ESSETTEEEE!

Cole sedeva al buio, sulla sommità della città; sedeva in mezzo ai rifiuti, e davanti a lui, sotto la grande finestra panoramica, si stendeva il tappeto delle luci notturne della città. Alla sua destra: uno schermo televisivo con l’audio abbassato, che teneva sempre acceso. Alla sua sinistra: una bottiglia di birra mezza vuota e un sigaro fumato a metà, la cui brace aveva da tempo smesso di ardere. Sul suo grembo: la pistola.

Città lo aveva fatto traslocare nell’appartamento all’ultimo piano di Rackham Arms, vuoto, per meglio sottrarlo alle ricerche della polizia e dei vigi. Era chiaro che avrebbero frugato in ogni posto anche lontanamente in rapporto con Catz Wailen. L’inquilino dell’appartamento era fuori città per l’estate; nessuno aveva fatto domande a Cole, dato che l’inquilino lasciava spesso l’appartamento agli amici. La scorta di cibo e di bevande era abbondantissima: il surgelatore rigurgitava di carne, gli armadietti erano pieni di scatolette. Cole, di fronte a quei mobili lussuosi, al tocco inconfondibile di un arredatore, aveva immediatamente disprezzato lo sconosciuto che viveva lì. Non aveva rispetto per chi non era in grado di decorare da solo la propria casa. Quindi, aveva deciso di trascurare completamente la pulizia, accumulando lattine vuote e cellophane e bottiglie e piatti in ogni angolo del lussuoso appartamento.

Dopo avergli trovato una casa, la presenza di Città era svanita. Cole era solo. Intuiva vagamente la supermente urbana, come una serie di scariche che escano dalla radio; ma non c’era nulla di preciso. Ormai aspettava da tre giorni, senza mai uscire. Aspettava di sentire Città. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata al televisore, sperando di vedere il viso di Città. Ma ormai era sabato, e lui non si era ancora fatto vivo. Gli avvenimenti dell’ultima settimana erano come un sogno nella memoria di Cole. Cominciò a dubitare della realtà del mondo al di là del vetro, il vetro che formava un’intera parete dell’appartamento. Di giorno dormiva; di notte stava sveglio ad attendere.

— Mi sono alzato ad aspettare — si ripeté Cole. — Stupido. Stupido. — Sedeva a gambe incrociate sul tappeto, davanti alla parete di vetro; la stanza era buia, a parte il riverbero azzurrino, mobile, dello schermo televisivo. Il televisore era a colori, ma Cole lo aveva messo sul bianco e nero: i colori lo distraevano, gli facevano sentire l’impazienza di uscire nel mondo. Ormai lui esisteva in un crepuscolo d’attesa.

I suoi pensieri tornavano, con frequenza preoccupante, a Catz.

Aveva chiamato il numero di Chicago che lei gli aveva lasciato. Non era mai in casa. Una volta gli aveva risposto una voce maschile, insonnolita: — Eeh? Oh, è fuori a suonare. Chi parla?

Nel tono dell’uomo c’era una punta di gelosia, il che significava che Cole aveva motivo di essere geloso.

Lanciò un’occhiata al televisore. Jeromey Jeremy, il conduttore del programma Quattro chiacchiere con l’ermafrodito, stava carezzando con una mano una stellina voguer, e con l’altra carezzava il proprio seno. Cole sbadigliò. — Forse — disse alle luci della città — Città mi sta di nuovo punendo. Perché non ho sparato a quella guardia quando lui me l’ha ordinato, il che ha reso impossibile innescare la bomba. Forse lo fa apposta a farmi stare così male. Forse mi ha abbandonato… Ma allora, perché mi avrebbe trasferito qui?

— Già, perché? — chiese la voce di Città dallo schermo.

Cole alzò gli occhi. Il viso di Città riempiva lo schermo. Un’allucinazione da privazione sensoriale? Si morse un dito, e il dolore gli parve molto reale.

Se esiste qualcosa di indiscutibilmente reale, quello è il dolore.

