Lo sguardo di Ywain non si staccava dal volto di Carse, anche mentre la donna si rivolgeva a Scyld.
«Quest’uomo conosce il segreto della Tomba di Rhiannon, Scyld. Non può essere diversamente, perché egli possiede la spada.»
S’interruppe, e quando riprese a parlare, la sua voce fu soltanto un sussurro lieve, un mormorio che pareva esprimere i pensieri più riposti dell’anima.
«Si tratta di un segreto pericoloso. Così pericoloso che io vorrei quasi…»
Di nuovo s’interruppe, questa volta bruscamente, come se l’improvviso timore di avere detto troppo l’avesse pervasa. Era soltanto un effetto della fantasia di Carse, oppure Ywain aveva lanciato una rapida occhiata in direzione della porta socchiusa?
Fu solo un momento. Riprendendo il suo tono imperioso e arrogante, lei si rivolse a Carse.
«Ti concedo un’altra occasione, schiavo,» disse. «Dov’è la Tomba di Rhiannon?»
Ostinatamente, Carse scosse il capo.
«Io non so niente,» disse, e si appoggiò alla spalla di Boghaz, perché la stanchezza e la sofferenza e le emozioni stavano giocando un gioco crudele su di lui, e temeva di scivolare nell’incoscienza da un momento all’altro. Dei sottili rivoletti rossi, nei quali sudore e sangue si mescolavano, erano discesi lungo il suo corpo, e già avevano macchiato il tappeto che copriva il pavimento della cabina. Il volto di Ywain pareva lontanissimo, e danzava davanti ai suoi occhi stanchi, celato in parte da una nebbia color del crepuscolo.
Scyld disse, con voce aspra:
«Dallo a me, Altezza. Ci penserò io a farlo parlare.»
«No. Ormai è in uno stato tale che i tuoi metodi potrebbero ucciderlo… e per ora, non voglio che muoia. Prima dovrà rivelare il suo segreto. Devo riflettere.»
Pensierosa, guardò prima Carse, poi Boghaz, poi di nuovo il terrestre.
«A quanto pare, non amano molto remare. Benissimo. In questo caso, togli dal loro remo il terzo schiavo. Obbliga questi due uomini a remare per tutta la notte, senza aiuto. E di’ a Callus di frustare quello grasso due volte ogni clessidra, cinque colpi per volta.»
Boghaz gemette.
«Pietà, Altezza, pietà!» implorò. «Ti ho già detto tutto quello che so. Parlerei, se sapessi qualcosa di più, lo giuro!»
Lei alzò le spalle.
«Forsi dici la verità. In questo caso, le frustate ti indurranno a fare del tuo meglio, per persuadere il tuo compagno a parlare.» Si rivolse di nuovo a Scyld. «E di’ anche a Callus di annaffiare con acqua di mare quello alto, quando gli sembrerà necessario.» I suoi denti bianchissimi lampeggiarono, rivelati da un sorriso crudele. «L’acqua di mare è nota per le sue proprietà curative.»
Scyld rise.
Ywain gli fece cenno di andarsene.
«Provvedi aftinché i miei ordini siano eseguiti con ogni cura, ma ricorda bene che questi due uomini non devono in nessun caso morire. Quando saranno pronti a parlare, portali qui da me.»
Scyld salutò militarmente, e ricondusse i suoi prigionieri al loro posto, nella fossa dei rematori. Jaxart fu slegato dal remo, e condotto verso un altro banco, custodito da quattro robusti soldati; e per Carse, da quel momento, ricominciò l’incubo angoscioso delle ore notturne.
Boghaz era scosso, e il suo enorme corpo tremava. Urlò di dolore, con tutta la forza dei suoi polmoni, quando ricevette i suoi cinque colpi di scudiscio, e poi, quando la prima punizione fu terminata, mormorò all’orecchio di Carse, in tono ansioso:
«Maledetto il momento in cui i miei occhi hanno visto la tua dannata spada! Ci farà finire a Caer Dhu… e che tutti gli dei abbiano misericordia di noi, allora!»
