavillava, con il suo fantastico gioiello, sopra la sua spalla sinistra.

Boghaz, in quel momento, era accanto a lui. Boghaz era sempre al silo fianco, dovunque egli andasse, in qualsiasi punto della nave si trovasse. Il grasso Valkisiano puntò il braccio verso il cielo occidentale, ed esclamò:

«Guarda lassù!»

Dapprima, Carse pensò che in lontananza fosse apparso un gran volo di uccelli, forse uno stormo che migrava al di sopra delle acque. Ma poi, mano a mano che si avvicinarono, diventarono sempre più grandi, e infine egli capì che si trattava di uomini, o meglio di quasi-umani, Halfling della stessa specie dello schiavo dalle ali mozzate.

Ma quelli non erano degli schiavi, e le loro ali erano spiegate, ampie e splendide e luminose, nei raggi gloriosi del sole, che pareva trarre da esse scintillii e lucori incantati. I loro corpi snelli, completamente nudi, erano lucenti come avorio levigato. E mentre sfrecciavano veloci nell’azzurro, scendendo verso la nave, parvero agli occhi di Carse di un’incredibile bellezza, una bellezza che le semplici parole e i semplici concetti umani non avrebbero mai saputo descrivere.

C’era un’affinità tra quelle splendide creature del cielo e i Nuotatori. I Nuotatori erano i perfetti figli del mare, e questi esseri erano fratelli del vento e della nube e delle limpide, profonde immensità del cielo. Era come se la mano maestra di un divino scultore li avesse foggiati entrambi, Nuotatori e Celesti, traendoli dai rispettivi elementi originari, modellandoli in sembianze di forza e grazia che li liberavano da ogni impaccio terreno degli esseri umani, legati alla terra e lenti e pesanti per il contatto con essa; perché l’ignoto artefice aveva fatto di loro dei sogni meravigliosi, materializzati in carne e sangue e felicità.

Jaxart, che in quel momento era al timone, gridò:

«Esploratori da Khondor!»

Carse salì sulla piattaforma. Gli uomini si radunarono sul ponte, seguendo con lo sguardo la discesa dei quattro Celesti che fendevano l’aria con le loro grandi ali.

Carse guardò verso prua, dove Lorn, lo schiavo alato, se ne stava in solitudine, ormai da giorni, cupo e triste e pensieroso, senza rivolgere la parola a nessuno, guardando il cielo e pensando forse alla perduta libertà delle sue ali mozzate. Ma ora il Celeste era in piedi, diritto e orgoglioso, e uno dei quattro uomini alati venuti dal cielo si posò accanto a lui.

Gli altri si posarono invece sulla piattaforma, ripiegando le ali luminose con un intenso fruscio.

Salutarono Jaxart, chiamandolo per nome, e poi guardarono con palese curiosità la lunga galera nera, e la ciurma di uomini duri e feroci che la governava; ma la loro curiosità si fissò soprattutto, e palesemente, su Carse. C’era qualcosa, in quel loro sguardo penetrante, che ricordò al terrestre gli occhi di Shallah, e quel pensiero gli diede una bizzarra inquietudine, uno strano, prolungato brivido senza un vero motivo.

«Questo è il nostro capo,» disse Jaxart. «Un barbaro che viene di lontano, da regioni selvagge e sconosciute di Marte, ma anche un uomo valoroso, e pronto di spirito e d’ingegno. Certo i Nuotatori vi avranno raccontato tutto, vi avranno narrato in qual modo egli si sia impadronito, allo stesso tempo, della nave e di Ywain di Sark.»

«Sì.» Essi si rivolsero a Carse, e lo salutarono, con espressione grave e solenne.

Il terrestre disse:

«Jaxart mi ha detto che tutti coloro che combattono Sark possono vivere da uomini liberi, nella libertà di Khondor. Io chiedo di potere esercitare questo diritto.»

«E noi porteremo la tua domanda a Rold, che regge il Consiglio dei Re del Mare di Khondor.»

I Khond che si trovavano sul ponte, mescolati alla ciurma, cominciarono a chiamare i Celesti, gridando i loro messaggi, le loro domande, le parole ansiose di uomini che erano stati per troppo tempo lontani da casa e dalle loro famiglie, che avevano conosciuto una dura schiavitù e avevano forse disperato di poter riacquistare un giorno la libertà perduta. Ci furono molte domande, e i Celesti risposero a tutti, con la loro voce limpida e melodiosa, e dopo qualche tempo, quando il tumulto e la commozione si furono quietati, essi spiccarono di nuovo il volo dalla piattaforma, con le grandi ali spiegate, sfrecciando nell’azzurro, sempre più in alto, fino a scomparire in lontananza, come minuscoli punti sfavillanti.