Allora Città era lì con lui, e Cole crollò, improvvisamente stanchissimo. Si accorse che, nelle ore di veglia di quei tre giorni, l’attesa lo aveva tenuto in uno stato di continua tensione.

Si alzò barcollando, batté i palmi delle mani sulle gambe per ristabilire la circolazione del sangue. Raggiunse il televisore, vi restò davanti per un attimo, fissando con un misto di venerazione e risentimento il volto della città; poi si accucciò a fianco dell’apparecchio: non resisteva all’idea di fissare così da vicino Città. “Sono suo” pensò. “Catz aveva ragione.”

— Al Chronicle c’è un tizio. Scrive articoli, a volte fa qualche inchiesta — disse Città. — Si chiama Barnes. Rudolph Barnes.

Cole si aggrappava disperatamente a ogni sillaba di Città, cercava un’inflessione, una punta di approvazione o disapprovazione. La voce di Città era fredda, ma non più del solito. Cole non poteva essere sicuro di nulla.

Città proseguì: — Barnes sa di Rufe Roscoe e dei vigi. Sa anche qualcosa di te. Sa che ti cercano. Sa dei rapporti tra la mafia e il Tif, anche se la cosa non è più un segreto. Comunque ha intenzione di preparare un grosso servizio per una rete televisiva nazionale. Voglio che tu lo veda, che gli telefoni, che vi mettiate d’accordo per incontrarvi. Fa’ attenzione, perché dovrete vedervi domani, di giorno. Barnes riparte da qui domani pomeriggio. Adesso si trova a Santa Cruz, se no vi avrei già messo in contatto. Tornerà a San Francisco domani mattina e ripartirà nel pomeriggio. Avrai a disposizione solo poche ore. Trovalo, raccontagli dei videonastri di Rufe Roscoe e di tutte le altre cose che sai… Parlagli di tutto, tranne che di me. Sarebbe difficile convincerlo, e non voglio manifestarmi a lui. Non esiste un rapporto fra Barnes e me. Non è cittadino di San Francisco…

A Cole parve di leggere disprezzo nel tono di Città.

— …è di New York, ed è fedele alla sua città. Ma trovalo lo stesso, ci aiuterà. Chiama il Chronicle domattina alle nove. E adesso vai a dormire.

— Cit…

Ma il viso era svanito.

Era svanito; però si era manifestato, gli aveva parlato. Stuart Cole pianse di sollievo.


Persino sullo schermo in bianco e nero del telefono pubblico Cole vedeva benissimo che Barnes era un tipo dal viso florido e roseo, con l’aria triste, quasi senza mento, con un naso tozzo e butterato. Però gli occhi erano vivaci, penetranti, e dietro quei suoi pochi capelli, dietro l’aspetto irritato dell’uomo di mezza età, vibrava del talento. Era il tipo adatto per loro.

— Sì? Allora? — chiese Barnes, con voce stridula.

Cole trasse un profondo respiro e rispose d’un fiato: — Sono Cole. Stuart Cole. So che cercate informazioni sul Tif e su Rufe Roscoe, e io so un sacco di cose di questa faccenda.

— Sentite, amico, è domenica — ribatté Barnes, esageratamente irritato. — E io cerco sempre di non lavorare mai, la domenica. Sono qui per una riunione veloce, dopo di che prenderò l’aereo…

— Okay, okay, basta con le provocazioni — disse Cole. — Non ho tempo. — Era chiaro che Barnes si dimostrava seccato solo per saggiare le sue reazioni, per scoprire se Cole era un impostore o no. — Sono chi dico di essere e non mi scoraggio facilmente.