Carse scoprì i denti, in quello che fu il pallido fantasma di im sorriso.
«A Jekkara parlavi molto diversamente.»
«A Jekkara ero un uomo libero, e i Dhuviani erano molto lontani.»
Nell’udire quel nome, qualcosa si contrasse, nelle profondità più segrete della mente di Carse… una specie di palpito nascosto, che fece fremere tutto il suo corpo. Disse, con voce strana, soffocata:
«Dimmi, Boghaz, cos’era quell’odore, nella cabina?»
«Odore? Io non ho sentito niente.»
È strano che lui non abbia sentito niente, pensò Carse, Quando per poco quell’odore non mi ha fatto impazzire. Ma forse sono già impazzito. Forse la prova è stata troppo dura, per me.
«Jaxart aveva ragione, Boghaz.» disse poi, sommessamente, ma in modo che il grasso Valkisiano potesse udirlo. «Ywain tiene nascosto qualcosa là, nella cabina interna.»
Con una traccia d’irritazione nella voce, Boghaz rispose:
«Credi che gli amori di Ywain mi interessino, nella situazione in cui ci troviamo? Per me, potrebbe tenere un reggimento di amanti, nella sua cabina.»
Continuarono a remare in silenzio per qualche tempo, ciascuno immerso nei suoi pensieri, ciascuno curvo sul remo. Poi Carse ruppe improvvisamente quel silenzio con una domanda:
«Chi sono i Dhuviani?»
Per un istante, Boghaz si voltò a fissarlo, pur continuando a remare. I suoi occhietti si erano spalancati per la sorpresa.
«Ma da dove vieni in realtà, amico?» chiese poi, lentamente.
«Già te l’ho detto… vengo da un paese molto lontano, al di là del Shun.»
«Deve trattarsi di un paese molto lontano davvero, se là non avevi mai sentito parlare di Caer Dhu e del Serpente maledetto!»
Boghaz tacque ancora per qualche minuto, poi, continuando a remare, sì strinse nelle spalle.
«Ora sono convinto più che mai che tu stia giocando qualche tuo gioco complicato, per chissà quale scopo recondito. Tutta questa pretesa ignoranza… ma in fondo, io non ho nulla da perdere. E posso assecondarti, se preferisci.» Dopo qualche altra bracciata, sbuffando, il grasso Valkisiano continuò, «Saprai almeno che da un’epoca immemorabile esistono sul nostro mondo dei popoli umani, e, insieme a essi, dei popoli non del tutto umani, gli Halfling. Tra i popoli umani, primeggiava il grande popolo dei Quiru, maestri di ogni scienza e di ogni dottrina; la loro fama è stata tramandata nel corso delle epoche, tanto che ancora oggi essi vengono onorati come superuomini.
«Ma fin dal passato immemorabile sono esistiti anche gli Halfling… le razze che hanno un aspetto quasi umano, ma che non discendono dallo stesso ceppo dell’uomo. I Nuotatori, a esempio, che discendono dalle creature del mare, e i Celesti, che discendono dalle creature alate… e i Dhuviani, che discendono dal serpente.»
Un brivido gelido percorse il corpo di Carse. Perché mai tutto questo, che lui udiva ora per la prima volta, gli sembrava già conosciuto e familiare? Perché quelle parole evocavano echi di strani ricordi, di strani sentimenti, in lui? Certamente lui non aveva mai udito, prima di quel giorno, la storia di quell’antica evoluzione marziana, di quelle razze di ceppo intrinsecamente alieno che si erano evolute, fino ad assumere superficialmente un aspetto quasi umano. Anche se ne aveva gli esempi sotto gli occhi… i Nuotatori e i Celesti… per lui si trattava di qualcosa di nuovo, di qualcosa che era andato perduto, su Marte, tranne che, forse, nell’eco remotissima di qualche impossibile leggenda. Se gli avessero parlato di quelle cose qualche giorno prima, la mente di Carse, la mente dell’archeologo e dello studioso, si sarebbe ribellata a un’ipotesi così fantastica e così assurda, sull’ancestrale passato del pianeta rosso. No, non aveva mai udito niente di simile, in passato… ma era proprio vero? O forse lui già sapeva tutto questo?