Lorn rimase a prua, diritto, e li seguì con lo sguardo, fino a quando non rimase altro che l’immensità azzurra e deserta del cielo, dall’uno all’altro orizzonte.

«Presto saremo a Khondor,» disse Jaxart, e Carse si voltò, per rispondergli. Ma un oscuro, improvviso istinto lo indusse a voltarsi di nuovo, a guardare verso prua, e allora vide che Lorn era scomparso.

Non c’era alcun segno del Celeste nell’acqua bianca e lucente. Si era gettato in mare in silenzio, e doveva essere affondato di peso, come un uccello che annega, trascinato dal peso delle sue inutili ali.

Jaxart aveva seguito la direzione dello sguardo di Carse, e dopo qualche istante fu lui a rompere il silenzio, borbottando:

«L’ha voluto lui, ed è stato meglio.» Poi aggiunse un’aspra imprecazione contro i Sark, e Carse sorrise, un sorriso amaro e minaccioso a un tempo.

«Coraggio,» disse. «Possiamo ancora batterli, e far pagare loro tutto ciò che hanno fatto. Dimmi… come mai Khondor ha saputo resistere, là dove Valkis e Jekkara sono cadute?»

«Perché neppure le potenti armi scientifiche dei perversi alleati di Sark, dei Dhuviani, possono arrivare fin là. Capirai il perché quando vedrai Khondor.»

Prima di mezzogiorno, avvistarono la terraferma: una lontana costa rocciosa e inaccessibile. Gli scogli s’innalzavano diritti, invalicabili, dal mare, e al di là degli scogli torreggiava una catena di montagne boscose, simile a una titanica muraglia naturale. Di quando in quando, uno stretto fiordo dalle ripide pareti faceva da scudo a un villaggio di pescatori, e qualche altro villaggio sorgeva solitario e isolato sugli alti pascoli erbosi. Milioni di uccelli marini avevano il loro nido sugli erti scogli, circondati da un bianco collare di fiamma e schiuma luminosa.

Carse mandò Boghaz in cabina, a prendere Ywain. Lei era rimasta là, sotto buona guardia, e Carse non l’aveva più vista dal giorno dell’ammutinamento… se non in una occasione.

Era stata la prima notte dopo l’ammutinamento. Carse, insieme a Boghaz e a Jaxart, era stato intento a esaminare gli strani strumenti che avevano trovato nella piccola cabina interna, quella che era stata occupata dal Dhuviano.

«Queste sono le armi Dhuviane, che soltanto i figli del Serpente sanno come usare,» aveva dichiarato Boghaz. «Ora noi sappiamo per quale motivo Ywain non si sia fatta accompagnare da nessuna nave di scorta. Non ne aveva bisogno, quando un Dhuviano era a bordo della sua galera, e portava con sé le sue misteriose armi.

Jaxart guardò gli strani congegni con una mescolanza di disprezzo, di disgusto e di paura.

«La scienza del Serpente maledetto! Dovremmo gettare queste armi in mare, dietro al corpo di quel fetido figlio di Caer Dhu!»

«No,» aveva esclamato Carse, osservando con attenzione gli strumenti. «Se fosse possibile scoprire il funzionamento di queste armi…»

Aveva dovuto ben presto arrendersi alla constatazione che sarebbe stato impossibile scoprire il segreto delle armi Dhuviane, senza uno studio prolungato. Certo, lui era uno scienziato; la sua specializzazione in archeologia planetaria gli aveva permesso di compiere studi approfonditi nelle più diverse discipline scientifiche, e non dubitava che, con un sufficiente periodo di studio, anche il segreto delle armi di Caer Dhu gli sarebbe diventato palese, almeno entro certi limili. Ma sapeva anche che quella era la scienza di un mondo alieno, una scienza perduta da centinaia di secoli, una scienza della quale era scomparso perfino il ricordo. L’impresa sarebbe stata lunga, e certamente non avrebbe potuto tentarla a bordo della galera.

