Le ore che seguirono furono per Carse un’estenuante eternità di tensione insopportabile.
Chiese che gli fosse messo a disposizione un appartamento nel palazzo, con il pretesto di ritirarsi per preparare in solitudine i suoi piani. E quando fu nelle lussuose camere che gli vennero subito concesse, cominciò a percorrere il pavimento avanti e indietro, nervoso e teso. Se qualcuno avesse potuto vederlo in quel momento, non avrebbe certo avuto l’impressione di trovarsi al cospetto di un dio.
In apparenza, il suo inganno era riuscito. Il Dhuviano Io aveva accettato, aveva riconosciuto in lui il dio Rhiannon. Forse, pensò, la stirpe del Serpente non possedeva, dopotutto, gli straordinari poteri extrasensoriali degli altri Halfling, i Nuotatori e i Celesti.
Da come si erano messe le cose, sembrava che ora non gli rimanesse da fare altro che attendere il ritorno del Dhuviano con le armi; poi le avrebbe caricate a bordo della sua galera, e sarebbe ripartito. Avrebbe potuto fare questo, perché nessuno avrebbe osato discutere i piani di Rhiannon… e aveva anche molto tempo a disposizione. La flotta dei Re del Mare stava aspettando rinforzi da Khondor, certamente; non avrebbe attaccato prima che l’intero potenziale offensivo si fosse radunato nelle acque di Sark. L’attacco non sarebbe venuto prima dell’alba, e se lui fosse riuscito nella sua impresa, non ci sarebbe stato attacco.
Nonostante tutte le apparenze favorevoli, però, c’era in lui un cupo presentimento; come se una parte primitiva, irrazionale del suo corpo gli trasmettesse un segnale di pericolo, una paura inspiegabile eppure intensa.
Col pretesto di dovergli impartire ordini riguardanti la galera, Carse mandò a chiamare Boghaz. Il vero motivo, però, era il suo desiderio di non rimanere solo. Il grasso ladro Valkisiano apparve giubilante, quando ebbe udito le notizie.
«Ce l’hai fatta,» ridacchiò, fregandosi le mani, gioiosamente. «L’avevo sempre detto, Carse, che una buona dose di sfrontatezza può condurre un uomo a qualsiasi risultato, facendolo uscire anche dalle situazioni più ingarbugliate. Io, Boghaz, non avrei saputo fare di meglio.»
Carse disse, in tono cupo:
«Spero che tu abbia ragione.»
Boghaz gli lanciò un’occhiata di sbieco.
«Carse…»
«Sì?»
«Che ne è del Maledetto?»
«Niente. Neanche un segno. Questo mi preoccupa, Boghaz. Ho la sensazione che sia in attesa.»
«Quando le armi saranno nelle tue mani,» disse Boghaz, in tono significativo, «Sarò pronto dietro di te… in vista di qualsiasi eventualità.»
Finalmente il ciambellano, ossequiosamente, venne ad annunciare che Hishah era ritornato da Caer Dhu, e aspettava di essere ricevuto da lui.
«Va bene,» disse Carse, e poi indicò Boghaz, con un breve cenno del capo. «Quest’uomo verrà con me, per occuparsi del trattamento delle armi.»
Le guance floride di Boghaz diventarono livide, grigiognole, ma il Valkisiano fu costretto a seguire docilmente Carse.
Garach e Ywain erano nella sala del trono, insieme alla nera creatura incappucciata di Caer Dhu. Tutti si inchinarono, all’entrata di Carse.
«Ebbene,» domandò il terrestre al Dhuviano, «Hai obbedito al mio ordine?»
«Signore,» disse Hishah, con il suo tono insinuante e carezzevole. «Mi sono consigliato con gli Anziani, che ti mandano questo messaggio. Se avessero saputo che il Signore Rhiannon era ritornato, non avrebbero mai osato toccare le cose che gli appartengono. E ora essi temono di toccarle ancora, per timore di poterle danneggiare, o provocare qualche distruzione, a causa della loro ignoranza.