«I Dhuviani furono sempre industriosi e saggi, come il serpente dal quale essi discendono,» stava dicendo Boghaz, ansando. «Così grande era la loro abilità, così sincero appariva il loro desiderio di conoscere, che essi convinsero Rhiannon dei Quiru a insegnar loro una parte della sua antica scienza.
«Una parte, ma non tutto! Eppure, ciò che essi appresero fu sufficiente a far sì che essi potessero rendere inespugnabile la loro nera città di Caer Dhu, e potessero anche intervenire, di quando in quando, con le loro armi scientifiche, facendo dei Sark, i loro alleati, la nazione umana dominante del nostro mondo.»
«E fu questo il peccato di Rhiannon?» domandò Carse.
«Sì, fu questo il peccato del Maledetto, che nel suo orgoglio aveva osato sfidare gli altri Quiru, i quali l’avevano ammonito a non rivelare neppure una piccola parte dei suoi poteri ai Dhuviani. E fu per questo peccato che gli altri Quiru condannarono Rhiannon, e lo rinchiusero in una tomba segreta, prima di lasciare il nostro mondo. Almeno, così dice la leggenda.»
«Ma i Dhuviani sono anch’essi una leggenda, oppure no?»
«No, che gli dei li possano maledire per sempre!» borbottò Boghaz. «I Dhuviani sono veri e concreti, e sono il motivo per cui tutti gli uomini liberi odiano i Sark, che hanno stretto una malefica alleanza con il Serpente.»
Furono interrotti dal sopraggiungere di uno schiavo, un Celeste dalle ali mozzate, che si chiamava Lorn. Era stato mandato da Callus a riempire un secchio di acqua di mare, e adesso stava ritornando, con il secchio pieno.
Questa volta, l’uomo alato parlò, e anche in quelle condizioni la sua voce serbava un poco di melodia, un poco di libera armonia, e faceva intuire quale meraviglioso canto sarebbe stata, se il Celeste avesse potuto aprire le sue ali e balzare verso il cielo.
«Sarà una prova dolorosa, straniero. Cerca di sopportarla, se ti sarà possibile… perché ti aiuterà.» Sollevò il secchio. La bianca acqua di mare, che conservava una strana, intensa luminescenza, si riversò sulla schiena e sul corpo di Carse, dandogli per qualche tempo un aspetto spettrale, rivestendolo di fiamma fredda e pulsante.
Un fiamma che pareva fredda, ma non sul corpo del terrestre.
In quel momento, Carse capì il motivo del sorriso crudele di Ywain, quando aveva impartito gli ordini a Scyld; e capì il motivo dell’aspra risata del soldato. Qualunque fosse la sostanza chimica che dava al mare quella soprannaturale, indescrivibile fosforescenza, essa poteva avere delle prodigiose proprietà curative, ma in questo caso la cura era infinitamente peggiore del male. L’acqua era come un acido corrosivo, un acido che pareva bruciare e divorare la carne, penetrando fino alle ossa. Carse chiuse gli occhi, e strinse i denti, cercando di sopportare quel nuovo, atroce dolore.
Le ore della notte passarono lente, interminabili, e dopo qualche tempo Carse sentì che il dolore diminuiva, che l’agonia si faceva un po’ meno intollerabile. Si accorse che le ferite non sanguinavano più, e l’acqua cominciava a dargli un senso di frescura. Con sua sorpresa, vide sorgere la seconda alba sul Mare Bianco, in uno spettacolo fantasmagorico di luci e colori che i suoi occhi non avevano più sperato di rivedere.
Poco dopo il sorgere del sole, dall’albero maestro giunse il grido della vedetta. I Banchi Neri erano in vista.
Attraverso il portello del remo, Carse poté scorgere una distesa vasta e tumultuosa d’acque inquiete e di spuma luminescente, uno spumeggiare pauroso che si stendeva per chilometri e chilometri. Nella schiuma rugghiante apparivano rocce e scogli, banchi rocciosi irregolari e neri artigli contorti.
