ESSEI!

Il mattino dopo, mentre Catz dormiva, Cole si guardò nello specchio lurido, a grandezza naturale, del bagno. — Non sono poi tanto male — disse. — Niente affatto male. — Canticchiando, fece la doccia.

Tornato in camera da letto, respirò nostalgicamente gli aromi delle lunghe ore di sesso della notte prima. Catz, già vestita, era seduta sull’orlo del letto. — Forza — gli disse, battendo impaziente il piede. — Vestiti, Stu. Andiamo.

— Cos’è tutta questa frenesia? — chiese Cole, lanciandole una salvietta.

Lei l’afferrò al volo e, pensosa, se l’avvolse attorno alla mano. — Stanotte ho fatto un sogno mostruoso. Ho visto delle cose. Collegate a quello che avevo visto, cantando, la prima sera che Città è venuto al club. Dobbiamo lasciare la zona della baia. Andare a New York o da qualche altra parte…

— Sei matta?

— Sto dicendo sul serio.

— Dovremmo piantare tutto e andarcene?

— Esatto. La nave sta affondando, vecchio mio. Ieri ci è mancato poco che tu non riuscissi a uscire da San Francisco. Lui non voleva che tu gli sfuggissi.

— Poteva fermarmi.

— Ha cercato di scoraggiarti… Ma sapeva che saresti tornato. Andiamocene!

— Dopo tutto quello che abbiamo fatto? Dopo aver ucciso? Adesso non potrei proprio ritirarmi, Catz.

Lei si mosse sul letto, si girò a guardarlo. A disagio sotto quell’esame, Cole cominciò a vestirsi. Si infilò i vestiti senza fare attenzione, e dovette riabbottonarsi la camicia. Dopo di che, lei chiese: — Hai deciso?

— Non posso andarmene. Mi spiace. — Non gli venne in mente di chiedersi perché non potesse andarsene. Un pesce può sopravvivere fuori dall’acqua solo per un minuto o due, e non mette mai in discussione il bisogno che ha di quell’elemento.

— E cosa sei? Una pianta che non si può sradicare? — Catz non stava esprimendo rabbia; era mossa dalla disperazione. Sospirò. — Stu, tesoro, credi che i vigilantes non ti ammazzeranno dopo ieri? Uno è riuscito a scappare. Hai ucciso diversi di quei bastardi, ricordi? Sono morti. E sei stato tu a mandare all’aria…

— Okay — disse Cole, trasalendo.

— Ti ammazzeranno. È semplicissimo.

— Non mi troveranno. Città mi proteggerà.

— Forse. Finché gli sarai utile. Ma stammi a sentire. Sai già che lui non può controllare il Tif e il Tif è sotto il controllo dei suoi nemici, che adesso sono anche tuoi nemici. Ti toglieranno quel poco di soldi che ti resta. E chiuderanno il tuo club. E non puoi nemmeno tornare al tuo appartamento. Ti staranno aspettando.

Cole la fissò. Su di lui scese il terrore, come scende su qualcuno che si accorga che un colpo di pistola gli ha spappolato la mano…

— Gesù — disse piano. Un uomo senza una carta di credito era uno zero. Senza la carta, senza un conto in banca… L’evirazione sociale.

— Comunque… — ribatté all’improvviso, la gola stretta. — Non cambierebbe niente in… in un’altra città. Non avrei soldi nemmeno lì.

— All’inizio no. Però potresti rifarti un conto. Potresti stare con me a… uh, io ho un conto a Chicago. Sono anni che accumulo risparmi. E lì potresti aprire un conto nuovo. So di sicuro che il Tif di Chicago è pulito. È una città che ha troppa esperienza col crimine organizzato. Hanno preso le loro precauzioni fin dall’inizio.