«Perciò, Signore, essi ti pregano umilmente di provvedere tu stesso a questo compito. E inoltre, essi non hanno dimenticato il loro amore per Rhiannon, la cui dottrina li sollevò dalla polvere. Desiderano darti il benvenuto nel tuo antico regno di Caer Dhu, perché i tuoi figli sono stati per molto tempo nelle tenebre, e vorrebbero di nuovo conoscere la luce della sapienza di Rhiannon, e della sua forza.»
Hishah s’inchinò profondamente.
«Signore, vuoi concedere questo ai tuoi figli?»
Carse tacque per un momento, cercando disperatamente di celare la sua paura. Lui non poteva andare a Caer Dhu. Lui non osava farlo! Per quanto tempo avrebbe potuto sperare di nascondere il suo inganno ai figli del Serpente, antichissimo padre di tutti gli inganni?
Se lui era veramente riuscito a nasconderlo, fino a quel momento. Nelle parole mielate di Hishah era nascosta una trappola sottile.
E infatti lui era in trappola, e lo sapeva. Non osava andare a Caer Dhu… ma sapeva che xm rifiuto sarebbe stato ancor più disastroso.
Perciò, disse:
«Sono lieto di acconsentire alla loro richiesta.»
Hishah chinò il capo, in segno di ringraziamento:
«Tutti i preparativi già sono stati fatti. Re Garach e sua figlia ti accompagneranno, in modo che tu possa essere convenientemente servito. I tuoi figli si rendono conto della necessità di affrettarsi… la chiatta ti sta aspettando.»
«Bene.» Carse si voltò, e fissò Boghaz con uno sguardo d’acciaio. «Anche tu mi seguirai per servirmi, uomo di Valkis. Potrò avere bisogno di te, per le armi.»
Boghaz capì il significato recondito di quelle parole. Se prima era impallidito, ora diventò di un bianco livido, e uno sguardo di puro orrore apparve nei suoi occhi; ma si rendeva conto di non poter dir nulla. Così, seguì Carse fuori della "sala del trono, con l’aria del condannato che viene portato al patibolo.
La notte era pesante e tenebrosa, quando essi s’imbarcarono su una bassa imbarcazione nera, che non aveva né remi, né vela. L’imbarco avvenne al molo del palazzo, e creature incappucciate e ammantate come Hishah immersero lunghi pali nell’acqua, e la chiatta si mosse lungo l’estuario, allontanandosi dal mare.
Garach era rannicchiato tra i cuscini di pelliccia di un divano, una figura per niente regale, con mani che tremavano e il volto pallido come quello di un cadavere. I suoi occhi seguivano costantemente, in maniera furtiva, la forma scura e indistinta di Hishah. Evidentemente, l’idea di quella visita alla corte dei suoi alleati non sorrideva troppo al monarca.
Ywain si era ritirata all’estremità opposta della chiatta, dove rimaneva seduta, fissando le tenebre della riva bassa e paludosa. Carse ebbe l’impressione che lei fosse molto più depressa e abbattuta di quanto non fosse mai stata quando era stata prigioniera e in catene.
Anche lui sedeva in disparte, esteriormente solenne e maestoso, interiormente scosso e turbato, fin nel profondo dell’anima. Boghaz era rannicchiato nell’ombra, poco lontano da lui. Gli occhi del grasso Valkisiano erano lividi e colmi di terrore.
E il Maledetto, il vero Rhiannon, era quieto e silenzioso. Troppo silenzioso. In quell’angolo segreto dei più profondi recessi della mente di Carse, non c’era l’ombra di un movimento, non c’era assolutamente nulla. Pareva che l’oscuro reietto dei Quiru fosse come tutti coloro che si trovavano a bordo… isolato, e in attesa.
Il viaggio lungo l’estuario parve interminabile. L’acqua scivolava sotto la chiatta con un sussurro di sibilante, crudele scherno. Le figure dalle lunghe vesti nere e dai neri mantelli erano curve sui pali, e spingevano la bassa imbarcazione. Di quando in quando, della vicina palude giungeva il richiamo rauco di un uccello notturno, e l’aria notturna era tenebrosa, strana, e pareva carica di minaccia.