«Non cercheremo certamente di passare per quell’inferno!» esclamò Carse, attonito e spaventato, alla vista di quella paurosa distesa di scogli micidiali e di schiuma impetuosa.
«È la rotta più breve per Sark,» disse Boghaz. «In quanto alla possibilità di passare attraverso i Banchi… per quale, motivo credi che ogni galera Sark porti a bordo dei prigionieri Nuotatori?»
«Me lo sono chiesto, infatti.»
«Be’, tra poco vedrai.»
Ywain apparve sul ponte, e Scyld la raggiunse immediatamente. Né l’una né l’altro si degnarono di abbassare lo sguardo sulla fossa dei rematori, e sulle due figure stanche, curve che faticavano da sole sull’enorme remo.
Immediatamente, Boghaz gemette, in tono querulo:
«Pietà, Altezza!»
Ywain non prestò alcuna attenzione a quella supplica. Si rivolse a Scyld, e impartì un ordine secco:
«Fa’ rallentare la battuta, e manda giù i Nuotatori.»
Due soldati si avvicinarono a Naram e Shallah, e aprirono le catene che serravano le caviglie e i polsi dei due Nuotatori prigionieri. Non appena furono liberi, i due schiavi corsero via. Ai loro colli c’era un collare di metallo, al quale era attaccata una lunghissima catena di filo metallico, assicurata a sua volta a un anello di ferro infisso sul ponte del castello di prua.
Senza paura, senza neppure un attimo di esitazione, i due Nuotatori si tuffarono nelle acque spumeggianti, e i sottili cavi metallici cominciaarono, dopo qualche tempo, a tendersi, mentre Carse poteva vedere di quando in quando la testa dei due Nuotatori galleggiare come sughero tra i flutti, sempre più avanti. I due stavano nuotando, con sicurezza incredibile, in quella terribile distesa di rocce e scogli e onde tumultuose, stavano precedendo la galera nei rombanti Banchi.
«Vedi?» disse Boghaz. «Tra i Banchi, esiste un canale naturale… un passaggio, nel quale la galera potrà procedere senza correre il rischio di urtare ima roccia, e affondare. E loro riescono a trovare il passaggio, nuotando davanti alla nave. Con il loro aiuto, non esistono scogliere abbastanza pericolose, o rapide abbastanza mortali, da fermare una nave.»
Nel cupo, lento rullare del tamburo, che scandiva la battuta per i rematori, la galera nera avanzava tra le acque tumultuose.
Ywain era in piedi, diritta, con i capelli agitati dal vento, e l’usbergo che riluceva nel sole… ed era accanto al timoniere. Sia lei che Scyld guardavano avanti, con occhi socchiusi, per vedere meglio, per proteggersi dal riverbero delle bianche acque. Le acque agitate scorrevano intorno alla chiglia, la sollevavano con l’impeto delle onde, sibilavano e soffiavano e rombavano a ogni istante, a un certo punto, un remo urtò uno scoglio, spezzandosi. Ma lentamente, lentamente, attraverso il dedalo bianco e mortale dei Banchi, la galera riuscì a trovare la strada, e a raggiungere la salvezza.
Il passaggio, però, fu lungo e laborioso. Il sole saliva lentamente nel cielo, verso lo zenit. A bordo della galera, c’era una forte tensione, un’atmosfera di pericolo incombente, di attesa del peggio, che pareva una cosa viva, una stretta fisica intorno alla gola di ciascuno.
Carse riuscì a udire soltanto confusamente il rombo minaccioso delle onde che si frangevano sugli scogli, mentre lui e Boghaz lottavano ostinatamente, ciecamente con un remo che si era fatto troppo pesante, troppo ribelle, ora che anche le acque tempestose univano la loro forza a quella del legno, per frustrare gli sforzi dei due uomini. Era una specie di musica di morte, di minaccia, e pareva quasi che le onde rombassero seguendo il battito lento, grave del tamburo, fondendosi in un universo pulsante, nel quale solo il remo aveva importanza, solo il remo e la battuta e il sudore che scendeva copioso lungo il corpo, dalla fronte, sugli occhi. Il grasso Valkisiano pareva trovare, nella fatica, la forza per dare voce ai suoi lamenti; borbottava tra sé di continuo, gemendo e piagnucolando e maledicendo. Carse sentiva le braccia di piombo, e gli pareva che il suo cervello fosse serrato da una morsa d’acciaio.