Cole cominciò a passeggiare nella stanza. Le sue mani si muovevano sotto le labbra, quasi cercando di dire ciò che le labbra non riuscivano a trasformare in parole. — Lui… Non è… Merda… Credo che dovrei… — Si passò le dita tremanti nei capelli. Cercava di trovare una scusa razionale, qualcosa che Catz potesse accettare. Perché era così difficile farle capire? Non poteva abbandonare la città. Non adesso. Forse aveva davvero le radici; forse era una pianta che sarebbe morta, lontano dai particolari elementi chimici che formavano il terreno in cui era nata. Il cemento e le prospettive di San Francisco; l’asfalto col sudore sangue vomito lacrime seme di tutte le persone che avevano donato qualcosa per gettare fondamenta mistiche; i fili della corrente elettrica, l’asfalto, le squame d’alluminio; la struttura particolare di torri in vetro e acciaio; le immense signore di legno grigio che ai turisti sembravano solo case vittoriane; il suolo di San Francisco. — Mi chiedi di sradicare la mia identità e trapiantarla da un’altra parte. Ne resterei ucciso.

Catz giocò l’ultima carta. — Preferisci perdere me che Città?

Cole bluffò. — Non è giusto che…

— Col cazzo che non è giusto! Merda! Io ti amo e quelli ti vogliono morto. Ti uccideranno. E lui ti userà e poi ti butterà via come uno stuzzicadenti usato!

— Città non…

— Città ti sta usando!

— Questo non lo sai! — urlò lui, selvaggiamente. Si girò a fissarla. — Non puoi esserne sicura!

Catz scosse la testa. — Perché non ti ha dato una mano quando gli hai chiesto di aiutarti a salvare me? E perché ti ha mentito sul fatto che non bisognava uccidere nessuno?

Cole si sentì invadere da una decisione gelida. Alzò il palmo di una mano verso di lei, in un gesto enfatico. Catz tacque, aspettò. Lui disse: — Lo so. Lo so. Peccato. Un vero peccato. Ti amo. Ti amo, Catz. Probabilmente… probabilmente so che mi sta usando. E so che ti amo. Ma non ho scelta. Ho preso la mia decisione tanto tempo fa. Devo andare sino in fondo. Io non sono stato scelto.

— Mi fai stare male. Scelto. È sempre stata la scusa di terroristi e dittatori e fanatici religiosi, una scusa per vivere l’odio nascosto in fondo. Alla radice, c’è sempre una spinta egoistica. Lo so, adesso stai per dirmi: “Catz, tu non capisci”. Invece capisco, e non accetto. Rifiuto di lasciarmi usare da lui. Sono pronta a collaborare con le menti delle città, quando mi sembra che sia giusto. Ho già avuto rapporti con qualcuna di queste menti. Ho comunicato con New York e con Chicago. Sono vive quanto Città, la tua città. Non sono altrettanto attive, ma hanno piani. Credo che stiano progettando qualcosa… in comune. Esiste un piano comune a tutte le città che… Be’, comunque, se tu…

— Catz…

— Se tu pensi che lui ti stia…

— Catz!

— Cosa?

— Ti ho detto che lo so che mi sta usando. È una cosa interna, qualcosa di connaturato a me. Devo. Okay?

Lei lo fisso, cupa. — No. Non è okay. Non è proprio per niente okay. Tu entrerai a far parte della disco.

— Come? Perché dici una cosa del genere?

— È la differenza basilare fra noi due, fratello. Da certi punti di vista tu sei un eccentrico, un nonconformista, mettila un po’ come preferisci. Però non vuoi esserlo. Tu vuoi appartenere a qualcosa. Tu vuoi fare parte di una comunità ed essere una brava ape dell’alveare…

Balle, stronza!