Poi, alla luce delle due piccole lune basse, Carse poté vedere più avanti le mura indistinte e i contrafforti e le torri di una città che si ergeva nella nebbia, una città molto, molto antica, cinta di mura come un castello. Tutt’intorno, le parti esterne erano sgretolate e in rovina, e solo il grande nucleo centrale era intatto.
L’aria, intorno a quel luogo sinistro, brillava di una pallida luminescenza. Carse pensò che quel fenomeno fosse dovuto a uno scherzo dell’immaginazione, una semplice illusione ottica provocata dal chiarore lunare che si specchiava nelle acque luminescenti e rischiarava stranamente il pallido sudario di nebbia che gravava tutt’intorno.
La chiatta si avvicinò a un molo sgretolato dal tempo. Si fermò, e Hishah scese a terra, inchinandosi profondamente, e facendosi da un lato per lasciare passare Rhiannon.
Carse avanzò a grandi passi lungo il vecchio molo, seguito da Garach, da Ywain e dallo spaventatissimo Boghaz. Hishah rimase, ossequiosamente, alle calcagna di Carse.
Un sentiero lastricato di pietra nera, logorato dal peso degli anni, saliva verso la cittadella. Carse s’incamminò su di esso, risolutamente. Adesso ne era sicuro… poteva vedere una debole, pulsante rete di luminosità spettrale intorno a Caer Dhu, nell’aria. Gravava sull’intera città, scintillando di un riverbero metallico, come la luce delle stelle in una gelida notte.
Non gli piacque l’aspetto di quella strana luminescenza. E, avvicinandosi, gli piacque sempre meno, soprattutto quando vide che in un certo punto attraversava il sentiero, bloccandolo come una cortina, come un velo, proprio di fronte al grande portale.
Eppure nessuno parlò, nessuno esitò. Apparentemente, tutti si aspettavano che fosse lui a guidarli, ad entrare per primo, e lui non osava rivelare la sua ignoranza della natura di quella luminosità. Così, si sforzò di avanzare a grandi passi, forte e sicuro, celando in cuor suo tutta l’apprensione che in realtà stava provando.
Era già abbastanza vicino a quella rete scintillante, per avvertire uno strano formicolio, una specie di corrente di energia che attraversava l’aria, e gli faceva tremare tutti i peli del corpo. Un altro passo lo avrebbe portato entro quella strana barriera luminescente. Già stava per sfiorarla, quando Hishah gli disse seccamente all’orecchio, con voce sibilante:
«Signore! Hai forse dimenticato il Velo, il cui contatto significa morte?»
Carse indietreggiò. Una tremenda ondata di paura gli percorse il corpo e la mente, e nello stesso istante egli si rese conto di avere commesso un gravissimo errore.
Si affrettò a dire:
«Certo che non l’ho dimenticato!»
«No, Signore,» mormorò Hishah. «Come potevi, infatti, avere dimenticato, quando sei stato tu a insegnarci il segreto del Velo che distorce lo spazio e protegge Caer Dhu da qualsiasi forza?»
Ora Carse capiva che quella rete scintillante doveva essere una barriera difensiva di energia, di una energia così potente da stabilire una tensione, nel tessuto stesso dello spazio, nella quale nulla poteva penetrare.
Pareva incredibile. Eppure, la scienza dei Quiru era stata grande, e Rhiannon ne aveva insegnato alcuni segreti ai remoti antenati di quei Dhuviani.
«Sì, infatti, come avresti potuto dimenticare, proprio tu?» ripeté Hishah.
Non c’era la più lieve ombra d’ironia nelle sue parole, eppure Carse intuì che c’era qualcosa di beffardo, in esse… qualcosa di sottilmente celato, e che pure la sua mente riusciva a capire.