Ma finalmente la galera ritrovò delle acque tranquille, dove le onde erano solo un dolce, placido rollio, e la bianca distesa del mare era appena increspata dalla brezza. I Banchi Neri erano passati, una massa biancheggiante e confusa ormai lontana, a poppa. Il rombo minaccioso e cupo che giungeva dalla strana scogliera era attutito, lontano. Le catene di filo di ferro vennero tirate a bordo, e, con esse, i Nuotatori risalirono sul ponte, per essere nuovamente incatenati al loro posto.
Allora, per la prima volta, Ywain abbassò lo sguardo sulla fossa dei rematori, sugli schiavi esausti chini sui remi.
«Date loro un po’ di riposo!» ordinò, rivolgendosi ai sorveglianti. «E… Scyld, ora voglio parlare di nuovo con quei due.»
Carse seguì con lo sguardo Scyld, che attraversava il ponte e discendeva rapidamente la scaletta. Dentro di sé, il terrestre avvertiva un cupo presentimento, e uno strano senso d’angoscia.
Lui non voleva ritornare in quella cabina. Lui non voleva rivedere quella porta socchiusa, con quella fessura che pareva irriderlo e schernirlo, e soprattutto non voleva più sentire quell’odore sgradevole, nauseabondo.
Ma lui e Boghaz vennero di nuovo slegati, e condotti a prua, e non c’era niente, niente che egli potesse fare per opporsi ai soldati che lo scortavano.
La porta della cabina si chiuse alle loro spalle, con uno scatto che parve stranamente definitivo, irrevocabile. Scyld, Ywain dietro il tavolino intarsiato, con la spada di Rhiannon che scintillava nel chiarore delle torce. Lo stesso odore che aleggiava nell’aria. E la porticina bassa della cabina interna, appena socchiusa… appena socchiusa. Immagini, immagini, immagini, quasi come la prima volta… e l’odore, e il pensiero, il pensiero dietro le immagini.
Le immagini si animarono. Il silenzio fu spezzato.
Ywain parlò.
«Hai avuto un primo assaggio di quel che ti posso fare,» disse lei. «Vuoi anche il secondo? O preferisci dirmi, adesso, dove si trova la Tomba di Rhiannon, e cosa vi hai trovato?»
Carse rispose, con voce piatta, priva d’inflessioni:
«Ti ho già detto che non lo so.»
Ma non stava guardando Ywain. La porta interna lo affascinava, tratteneva il suo sguardo irresistibilmente. Qualcosa, nei recessi più profondi della sua mente, parve riscuotersi, e destarsi. Qualcosa di oscuro e di inesplicabile. Era una prescienza, un odio immenso, un orrore innominabile, un tumulto che lui non riusciva a capire.
Ma riusciva a capire ugualmente, fin troppo bene, che quello era il momento culminante, il momento della fine. Un brivido profondo percorse il suo corpo, ed egli s’irrigidì, senza volerlo.
«Che cos’è tutto questo, che io non conosco e che pure quasi mi sembra di ricordare?»
Ywain si protese verso di lui, ansiosa.
«Tu sei forte. Sei orgoglioso di questa tua forza. Sei sicuro di poter sopportare qualsiasi punizione fisica, forse più di quante io osi infliggertene. E io credo che tu possa davvero resistere. Ma vedi, non esistono soltanto le punizioni fisiche. Esistono degli altri metodi per fare parlare un uomo, metodi più rapidi e più sicuri, dai quali neppure l’uomo più forte è capace di difendersi.»
Seguì la direzione dello sguardo del terrestre, fisso sulla porta interna socchiusa.
«Forse,» aggiunse, a bassa voce, «Hai già capito a che cosa alludo.»