Quegli strumenti erano stati costruiti da una scienza e da una tecnologia aliene, sotto tutti i punti di vista, da una scienza e da una tecnologia che non avevano alcun punto di contatto con quelle della Terra… una scienza e una tecnologia che avevano saputo creare quel vortice nello spazio e nel tempo, che sapevano manipolare la materia e il tempo in un modo che i più grandi scienziati della Terra ancora non riuscivano a sognare. Quelle armi appartenevano alla scienza di Rhiannon, e anzi ne rappresentavano solo una piccola parte… una parte minima, elementare, se doveva dare ascolto alle leggende.

Carse era riuscito a riconoscere il piccolo apparecchio ipnotico che il Dhuviano aveva usato contro di lui, nel buio. Si trattava di una piccola ruota di metallo, che portava incastonate delle stelle di cristallo, e che si poteva far girare con una lieve pressione del dito. E quando aveva messo in moto la ruota, essa aveva sospirato una nota limpida, armoniosa, una sommessa melodia che gli aveva fatto gelare il sangue, al ricordo della terribile prova alla quale era stato sottoposto, e che lo aveva indotto a interrompere frettolosamente l’esperimento, e a riporre in un canto il congegno.

Gli altri strumenti Dhuviani erano, se possibile, ancora più incomprensibili. Uno era formato da una grossa lente, circondata da prismi di cristallo bizzarramente asimmetrici. Un’altra aveva una pesante base di metallo, sulla quale erano montati dei piatti vibratori metallici. Carse aveva potuto intuire soltanto che quelle armi sfruttavano le leggi di scienze ottiche e acustiche aliene e sottili.

«Nessun uomo può comprendere la scienza Dhuviana,» aveva detto Jaxart, in tono tenebroso. «Neppure i Sark, che pure sono alleati del Serpente.»

Il Khond aveva fissato gli strumenti con l’espressione di odio quasi superstizioso che le armi meccaniche suscitavano tra coloro che non avevano una civiltà fondata sulla scienza.

«È possibile, però, che Ywain, figlia del re di Sark, sappia qualcosa su queste armi,» aveva suggerito Carse, pensieroso. «Vale comunque la pena di tentare.»

Era andato allora nella cabina, dove la principessa veniva sorvegliata a vista, animato da quell’intenzione, e ancora pervaso dalla curiosità che la sua mente scientifica provava nei confronti dei singoli congegni Dhuviani. Aveva trovato Ywain seduta nella cabina, con i polsi serrati dalle catene che poco tempo prima anche Carse aveva portato.

Il terrestre era entrato senza far rumore, cogliendola in un atteggiamento di profonda disperazione… Ywain era stata seduta davanti al tavolino, con la testa china e le spalle piegate, e per un istante gli era sembrata l’immagine stessa della stanchezza e dell’umiliazione. Ma poi, nell’udire il rumore della porta che si richiudeva, Ywain si era raddrizzata bruscamente, e sì era voltata a fissarlo negli occhi, da pari a pari. Carse aveva notato, in quel momento, l’estremo pallore del viso di colei che era stata principessa di Sark, e aveva visto come le ombre giocassero sul suo volto, scavato dall’angoscia e dalla sofferenza di quei giorni.

Non le aveva rivolto la parola subito, ma era rimasto a lungo in silenzio. Non aveva provato alcuna pietà, per lei. L’aveva fissata, sprezzante, assaporando il dolce sapore della vittoria, lieto al pensiero che ora l’arrogante Signora di Sark era nelle sue mani, e che lui avrebbe potuto farne tutto ciò che voleva.

Quando le aveva chiesto di dargli qualche spiegazione sulle armi scientifiche dei Dhuviani che avevano trovato a bordo, però, Ywain era scoppiata in una risata aspra, senza alcuna allegria.

«Devi essere davvero un barbaro ignorante, se pensi che i Dhuviani possano avermi istruita nella loro scienza. Uno di essi è venuto da me, per spaventare con quelle terribili armi il re di Jekkara, che stava covando propositi di ribellione. Ma S’San non mi ha neppure permesso di sfiorare con la punta delle dita quegli oggetti.»

Carse aveva creduto alle sue parole. Si accordavano perfettamente con ciò che Jaxart gli aveva detto… e cioè che i Dhuviani custodivano gelosamente le loro armi scientifiche, tenendole segrete anche per i loro alleati, i Sark.

«E inoltre,» aveva aggiunto Ywain, con aperta ironia, «Perché mai dovrebbe interessarti la scienza Dhuviana, se tu possiedi la chiave della scienza infinitamente superiore che è celata nella tomba di Rhiannon?»