Il Dhuviano fece un passo avanti, e sollevò le braccia, facendo evidentemente un segnale a qualche guardiano che doveva trovarsi all’interno della mura. La luminescenza del Velo impallidì e scomparve, al di sopra del sentiero, lasciando libero un passaggio per loro.
E quando Carse si voltò, per procedere verso la porta di Caer Dhu, notò che Ywain lo stava fissando, con uno sguardo sorpreso e incredulo, nel quale già si affacciava l’ombra crescente di un dubbio. Il grande portale si aprì, maestosamente, e il Signore Rhiannon dei Quiru venne ammesso a Caer Dhu.
Gli antichi corridoi erano fiocamente illuminati da strani oggetti, che parevano globi di fuoco prigioniero, eretti alla sommità di grandi tripodi che sorgevano a lunghi intervalli, e irradiavano intorno una fredda luce verdastra. L’aria era tiepida, e impregnata del pesante fetore del Serpente, un lezzo odioso che chiuse la gola di Carse in un nodo fatto di vertigine, di nausea e di crescente, istintivo odio.
Hishah li precedeva, ora, e già questo era un segnale di pericolo, perché Rhiannon avrebbe dovuto conoscere bene la strada. Ma Hishah disse che desiderava avere l’onore di annunciare il suo Signore, e Carse non poté fare nulla, all’infuori che soffocare il terrore che già lo pervadeva, e di seguire la nera figura incappucciata.
Giunsero in una vasta sala centrale, chiusa da altissime pareti di roccia nera, che salivano fino a formare un’alta volta, che si perdeva nelle tenebre. Al di sotto, un unico, enorme globo dissipava in parte le fitte ombre, con la sua fioca luce.
C’era poca luce, per gli occhi di un essere umano. Ma anche quel poco era troppo, in quel luogo!
Perché nella sala i figli del serpente erano riuniti per dare il benvenuto al loro signore. E qui, nella loro città, essi non erano celati dalle lunghe vesti incappucciate, dai pesanti, neri mantelli che indossavano quando andavano tra i figli degli uomini.
I Nuotatori appartenevano al mare, i Celesti appartenevano al cielo, ed erano perfetti e splendidi, perfettamente adatti al loro elemento. E ora Carse poteva vedere la terza razza pseudo-umana degli Halfling dell’antico Marte… i figli delle tenebre, dei luoghi nascosti e segreti, i rampolli perfetti, spaventosamente perfetti di un altro grande ordine naturale.
In quel primo momento di turbamento, di ribrezzo e di orrore, Carse si rese conto solo confusamente che la voce di Hishah stava pronunciando il nome di Rhiannon, e il sibilante, sommesso grido di benvenuto che seguì quella parola fu solo un suono che esprimeva la piena, orribile dimensione dell’incubo che il terrestre pensava di vivere.
Dai lati della grande sala essi lo acclamarono, e dalle gallerie aperte, che sorgevano in alto, e i loro occhi piatti, glauchi e paurosi parevano scintillare, le loro strette, sottili teste serpentine si chinavano in segno di omaggio.
Corpi sinuosi che si muovevano torcendosi, con una strana, orribile grazia che faceva rabbrividire, corpi che parevano fluire, scorrere scivolare, piuttosto che camminare. Mani dalle dita prive di articolazioni, e di piedi che non producevano alcun suono, e bocche prive di labbra, che parevano schiudersi in segno di scherno, per sibilare sinistre risate, infinitamente crudeli. E per tutto il vasto salone si udiva un fruscio odioso, secco, sgradevole… la lieve frizione di una carne che aveva perduto le antiche, primordiali scaglie, ma non la sua durezza serpentina.
Carse sollevò la spada di Rhiannon, per ricambiare quel saluto, e si costrinse a parlare.
«Rhiannon si compiace del saluto dei suoi figli.»
Gli parve, in quel momento, che un sottile, frusciante sibilo si diffondesse nella grande sala, un sibilo che pareva l’espressione nascosta di una risata beffarda. Ma non poteva esserne sicuro, e Hishah già stava parlando:
«Mio Signore, ecco le tue antiche armi.»