Ora il volto di Carse era privo di qualsivoglia espressione, non rivelava nulla, appariva esteriormente impassibile. L’odore di muschio lo prendeva alla gola, aspro e denso come fumo, e quasi lo soffocava. Lo sentiva insinuarsi in lui, torcersi e pulsare, come fumo, riempire i suoi polmoni, infiltrarsi crudelmente nel suo stesso sangue. Velenoso, sottile, crudele, e freddo, freddo di un gelo primievo. Vacillò, ma il suo sguardo fisso non perse nulla della sua intensità. Anche se il suo corpo tremava, i suoi occhi non si abbassavano.
Egli disse, raucamente:
«Credo di sì. Credo di poterlo immaginare.»
«Bene. Allora parla, e non ci sarà bisogno che quella porta si apra.»
Carse rise, un suono basso, aspro e soffocante. I suoi occhi erano strani e velati.
«E per quale motivo dovrei parlare? Tu mi uccideresti ugualmente, più tardi, per impedirmi di rivelare ad altri il segreto.»
Fece un passo avanti. Si rese conto di muoversi. Si rese conto di avere parlato anche se il suono della sua stessa voce gli giungeva vago e indistinto alle orecchie.
Ma dentro di lui gravava una tenebrosa confusione. Le vene delle tempie gli si erano ingrossate come corde, e il sangue pulsava martellante nel cervello, e nel suo cervello c’era una pressione, una pressione tremenda… pareva quasi che ci fosse qualcosa, in lui, che voleva spezzare i legami, e liberarsi.
Non capì per quale motivo avanzasse verso la porta, un passo dopo l’altro, lentamente, ma con sicurezza. Non capì per quale motivo avesse gridato, con una voce che non era la sua:
«Apri dunque, Figlio del Serpente!»
Boghaz si lasciò sfuggire un gemito di orrore, e si rannicchiò in un angolo, nascondendo il viso. Ywain trasalì, e si alzò in piedi, attonita e improvvisamente pallida. La porta cominciò lentamente ad aprirsi verso l’interno.
Non c’era nulla dietro quella porta, se non l’oscurità, e un’ombra. Un’ombra incappucciata e avvolta in un nero mantello, e così immobile, nell’oscurità della cabina, un’oscurità che neppure la luce dell’altra cabina riusciva a dissipare, che non poteva definirsi neppure un’ombra, ma solo il fantasma di un’ombra.
Ma era là. E l’uomo Carse, prigioniero della trappola del suo strano destino, la riconobbe per quello che era.
Era paura, l’antica e malvagia cosa che già strisciava tra le prime erbe della creazione, staccata dalla vita ma coi suoi occhi gelidi e astuti fissi su di essa, ridendo il suo riso silenzioso, donando soltanto la morte più amara.
Era il Serpente.
La scimmia primordiale che viveva in Carse ebbe l’impulso di fuggire, di nascondersi; ogni cellula della sua carne si ritraeva, ogni istinto lo metteva in guardia.
Ma egli non si voltò, non cercò di fuggire, perché c’era una collera, in lui, che crebbe fino a soffocare la paura, fino a cancellare Ywain e gli altri, fino ad annullare ogni cosa, lasciando in lui il desiderio, la feroce volontà di distruggere, di annientare la creatura che stava nascosta oltre la luce.
La sua collera… o qualcosa di più grande? Qualcosa che nasceva da una vergogna e da una sofferenza ch’egli non avrebbe mai potuto conoscere?
Una voce gli parlò dall’oscurità, sibilante e dolce e sommessa.
«Tu l’hai voluto. E sia.»
C’era un silenzio totale, terribile, nella cabina. Scyld era indietreggiato, appoggiandosi quasi alla parete più lontana, e perfino Ywain si era ritirata, raggiungendo l’estremità più lontana del tavolo. Boghaz, rannicchiato nel suo angolo, in preda al terrore più abietto, non osava neppure respirare.
L’ombra si era mossa, con un lieve, secco fruscio. Si era alzata. Una macchia di luce fievole era apparsa, sorretta da mani invisibili… una luce che però non irradiava chiarore. A Carse parve un anello, una corona di minuscole stelle, incredibilmente distanti.