«È vero, io possiedo quel segreto,» aveva risposto Carse, e questa risposta aveva cancellato dal volto di Ywain ogni traccia d’ironia.

«Che cosa intendi farne?» aveva chiesto, dopo un breve silenzio.

«Su questo punto, almeno, ho idee ben chiare,» aveva risposto Carse, in tono minaccioso. «Qualunque possa essere il potere che la Tomba di Rhiannon potrà darmi, me ne servirò per combattere Sark e Caer Dhu… e spero che sia sufficiente a distruggere anche l’ultima pietra della tua città!»

Ywain aveva annuito.

«Una buona risposta. E ora… che ne sarà di me? Intendi forse frustarmi, e incatenarmi al remo? O vuoi uccidermi qui?»

Lentamente, Carse aveva scosso il capo, rispondendo alla sua ultima domanda.

«Se avessi voluto farti uccidere subito, avrei dovuto soltanto permettere ai miei lupi di farti a pezzi.»

Lei aveva scoperto i denti, per un momento, in quello che era stato un pallido sorriso.

«Sarebbe stata una misera soddisfazione, per te. Non certo paragonabile a quella che potresti ottenere, uccidendomi con le tue mani.»

«Anche questo avrei potuto farlo, qui, in questa stessa cabina.»

«E infatti hai tentato, ma non l’hai fatto. Bene… e allora?»

Carse non le aveva risposto. In quel momento aveva capito che, qualunque cosa avesse potuto farle, lei lo avrebbe sempre schernito, orgogliosa e beffarda, fino all’ultimo. In quella donna c’era un orgoglio d’acciaio.

Ma lui aveva lasciato un marchio indelebile su di lei, un marchio che neppure il suo orgoglio avrebbe potuto cancellare. La cicatrice che portava sulla guancia sarebbe guarita, e sarebbe impallidita, col tempo, ma non sarebbe mai scomparsa. Ywain non avrebbe mai potuto dimenticarlo, fino a quando fosse rimasta viva. E aveva provato una cupa soddisfazione, una gioia oscura e sorda, al pensiero di averle lasciato quel marchio.

«Non mi rispondi?» aveva detto lei, beffarda. «Per essere un conquistatore, sei molto indeciso!»

Irato, Carse aveva girato intorno al tavolino, per avvicinarsi a lei. Non le aveva risposto neppure allora, perché ancora non aveva trovato in sé una risposta. Ma aveva saputo soltanto di odiarla, come non aveva mai odiato nessuno in vita sua. Si era chinato su di lei, mortalmente pallido, con le mani aperte, avide.

Ywain era balzata in piedi, subitaneamente, e con le mani ad artiglio gli aveva cercato la gola. Le dita della donna erano state forti come l’acciaio, e le unghie erano affondate nella carne del terrestre.

Allora Carse le aveva afferrato i polsi, piegandoli selvaggiamente, per staccare quelle unghie dalla sua gola, e i muscoli delle braccia si erano tesi come corde, per combattere la forza incredibile di quella donna. Lei aveva lottato contro il terrestre, pervasa da una furia indomabile, e dalla forza della disperazione e dell’orgoglio, in silenzio, e poi, d’un tratto, aveva ceduto, rimanendo inerte e passiva. Aveva socchiuso le labbra, come per respirare meglio, e improvvisamente Carse le aveva chiuso la bocca con la sua.

Non c’era stato amore, né tenerezza, in quel bacio. Era stato un gesto di disprezzo virile, brutale e pieno d’odio. Eppure, per uno strano, breve momento, Ywain era rimasta passiva, accettando quel bacio… e poi aveva affondato i bianchi denti aguzzi nel labbro inferiore dell’uomo, mordendolo crudelmente, e la bocca di Carse si era riempita del sapore dolciastro e amaro del sangue, e lei aveva riso, una risata crudele, ironica, sprezzante.

«E ora, lurido barbaro,» aveva bisbigliato, «Anch’io ho impresso il mio marchio su di te.»

Carse era rimasto immobile a fissarla, per un lungo momento. Poi aveva alzato le braccia, e aveva brutalmente afferrato Ywain per le spalle, e la sedia era caduta, con un sordo fragore, dietro a lei, per la violenza del gesto.

«Avanti!» gli aveva detto lei, ansando. «Avanti, se ti fa piacere!»

Avrebbe voluto spezzarla con le sue mani. Avrebbe voluto…

L’aveva scostata da sé, con violenza, mandandola a sbattere contro la parete, e poi era uscito, e da quel momento non aveva più varcato la soglia della cabina.