Si mosse volutamente mentre, fissando lo schermo, Barnes lo studiava, lo soppesava senza reticenze. Cole aveva i capelli tagliati secondo una foggia molto tradizionale; nell’armadio dell’appartamento aveva trovato un abito perfettamente serio, portava occhiali con le lenti azzurre. Sarebbe stato perfetto in mezzo a qualsiasi folla. Eppure, era nervoso. Si trovava in una cabina pubblica di Chinatown, e i poliziotti di servizio passavano a intervalli regolari. Un poliziotto particolarmente in gamba, o che magari avesse appena visto la sua foto su un bollettino segnaletico, poteva riconoscerlo da un minuto all’altro.

— Sembrate proprio Cole — disse Barnes.

Cole restò stupefatto. — Avete visto mie fotografie?

— Sicuro. Ci arrivano tutti i bollettini della polizia. Vi ricercano come disperati, amico. Comunque, d’accordo. Datemi le informazioni che dite di avere, e per quanto mi riguarda il vostro conto corrente tornerà come nuovo. Vi faranno credito persino a Fort Knox.

— A Broadway — disse Cole — c’è un ristorante. Da Luigi.

Barnes annuì. — Tra quanto?

— Al più presto possibile. Terrò d’occhio il posto, e se mi sembrerà che non ci sia pericolo entrerò quando vi vedrò arrivare. Non portate niente che possa attirare l’attenzione.

— Okay. Però non pensate che dovrei…

— Chiamare la polizia?

— No. — Barnes sorrise, scoprendo una dentatura irregolare. — No, volevo dire che dovrei portare qualcosa che possa servirmi come prova per l’articolo. Un videoregistratore portatile?

— No. Ci faremmo notare. Quando ci vedremo, ve lo dirò io dove potrete trovare le prove. — Cole interruppe la comunicazione. Lo schermo si spense. Uscì alla luce vivida del sole, strizzando gli occhi. Si era abituato a vivere di notte; il sole gli bruciava gli occhi, li faceva lacrimare. Sbadigliò. Non aveva dormito abbastanza. S’incamminò su per la collina, cercando di darsi l’aria dell’uomo d’affari in cerca di un ristorante cinese.

Camminò in salita tra la folla massiccia del mezzogiorno di domenica, perso in un flusso di turisti lento come la lava. Sulla sinistra, una parata di camicette senza maniche e occhiali da sole; sulla destra, le auto che rombavano, che riempivano l’aria coi clacson. L’aria calda sapeva di sudore, dopobarba, svariati profumi e deodoranti, pesce, e aromi di strane spezie dai negozi di gastronomia cinese. Venditori ambulanti offrivano souvenir e gelati, ripetendo all’infinito la nenia di ogni giorno d’estate a Chinatown: — Un bel gelato fresco!

Sudato, oppresso dal vestito troppo pesante, raggiunse Broadway e si fermò, con un sospiro, all’ombra di un tendone di fronte al ristorante Da Luigi. Le spalle rivolte a una rosticceria, scrutava con finta indifferenza la folla di persone che passavano in un senso e nell’altro sul marciapiedi. Vedeva la porta d’ingresso del ristorante, ma aveva il sole alle spalle, e la luce rendeva bianchissima, impenetrabile, la vetrina. Comunque, Barnes non poteva essere già arrivato.

Lontano dalla corrente della folla, si sentiva esposto, troppo visibile. Fermo in piedi, si strusciava le mani sui pantaloni. Era nervoso e spaventato, e se ne accorse, e divenne ancora più nervoso e spaventato per il timore di attrarre chissà quali sospetti. La sua tensione interna saliva paurosamente. Dovette impedirsi parecchie volte di girarsi a guardare dietro le spalle.

Un’auto della polizia percorreva lentamente la strada. Le mani di Cole si strinsero a pugno.

Restò immobile, fingendosi sicuro di sé. L’auto passò, ma il suo nervosismo non fece che aumentare.

Per distrarsi, si mise a pensare a Catz. In quella zona, giorni prima, erano venuti a sedersi in un caffè, ognuno preoccupato per l’altro. Sorrise leggermente, ricordando la notte che era seguita. Non era poi così vecchio…

Ti sta usando, gli aveva detto lei.

Cole non aveva più voglia di pensare a Catz.