Le stelle cominciarono a muoversi, a ruotare nelle loro orbite invisibili, a girare veloci, sempre più veloci, fino a quando non si trasformarono in una ruota, una ruota di luce stranamente confusa, luminosa e offuscata a un tempo. Ora si udiva una sottile nota acuta, una melodia cristallina che era come l’infinito, perché non aveva principio e non aveva fine.
Era un canto, un richiamo, sintonizzato in modo che soltanto lui potesse udire? O non si trattava dell’udito, ma di qualcosa di diverso, di più sottile e intimo e penetrante?
Non riusciva a capirlo. Forse non udiva quella nota di cristallo con le orecchie, ma con la carne, con tutti i suoi nervi tesi e tremanti. Gli altri, Ywain e Scyld, e Boghaz, parevano immuni da quella strana, inesplicabile percezione.
Carse si sentì afferrare e pervadere da una sensazione di gelo. Era come se quelle minuscole stelle melodiose lo chiamassero dai più remoti recessi dell’universo, incantandolo nelle gelide profondità dello spazio, là dove il cosmo vuoto avrebbe succhiato da lui il calore e la vita.
I suoi muscoli si allentarono, i nervi parvero sciogliersi e scorrere via, portati da quell’ondata di ghiaccio. Sentì che il suo cervello si stava dissolvendo.
Cadde lentamente in ginocchio, mentre le minuscole stelle continuavano a cantare, sommergendolo con quella loro nota melodiosa, cristallina, vibrante. E ora riusciva a capirle. Riusciva a capire il senso di quella melodia, che era una voce, una voce purissima, che gli rivolgeva una domanda. Le stelle gli stavano ponendo una domanda, e lui sapeva che, quando avesse risposto, avrebbe potuto addormentarsi. Sapeva che non si sarebbe svegliato mai più, ma questo non aveva importanza. Ora aveva paura, ma se fosse venuto il sonno, esso gli avrebbe fatto dimenticare ogni paura.
Paura… paura! L’antico, antichissimo terrore razziale che perseguita l’anima, il terrore che scivola nelle tenebre silenziose…
Nel sonno e nella morte avrebbe potuto dimenticare la paura. Doveva solo rispondere a quella domanda ipnotica, che gli veniva bisbigliata sulle ali della melodia:
«Dove si trova la Tomba?»
Bastava rispondere. Bastava parlare. Ma qualcosa gli teneva ancora legata la lingua. Lo rossa fiamma della collera ardeva ancora dentro di lui, combattendo contro lo splendore delle stelle che cantavano.
Lottò, ma c’era troppa forza, troppa potenza, nel canto delle stelle. Udì il suono uscire lentamente dalle sue labbra aride, la risposta…
«La Tomba, il luogo in cui Rhiannon…»
«Rhiannon! Nero Padre che insegnò la sua potenza a te, a te che uscisti dall’uovo del Serpente!»
Il nome risuonò dentro di lui, come un grido di battaglia. Il fuoco della sua collera, acquietato dalla canzone delle stelle, divampò di nuovo, terribile, spaventoso. La gemma fosca sull’elsa della spada posata sul tavolino parve chiamare d’un tratto la sua mano. Con un balzo, egli l’afferrò.
Ywain si slanciò sulla spada quasi contemporaneamente, lanciando un grido, ma arrivò troppo tardi.
La grande gemma pareva ardere di luce terribile, raccogliendo la potenza delle stelle lucenti e cantanti, aumentandola, e respingendola, usandola come un’arma contro chi l’aveva usata prima.
Il canto di cristallo s’incrinò e si ruppe. La luce che non era luce impallidì, si spense. Era riuscito a distruggere quella strana ipnosi.
Il sangue ricominciò a scorrere impetuoso nelle vene di Carse. La spada pareva muoversi, nella sua mano, come una creatura viva, animata da una volontà propria. Egli gridò il nome di Rhiannon, e si lanciò avanti, nell’oscurità.
Udì un grido sibilante, nel momento in cui la lunga lama s’immergeva nel cuore dell’ombra.