E ora, stava accarezzando la cicatrice ancora fresca sul suo labbro, e osservava Ywain, che saliva sul ponte insieme a Boghaz. Si teneva diritta, nel suo usbergo gemmato, orgogliosamente eretta, come una regina, ma le linee intorno alla sua bocca erano più profonde, e gli occhi, malgrado tutto il suo amaro orgoglio, erano tristi.

Carse non andò da lei. Ywain fu lasciata sola con il suo guardiano, e Carse continuò a fissarla, nascostamente. Era così facile immaginare i pensieri che si agitavano nella sua niente. Lei sfava pensando a ciò che si provava stando sul ponte della propria nave, come una prigioniera. Lei stava pensando che quella cupa, dirupata costa che appariva lontano, davanti alla nave, era il simbolo della fine di tutti i suoi viaggi. Lei stava pensando che ormai era giunto il momento di morire.

E allora, dall’albero maestro, venne un grido acuto, gioioso.

«Khondor!…»

Dapprima, Carse poté vedere soltanto una grande rupe scoscesa, che torreggiava altissima sulle onde bianche, simile a un promontorio che sporgeva tra due fiordi. Poi, da quella rocca apparentemente spoglia, impervia e inabitabile, si levò un gran volo di Celesti, che si avvicinarono battendo le grandi ali nel vento, in così gran numero che l’aria parve pulsare di quel possente battito d’ali. E vennero anche i Nuotatori, come uno sciame di piccole comete che lasciavano una lunga coda di fiamma bianca sulle acque ondulate. E dall’imboccatura dei fiordi uscirono delle lunghe navi, più piccole e più snelle della galera, veloci come creature marine, con le fiancate protette da grandi scudi.

Il viaggio era finito. La nera galera di Sark venne scortata a Khondor, tra alte grida e acclamazioni.

E ora, Carse poteva comprendere il senso delle parole di Jaxart. La natura aveva costruito, con quello scoglio, una fortezza virtualmente inespugnabile, una fortezza difesa da ogni attacco proveniente dalla terraferma da una muraglia di invalicabili montagne, e difesa da ogni attacco proveniente dal mare da una scogliera proibitiva e inaccessibile, e con una sola via d’accesso, costituita dallo stretto fiordo tortuoso che si apriva a nord. E anche quell’apertura era protetta da grandi baliste, che avrebbero trasformato il fiordo in una trappola mortale per qualsiasi nave nemica vi si fosse avventurata.

Il canale tortuoso si allargava, alla fine, in una rada chiusa, protetta dalla roccia e dalla terra, un porto sicuro, che neppure il vento poteva attaccare. Le navi pirate dei Khond, i battelli da pesca, e una varietà d’imbarcazioni di provenienza straniera, riempivano il bacino, e la nera galera da guerra scivolò in mezzo a loro come una regina, verso l’ormeggio.

I moli e le scalinate ripidissime che portavano in alto, sulla sommità della rocca, ed erano unite grazie a gallerie coperte con la parte superiore della città, brulicavano di folla… c’era tutta la popolazione di Khondor, e c’erano le tribù alleate che avevano chiesto e trovato rifugio presso i Khond. Erano gente dall’aspetto rude e violento, dai corpi forti e solidi, e piacquero subito a Carse. Gli scogli e le montagne riecheggiavano delle loro alte grida di saluto e delle loro acclamazioni, che rimbalzavano tra le rocce impervie con la potenza del tuono.

Protetto da quel tremendo frastuono, Boghaz si affrettò a dire ansiosamente a Carse, per la centesima volta:

«Lasciami contrattare, per il nostro segreto! Posso ricavarne un regno per ciascuno di noi… e, se vuoi, molto di più!»

E per la centesima volta Carse rispose:

«Non ti ho mai detto di conoscere il segreto. E, anche se lo conoscessi, sarebbe mio.»

Boghaz imprecò, in un parossissmo di frustrazione, e domandò agli dei che cosa avesse mai fatto per meritare un simile trattamento.

Per un attimo, Ywain si voltò, e guardò negli occhi il terrestre, ma poi distolse subito lo sguardo.

Nuotatori a centinaia, ammantati di spuma luminescente, Celesti con le loro superbe ali ripiegate… e per la prima volta Carse vide le loro donne, creature di una bellezza così squisita, così incredibilmente perfetta, che faceva male guardarle… e poi, gli alti e biondi Khond, e gli uomini e le donne di tribù straniere, un caleidoscopio di colori e di metallo sfavillante. Le grandi funi di ormeggio vennero lanciate dai moli, furono raccolte dai marinai e assicurate saldamente agli anelli di metallo. E allora la galera catturata si fermò giunta finalmente in porto.