Senza nessun motivo particolare, nessun motivo cosciente, si scoprì a guardare due uomini dall’altra parte della strada, sull’angolo vicino al ristorante italiano. Uno aveva una camiciola rosso-azzurra a fiori e una macchina fotografica appesa al collo. Indossava calzoncini da bagno e sandali. Era un uomo robusto, e giovane, e a Cole parve strano che si vestisse a quel modo, come il classico turista di mezza età. Accanto a lui, un uomo alto con occhiali scuri, calzoni a strisce, e una giacca che, come quella di Cole, era troppo pesante per quel clima. C’era qualcosa di strano nella sua posa. Cole lo scrutò meglio. Sembrava che fosse piegato verso sinistra, col fianco destro rivolto a Cole; e la posizione del corpo era talmente inclinata che avrebbe dovuto cadere. Cole restò a guardarlo, il viso puntato sull’uomo; le lenti azzurre nascondevano la direzione del suo sguardo. L’uomo girò leggermente la testa verso destra, a guardare Cole. I suoi occhi si posarono un attimo su Cole, e Cole ebbe l’impressione che l’altro distogliesse lo sguardo troppo in fretta. In quella prospettiva, Cole scoprì che l’altro si appoggiava a un bastone. Ma era un uomo un po’ troppo giovane per usare il bastone, decise. E un terzo uomo si unì ai due.

Il terzo uomo, che indossava un completo blu e occhiali scuri, raggiunse gli altri due con l’atteggiamento del vecchio amico, ma non disse niente. Nemmeno ciao, a meno che non l’avesse detto senza muovere le labbra. E a Cole parve che tutti e tre, a turno, guardassero dalla sua parte.

Ora respirava pesantemente. Il sudore gli scendeva giù per il pomo d’Adamo e il collo. “Chi sono quei tre?”

Cole aveva l’impressione di aver già visto l’uomo col bastone: non dal viso, ma dalla sua corporatura, dal taglio delle spalle, dall’angolatura del mento. Era come uno di quei ricordi vaghi che restano dopo un sogno. Dove l’aveva già visto?

Il bastone. La gamba sinistra rotta. L’uomo stringeva il bastone con l’impaccio di chi ha poca pratica. Muoveva di continuo la mano che lo serrava, insicuro. La gamba sinistra… Uno di quei vigi della casa di Berkeley dove Catz era prigioniera era stato colpito alla gamba sinistra. L’unico che fosse sopravvissuto. L’unico in grado di riconoscere Cole.

Cole si mise a correre verso un taxi che stava svoltando in Sutter Street.

Una donna che spingeva un bambino grassoccio su una carrozzella sbarrò di colpo il cammino a Cole. Lui le volò quasi addosso, si scusò, si spostò di lato; il taxi era scomparso. Qualcuno gli batté sulla spalla. Cole ruotò su se stesso, cercò di estrarre la pistola, già sicuro che lo avrebbero colpito. Barnes gli sorrise. — Un po’ nervosetto, eh? — disse.

Cole guardò verso il ristorante. I tre vigi si erano spostati; li vide incamminarsi, con falsa giovialità, sul passaggio pedonale.

— Lì c’è un taxi che mi aspetta — disse Barnes. — Pensavo che potremmo… — indicò un taxi giallo fermo in strada.

Cole schizzò via verso il veicolo.

Alle sue spalle, qualcuno urlò: — Ehi! — E non era la voce di Barnes. Cole afferrò la maniglia della portiera posteriore del taxi, la spalancò. L’autista disse: — Guarda che ho già un cliente…

— Tutto a posto. Siamo insieme — disse Barnes, accomodandosi vicino a Cole.

— Per favore, parti subito! — disse Cole. A occhi spalancati, guardò il poliziotto che arrivava di corsa da dietro. Pregò che l’autista non vedesse l’agente che agitava le mani per ordinare di fermarsi. Il taxi puntò il muso verso la strada, s’infilò nel traffico incessante di veicoli, passò a un semaforo col giallo, proseguì per Broadway. — Andiamo a… ehm… Coit Tower — disse Cole, scegliendo una destinazione a caso. L’autista annuì.