Erano al centro della sala, in uno spazio libero. C’erano tutti gli enigmatici meccanismi che egli aveva visto nella Tomba di Rhiannon, quando era iniziata la sua strana, incredibile avventura, al suo arrivo in quell’altro tempo, in quel mondo del remoto passato. Vide la grande ruota piatta di cristallo, vide le sbarre metalliche tozze, stranamente intricate, e vide tutti gli altri strumenti che ricordava confusamente… e tutti mandavano cupi bagliori metallici, nel sinistro lucore del globo verdastro.
Il cuore di Carse parve arrendersi per un momento, poi riprese a battere, precipitosamente.
«Bene,» proclamò. «Non abbiamo molto tempo… portatele a bordo della chiatta, in modo che io possa ritornare immediatamente a Sark.»
«Certo, Signore,» disse Hishah. «Ma prima non vorresti esaminarle, per assicurarti che ogni cosa sia in ordine? Nella nostra grande ignoranza, potremmo averle involontariamente danneggiate, toccandole…»
Carse avanzò a grandi passi fino al centro della sala, là dove si trovavano le armi, e per qualche istante rimase curvo su di esse, fingendo di esaminarle, con una sicurezza che egli non provava. Finalmente, dopo un intervallo che giudicò soddisfacente, sollevò il capo, e annuì.
«Nessun danno è stato fatto. E ora…»
Hishah lo interruppe, parlando in un tono di untuoso rispetto.
«Prima di andartene, non vorresti spiegarci il funzionamento di questi strumenti? I tuoi figli sono sempre stati avidi di conoscenza.»
«Non c’è tempo per questo,» disse Carse, irato. «E inoltre, voi sapete bene che cosa siete… dei bambini che ancora non conoscono i segreti della conoscenza. Non potreste capire.»
«Può essere forse, Signore,» domandò Hishah, in tono sommesso e carezzevole, «Che tu stesso non sei in grado di capire?»
Ci fu un momento di completa immobilità, di completo silenzio.
Carse, in quell’istante, fu schiacciato dalla gelida consapevolezza della fine. Si sentiva condannato, chiuso in trappola. Voltandosi, si accorse che le file dei Dhuviam si erano silenziosamente serrate, dietro di lui, sbarrandogli ogni via di scampo.
Non avrebbe potuto compiere neppure un disperato tentativo per fuggire da quella sala.
All’interno del circolo, dello spazio libero completamente circondato dalla muraglia compatta dei Dhuviani, c’erano solo Garach, Ywain e Boghaz, in piedi al suo fianco. C’era un’espressione attonita, una mescolanza di orrore e di sorpresa, sul volto debole di Garach, e il Valkisiano aveva le spalle curve, e pareva schiacciato da un orrore che non perdeva la sua intensità, per il fatto che egli si trovava in una situazione che aveva certamente previsto. Soltanto Ywain non era sorpresa, né inorridita.
Lei stava fissando Carse, e i suoi occhi erano quelli di una donna che ha paura, ma non si trattava della paura di una situazione ignota, e dell’atavica paura del Serpente. Si trattava di una paura diversa. Carse intuì, d’un tratto, che ella aveva paura per lui, che vedeva scendere sopra di lui l’ombra oscura della morte, e che non voleva che lui morisse.
Il silenzio era totale, assoluto, colmo di attesa e di tensione.
In un ultimo, disperato tentativo di salvarsi dal destino che ormai sentiva incombere sopra di lui, Carse si rivolse a Hishah, cercando di mettere nella sua voce tutta la collera di un dio sdegnato, e domandò, con disprezzo e arroganza:
«Che cosa significa questa insolenza? Vuoi forse che io prenda le mie armi, per usarle contro di voi?»
«Fallo, se puoi,» disse Hishah, con subdola dolcezza. «Fallo, o falso Rhiannon, perché è certo che in nessun altro modo tu potrai mai più uscire da Caer Dhu!»