Carse scese a terra, alla testa della sua ciurma, e Ywain camminò eretta al suo fianco, portando le catene come se fossero state dei preziosi ornamenti d’oro, che lei aveva scelto di sua volontà per soddisfare una sua vanità.

Sul molo c’era un gruppo di uomini, un gruppo che rimaneva isolato dalla folla osannante, e che aspettava i nuovi arrivati. Era un manipolo di uomini duri e rudi, e guardandoli si aveva l’impressione che nelle loro vene l’acqua di mare scorresse al posto del sangue… erano incalliti veterani di molte battaglie, alcuni dal volto fiero e solenne, altri dal volto rosso e gioviale, e uno di loro aveva il volto e il braccio destro orribilmente sfigurati e segnati da molte cicatrici.

In mezzo a loro si ergeva un Khond alto e severo, il cui aspetto faceva pensare a un fulmine prigioniero della carne, con i capelli del colore del mare, e al suo fianco c’era una fanciulla vestita di una lunga veste azzurra.

I lisci capelli biondi della fanciulla erano raccolti dietro la nuca in una rete di oro puro, e tra i seni, lasciati scoperti dalla lunga veste, splendeva solitaria una enorme perla nera. Teneva la mano sinistra appoggiata alla spalla di Shallah, la Nuotatrice.

Come tutti gli altri, la fanciulla stava guardando con più interesse Ywain che non Carse. Allora egli si rese conto, con un senso di amarezza, che tutta quella folla si era radunata non tanto per accogliere lo sconosciuto barbaro che aveva compiuto quella clamorosa impresa, bensì per vedere in catene l’altezzosa figlia di Garach di Sark.

II Khond dalle lunghe chiome fulve conservava a sufficienza il senso dell’ospitalità per rivolgere a Carse il segno della pace, e annunciare:

«Io sono Rold di Khondor. Noi, i Re del Mare, ti diamo il benvenuto.»

Carse rispose al saluto, ma si accorse che l’altro non gli prestava più attenzione, preso com’era dal selvaggio piacere ch’egli traeva dalla visione dello stato umiliante in cui era ridotta la sua grande nemica.

Avevano molte cose da dirsi, Ywain e i Re del Mare.

Carse guardò di nuovo la fanciulla. Aveva udito il saluto che Jaxart le aveva rivolto, con voce velata dall’emozione, e da esso aveva saputo che si trattava di Emer, la sorella di Rold.

Non aveva mai visto, prima di allora, nessuna donna simile a lei. C’era intorno a lei qualcosa, un’aura sottile, che le dava l’aspetto della fata, di un elfo, di una creatura magica e incantata che viveva nel mondo degli uomini solo per cortesia, o forse soltanto per un capriccio, e che avrebbe potuto andarsene di là in qualsiasi momento, a piacimento, ritornando nel magico, fatato mondo dal quale era venuta.

I suoi occhi erano grigi e tristi, ma la sua bocca era dolce, e pareva fatta solo per il sorriso. Il suo corpo possedeva la stessa grazia agile, leggera, che Carse aveva notato nel corpo degli Halfling, eppure si tratta senza ombra di dubbio di un corpo umano, del corpo di una donna dalla bellezza purissima, eccezionale, e delicata.

E c’era anche dell’orgoglio, in lei… un orgoglio pari a quello di Ywain, anche se le due donne erano così diverse tra loro. Ywain era tutta splendore e fuoco e passione, era una splendida rosa dai petali rossi come il sangue. E Carse poteva comprendere Ywain. Poteva giocare il suo stesso gioco, e vincerla, perché essi parlavano la stessa lingua.

Ma si rese conto, fin dal primo istante in cui la vide, che egli non avrebbe mai potuto comprendere Emer. Lei faceva parte di tutte le cose che egli aveva lasciato dietro di sé tanto, tantissimo tempo prima. La fanciulla era la musica perduta, e i sogni dimenticati, era la pietà e la tenerezza, era tutto quel mondo vago e delicato che egli aveva potuto scorgere nei primi anni dell’infanzia, e che da allora non aveva visto mai più.