— Presumo che non fossimo soli — disse Barnes.

Cole annuì. — Forse non lo siamo nemmeno adesso. Ci inseguiranno.

Barnes si lasciò sfuggire un sospiro. — Ragazzo, spero che non siate pazzo.

Sono pazzo — ribatté, indifferente, Cole. — Ma vi racconterò lo stesso la verità.

— Ma… quelli come hanno fatto a sapere dove trovarci?

Cole ebbe una smorfia. — Questo volevo chiederlo a voi.

Barnes inarcò le sopracciglia. — Forza.

— Be’, il Tif è dappertutto, letteralmente. È qui con noi anche su questo taxi… — Indicò il terminale elettronico del Tif sul cruscotto. — E, uh, secondo voi com’è possibile andare in giro a fare domande, domande pericolose sul loro conto senza attirare l’attenzione?

— Ma come facevano a sapere in che posto ci…? — Barnes fissò Cole, spalancò la bocca. — Il mio videotelefono. Probabilmente è sotto controllo.

Cole annuì. — Probabilmente da molto tempo.

Adesso stavano risalendo colline, aggiravano palazzi, alberi con le foglie annerite dallo smog, diretti al parco della Coit Tower.

Sulla strada battuta dal sole, un taxi li seguiva. Cole si girò a guardarlo per un po’. Dietro l’autista si intravedevano tre figure. — Forse — disse, tornando a guardare in avanti — è meglio che vi dica tutto subito… Per prima cosa, Rufe Roscoe ha registrato su videonastro tutte le riunioni più importanti fatte con i suoi uomini.

Barnes si grattò la fronte rugosa. — Non è una mossa troppo intelligente.

— Lo so. Così pare. Anche se potrebbe avere uno scopo preciso. A ogni modo, tiene i nastri in una camera di sicurezza, e se qualcuno riuscisse a ottenere un’ingiunzione per entrarci, un’ingiunzione firmata dal procuratore distrettuale, si potrebbe smascherare tutta quanta l’organizzazione…

Cole s’interruppe. L’autista li stava osservando nello specchio retrovisore. Il viso rotondo del nero, i suoi occhi duri, infossati, riflettevano un sospetto totale. — Che diavolo state combinando, voi due? — disse in fretta l’uomo. I suoi occhi guizzarono dallo specchietto alla strada, e di nuovo allo specchietto.

— Fatti gli affari tuoi — abbaiò Cole.

Il taxista scosse la testa. — Ehi, voi due avete i soldi per pagare o no? Da come parlate, sembrate matti. L’altra mattina, due tizi che parlavano proprio come voi mi hanno fatto andare alla Coit Tower e mi hanno pestato a sangue e mi hanno costretto a dargli un fottuto orologio che avevo da dodici anni…

— Senti, amico, è improbabile che ti succeda due volte la stessa cosa — ribatté Cole, stanco.

Il taxista fermò. Cole si girò a guardare: anche l’altro taxi si era fermato.

— Pagatemi quello che mi dovete fino adesso, poi io vi porto alla Coit e mi pagate la differenza. Ho una sensazione… Lo capisco sempre quando la carta di credito di qualcuno è scaduta. Me lo sento nella pelle — disse testardamente l’autista.

Barnes grugnì, estrasse la carta di credito dal taschino della camicia da golf mal stirata. Premette il pollice sull’apposito spazio riservato al proprietario della carta, lasciò un’impronta momentanea, e passò la carta all’autista grassoccio. Il nero la infilò nel terminale e aspettò. Il minuscolo schermo disse: CONTO CORRENTE ESTINTO. Cole e Barnes fissarono la scritta, stupefatti.

— Ma ho duemila crediti sul mio conto! — urlò Barnes. — Appena stamattina ho pagato la colazione…

Cole scosse la testa, rassegnato. — Siete condannato. Hanno scoperto i vostri rapporti con me. Mi odiano.

— Senti un po’, amico… — attaccò l’autista, furibondo; ma s’interruppe, restò a guardare dal finestrino posteriore, oltre i due passeggeri. — Chi cazzo sono quegli elementi lì? Ehi, quei bastardi hanno la pistola!

Barnes si gettò sul pavimento del taxi. La mano di Cole corse alla sua pistola. La estrasse e restò a fissarla, chiedendosi se sarebbe stato capace di usarla un’altra volta. Si guardò attorno, disperatamente. Era un banale viale alberato; alti palazzi condominiali, alcuni con le facciate coperte d’edera, sorgevano sui due lati della via. A una finestra c’era un uomo che li guardava; quando il suo sguardo incrociò quello di Cole, tirò le tende. I tre uomini erano forse una decina di metri dietro il taxi, e due cominciavano a correre; l’uomo che si lasciarono alle spalle li seguiva zoppicando appoggiandosi a un bastone. Erano tutti e tre armati.

Conscio che non sarebbe stato capace di usare di nuovo la pistola, Cole la puntò alla testa dell’autista, che aveva gli occhi strabuzzati e sudava, e urlò: — Scendi e taglia la corda!

Il nero obbedì. Scese, gridando: — Vi venga un accidente, figli di puttana senza un centesimo! — Cole balzò sul sedile anteriore, dietro il volante, gettò la pistola sul sedile e mise in marcia. Schiacciando l’acceleratore, fece compiere all’auto un’inversione a U, stringendo i denti sotto la pressione della forza centrifuga, e si gettò contro i tre uomini che adesso si trovavano a tre o quattro metri dal cofano. Uno si lanciò di lato, un altro alzò quella che sembrava una Luger per sparare direttamente al parabrezza. Cole chiuse gli occhi sulla fiammata e sul vetro che andava in frantumi; qualcosa lo colpì alla guancia. Premette fino in fondo l’acceleratore, senza riaprire gli occhi. Due tonfi sulla macchina, le ruote che passavano sopra qualcosa di molle; un altro sparo di lato. Cole sentì il finestrino posteriore sinistro esplodere, udì un gemito dal sedile alle sue spalle. Aprì gli occhi in tempo per vedere l’auto della polizia che si sistemava di traverso sulla strada. Senza riflettere, sterzò sulla destra; qualcuno schizzò via dal marciapiedi; ci fu un colpo spaventoso quando l’auto, sobbalzando, salì sul marciapiedi. Continuando a guidare con le due ruote di destra sul marciapiedi, aggirò la coda della macchina della polizia che bloccava la strada e svoltò l’angolo. Da diverse direzioni cominciarono a ululare sirene…

“Le sirene sono la musica di sottofondo della mia vita” pensò Cole.

La strada correva via a una velocità folle; le auto sulla corsia di sinistra facevano strillare i clacson; le macchine che aveva davanti deviavano a destra e a sinistra, per evitare il veicolo impazzito. Cole teneva il clacson premuto, per avvertire tutti di togliersi di mezzo. Dall’autoradio del taxi uscivano scariche elettriche e un misto di voci. Guidando con una sola mano sul volante, sperando nella buona sorte ogni volta che superava uno stop, Cole ebbe un’idea. Protese la destra verso il microfono dell’autoradio, premette un pulsante e urlò: — Città! Non puoi intervenire materialmente, però riesci a parlarmi! Parla con loro! Non puoi passare informazioni sbagliate alla polizia? Levameli di torno! Fregali! Fa’ finta di essere un operatore della Centrale!

— Sì… — gli rispose una voce familiare, frammista ai messaggi confusi che uscivano dall’autoradio.