Improvvisamente, la fanciulla sollevò lo sguardo, e lo vide. I suoi occhi incontrarono quelli del terrestre… li incontrarono, e vi si fissarono, e non vollero lasciarli. Egli vide cambiare la loro espressione. Vide ogni traccia di colore svanire lentamente dal suo viso, fino a quando quel viso non fu soltanto una maschera di neve. E sentì la sua voce, che gli rivolgeva una sommessa domanda:

«Chi sei?»

Lui chinò il capo, e rispose:

«Signora, io sono Carse il barbaro.»

Vide le dita di lei affondare nella soffice pelliccia di Shallah, e vide che gli occhi della Nuotatrice lo fissavano, con quello sguardo dolce e ostile a un tempo, che ricordava così bene. La voce di Emer rispose, in un bisbiglio quasi inaudibile:

«Tu non hai nome. Tu sei come ti ha descritto Shallah… uno straniero.»

Qualcosa, nel modo in cui ella pronunciò la parola straniero, la fece sembrare piena di misteriose, soprannaturali minacce. Ed era così vicina, così incredibilmente vicina alla verità.

D’un tratto, Carse capì che quella fanciulla possedeva lo stesso potere extrasensoriale degli Halfling, e che quel potere si era sviluppato, nel suo cervello umano, raggiungendo una forza ancor maggiore.

Malgrado il brivido che lo percorreva, si sforzò di ridere apertamente, a quelle parole:

«Devono esserci molti stranieri a Khondor, in questi giorni.» Lanciò un’occhiata alla Nuotatrice. «Shallah non ha fiducia in me, non so perché. Ti ha detto anche che porto con me un’ombra oscura, dovunque io vada?»

«Shallah non aveva bisogno di dirmelo,» mormorò Emer. «Il tuo viso è soltanto una maschera, e dietro la maschera si nascondono un buio e un desiderio… ed essi non appartengono a questo mondo.»

Si avvicinò a lui, a passi lenti, come se fosse stata irresistibilmente attirata, contro la sua volontà. Carse vedeva lo scintillare lieve del sudore che le imperlava la fronte, e bruscamente, improvvisamente, cominciò egli stesso a tremare, un tremito che veniva dal profondo, e che non apparteneva alla carne.

«Vedo… riesco quasi a vedere…»

Non voleva che la fanciulla dicesse altro. Non voleva sentire altro.

«No!» gridò. «No!…»

D’un tratto Emer cadde in avanti, appoggiandosi a lui con tutto il suo peso. Il terrestre la sostenne, e la fece adagiare, piano, sulla grigia roccia, dove lei giacque immobile, immersa in un’incoscienza che assomigliava stranamente a quella della morte.

Impotente, turbato, Carse s’inginocchiò accanto a lei, ma Shallah gli disse, a bassa voce:

«Mi occuperò io di lei.»

Allora Carse si alzò, e subito i Re del Mare furono intorno a loro, come aquile spaventate e ansiose.

«La vista era su di lei,» disse Shallah ai Re del Mare.

«Ma non l’aveva mai presa così, prima d’oggi,» disse Rold, in tono ansioso. «Che cosa è accaduto? Io pensavo soltanto a Ywain.»

«Ciò che è accaduto, è accaduto tra la Signora e lo straniero,» disse Shallah. Sollevò il corpo inerte della fanciulla con le sue braccia forti, e si allontanò con il suo fardello vivo.

Carse sentì che quella strana paura interiore gli raggelava ancora il corpo e lo spirito. La «vista», l’avevano chiamata. Ed era veramente una vista, non una visione soprannaturale nata dalla superstizione di un mondo barbaro o da qualche mente allucinata di profeta, anzi, non era per nulla innaturale… era la manifestazione di facoltà extrasensoriali molto forti, quelle facoltà delle quali si conosceva bene l’esistenza, ma che nessuno aveva saputo spiegare o isolare scientificamente. E quella vista mentale aveva frugato nelle profondità della sua mente, e aveva trovato…

Una subitanea reazione di collera si impadronì di Carse, ed egli disse:

«Un magnifico benvenuto, davvero! Tutti noi siamo stati messi in disparte, perché voi poteste vedere meglio Ywain, e poi tua sorella sviene non appena mi vede!»

«Per gli dei!» esclamò Rold. «Perdonaci… non avevamo alcuna intenzione di offenderti. In quanto a mia sorella, sta troppo con gli Halfling, e come loro si perde troppo nei sogni della mente.»

Poi alzò la voce, e disse:

«Ehilà, Barbadiferro! Vediamo di rimediare al nostro comportamento!»