E poco dopo l’ululato delle sirene svanì. L’aria che entrava dal parabrezza distrutto lo schiaffeggiava in viso; ai suoi piedi, frammenti di vetro tintinnavano. Cole raggiunse una stazione della metropolitana. Accostò, spense il motore, si appoggiò all’indietro sul sedile, col fiatone, tremante. Il suo corpo era pieno d’adrenalina. Avvertì un capogiro, passò subito. Si ricordò di Barnes. Rise, nervosissimo. — Ehi, ehi, Barnes… Gesù se avevo paura… Però ho guidato da campione, no? Cristo, uno non sa mai di cosa sia capace finché…

S’interruppe. Gli era tornato in mente il colpo che aveva distrutto in finestrino posteriore. E il gemito che aveva udito. Cole non si girò. Semplicemente, non riusciva a costringersi a guardare. — Barnes? — disse, con voce spezzata. — Oh, Dio, mi dispiace. Mi dispiace, Barnes.

Alla fine dovette guardare, perché da un momento all’altro qualcuno poteva lanciare un’occhiata in macchina e vedere il corpo sul sedile posteriore. Il taxi si trovava in un vicolo dietro alla stazione. Ma anche lì poteva passare qualcuno. E forse Barnes aveva bisogno di entrare in ospedale.

Cole si girò a guardare.

La testa di Barnes era spappolata, non esisteva più.

La cosa che lo spaventò maggiormente fu che lo spettacolo della morte violenta non lo faceva più stare male.

Scese dal taxi e s’incamminò, distrutto, esausto, verso la metropolitana.


Cole lasciò che il telefono all’altro capo del filo continuasse a squillare, anche se aveva già squillato almeno trenta volte.

Un clic, una voce insonnolita. — Sì?

Il cuore di Cole sobbalzò. — Oh… Uh… Catz?

— Stu?

— Sì… Perché non accendi lo schermo?

— Oh, uhm… Il video è rotto. Questo telefono sta andando a pezzi.

— Tu mi vedi?

— No…

Cole si chiese se lei non accendesse il video semplicemente per non mostrargli l’uomo che stava nel suo letto.

— Allora, cosa succede? — chiese Catz.

Cole rise senza nessuna allegria. — Non so proprio da dove cominciare. Ehi, mettiti l’auricolare.

— Okay.

Allora era con qualcuno. Se no, gli avrebbe risposto che l’auricolare era inutile. “Non sono affari miei.”

Parlando meccanicamente, in fretta, Cole le raccontò quanto era accaduto da che lei era partita.

Quando ebbe terminato, gli rispose il silenzio.

Alla fine, fu lui a dire: — Be’, e a Chicago come va?

Quando Catz riprese a parlare, lui capì che stava piangendo. — Ti venga un accidente, Stu. Sei chiuso in una gabbia di matti. Adesso metti sotto la gente con la macchina, e ovunque vai ci sono sparatorie, e lui ti ha convinto a mettere bombe che non sai nemmeno cosa faranno. Mi dai la nausea, uomo.

— Sei soltanto irritata — ribatté immediatamente Cole — perché ti ho svegliata alle quattro di notte. Lì da te sono le quattro, no?

— Accidenti a te, Stu.

Nella pausa che seguì, la linea telefonica emise un sibilo.

Finché Cole non disse, travolto dall’amarezza: — Catz, ho una paura fottuta. Ma non posso andarmene. Ho bisogno di te. Ti prego…

— No. Vattene da lì. Lascialo. Ti sta usando. Non voglio che tu perda anche l’ultima briciola di te stesso… È ovvio, no? Insomma, Città ha paura che il concentramento urbano si spezzi, che la gente si sparga per tutta la nazione quando i terminali multipli e il Tif renderanno superato lo stato di cose attuale. Sa che le città sono superate. La faccenda del crimine organizzato gli serve come scusa, ma farebbe esattamente le stesse cose anche se tutto fosse legale. È arrivato il momento che le città muoiano, Stu, e tu devi andartene, uomo, prima di esserne travolto.

— Non posso e non voglio! — urlò Cole, in un sussulto di rabbia. — Ho bisogno di te, ma ho bisogno… — S’interruppe. Un suono strano… il segnale di libero.

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