Il più grande dei Re del Mare, un grigio gigante dalla risata aspra e forte come il vento del nord, si’ fece avanti, e prima che Carse potesse comprendere le loro intenzioni, essi avevano issato sulle spalle il terrestre, cominciando a marciare con lui lungo il molo, in modo che tutti lo vedessero.

«Udite, gente di Khondor!» tuonò Rold. «Udite!»

Al suono di quella voce possente, la folla zittì.

«Questo è Carse, il barbaro. Egli ha catturato la galera… egli ha preso prigioniera Ywain… egli ha ucciso il Serpente! Come lo salutate?»

Il loro saluto per poco non fece crollare le montagne. I due giganteschi Re del Mare portarono Carse su per gli scalini, e non vollero posarlo di nuovo a terra. La gente di Khondor li seguiva, e tra quella gente marciavano gli uomini della galera, che i Khond avevano accettato come fratelli. Dalla sua posizione, Carse riuscì a scorgere per un momento Boghaz, tra la folla, con un sorriso di beatitudine sul grasso volto porcino… un Boghaz che con ciascun braccio circondava la vita di una ragazza ridente e maliziosa.

Ywain camminava sola, al centro di una silenziosa scorta composta dai Re del Mare. L’uomo sfigurato, e dalle profonde cicatrici, la guardava con occhi fissi, pieni d’odio, un odio che pareva sconfinare nella follia.

Rold e Barbadiferro deposero a terra Carse, quando furono alla sommità della scalinata, ansimando.

«Sei pesante, amico mio,» ansimò Rod, sogghignando. «E allora… la nostra penitenza ti ha soddisfatto?»

Carse imprecò, vergognandosi profondamente di quanto era accaduto. Poi dimenticò ogni altra cosa, e fissò, con immenso stupore, la città di Khondor.

Era una città monolitica, scavata nella roccia stessa; la cresta della roccia si era spaccata, probabilmente a causa di qualche spaventoso movimento sismico di assestamento, che risaliva ad epoche ancor più remote della preistoria di Marte. Lungo tutte le pareti interne del crepaccio si aprivano delle porte, e imboccatare di gallerie, un perfetto alveare di abitazioni e di vertiginose scalinate a strapiombo.

Coloro che erano stati troppo vecchi o deboli per compiere la lunga discesa fino al porto, per accogliere i nuovi arrivati, ora li acclamavano dalle gallerie o dai vicoli stretti e dalle anguste piazze.

Il vento del mare soffiava freddo e violento, a quell’altezza, ululando e gemendo nelle strade di Khondor, un ululato e un gemito che non si arrestavano mai, e si mescolavano in un perenne, malinconico concerto, con il rombare delle onde, in basso. Sui picchi più alti c’era un continuo andare e venire di Celesti, che parevano amare i luoghi più elevati, come se le strade fossero state troppo anguste e soffocanti per le loro grandi ali. Essi si lanciavano nell’aria, si lasciavano afferrare dalle mani del vento, planavano lenti e armoniosi nell’azzurro, in lunghi voli, strane piroette, improvvise impennate, descrivendo strani arabeschi e giochi sconosciuti nell’aria, giochi interrotti dalle loro armoniose risate.

Verso l’entroterra, Carse poté scorgere dei verdi campi e dei pascoli, saldamente serrati tra le braccia delle montagne. Guardando quella scena strana e bellissima, provò in cuor suo la certezza che quella città avrebbe potuto sostenere un assedio anche per tutta l’eternità.

Percorsero i sentieri rocciosi, insieme al popolo di Khondor, che sciamava gioiosamente dietro di loro, riempiendo la città soprannaturale di grida festanti e di risate. Poi giunsero in una grande piazza, con due massicci porticati che si ergevano l’uno di fronte all’altro, su due lati. Davanti a uno di essi c’erano delle colonne scolpite, dedicate al Dio delle Acque e al Dio dei Quattro Venti. Davanti all’altro garriva nel vento una bandiera dorata, sulla quale era ricamata l’aquila di Khondor.

Sulla soglia del palazzo, Barbadiferro diede un amichevole colpo sulla spalla del terrestre, un semplice buffetto che fece barcollare Carse.

«Ci saranno molti e gravi discorsi questa notte, mentre il Consiglio sarà riunito a banchetto. Ma prima, avremo tutto il tempo per ubriacarci come conviene. Che ne dici?»

E Carse rispose:

«Andiamo!»

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