— In fondo, uomo, è questo che vuoi essere. Dammi retta. È per questo che hai accettato Città così facilmente. Tu vuoi identificarti. Be’, io non m’identifico con lui… non m’identifico con nessuna massa umana. Ho paura di perdere me stessa nelle masse. Io sono quasi niente, tutti sono quasi niente, ma quel poco che sono mi è molto caro, e non voglio regalarlo a Città. E non sopporto di vedere che una cosa del genere succeda a te. Forse sono gelosa. Ma non posso restarmene calma a vederlo succedere. In ogni caso, penso che mi ucciderebbe. Perché non farei altro che cercare di allontanarti da lui. Senti, è vero che qui si sta frammentando tutto, che abbiamo divisioni ideologiche pazzesche, ma tutto quanto, i neopuritani, i neopunk, è tutto la stessa cosa. Sono soltanto balle, merda. Persino l’angoscia rock. Io non sono una cantante di angoscia rock. È solo un’etichetta che a loro faceva comodo e che mi hanno appiccicato addosso. Io non m’identifico in nessuna di queste cose. Fa tutto parte di questa bella tappezzeria. Il governo ci concede queste cose come valvola di sfugo. Forse li aiuta a reprimerci, come il metadone, come la droga legalizzata. La verità è che tutta quanta questa nazione è talmente uniforme che mi dà il voltastomaco. Non è soltanto per la compudisco o il muzak che vanno da per tutto, mediocrità in scatola, musica sempre uguale, sempre familiare… Sono i palazzi tutti uguali, i condomini, le case fatte con lo stampino. E poi, Dio, i viali! Quei viali pieni di negozi da per tutto! E le vetrine sono tutte uguali, con differenze minime, come se uno dovesse scegliere tra un colore e l’altro di carta igienica. “Signora, abbiamo un bianco pastello, oppure oro del deserto, oppure…” Capisci cosa voglio dire? L’uniformità di massa è un prodotto collaterale del condizionamento al consumismo. È la propaganda sottile delle grandi corporazioni, degli interessi enormi che guidano tutto con la loro efficienza condiscendente, benigna, dolce, liberale, sorridente…

— Ma fare parte di Città non significa questo. Sicuro, c’è una comunità culturale, ma è un fatto volontario, naturale…

— No. È solo che lui te lo fa credere.

Fra loro ci fu un silenzio teso. Lei lo guardava.

— Stai sprecando il tuo tempo — disse Cole.

— Già. Lo vedo. Ormai è troppo tardi, per te… Senti, io me ne vado. A Chicago c’è un tizio che dice che mi produrrà un album, se gli diamo un buon nastro da portare alle compagnie discografiche. Dovremo chiuderci in studio…

— Vuoi fare dischi? Allora chi vuole entrare nella Grande Uniformità? Dovrai venderti ai…

— No. Riuscirò a raggiungere più gente. Insegnerò il non conformismo…

— Ti creeranno una bella immagine stereotipata e stamperanno migliaia di poster con la tua faccia… Lanceranno la Moda Catz Wailen. Sono sicuro che funzionerà.

— Tieniti il sarcasmo sul tuo conto. Non accetto pagamenti del genere. — Catz tremava. — Merda — disse piano.

Poi andò in bagno e aprì il rubinetto del lavandino, perché lui non la sentisse piangere.


Pomeriggio tardi. L’alba del tramonto. Come preludio, il cielo che oscurava i margini frastagliati di nubi gonfie.

Solo nell’aeroporto di San José, Cole restò a guardare il jet di Catz, diretto a Chicago, che accelerava a dispetto della pressione dell’aria, che si alzava in cielo. (No, Cole non era veramente solo; ma la gente che aveva attorno non era una semplice folla di estranei: cosa più importante, non erano di San Francisco. Non erano della città di Cole. Alieni.)

Le dita, affondate nella tasca della giacca, tormentavano il foglio che lei gli aveva lasciato. C’era scarabocchiato sopra il numero di telefono di Chicago… Con Catz era partito tutto il gruppo. Il bassista, un tipo con la faccia da topo, aveva protestato: aveva pagato l’affitto dell’appartamento per tutto il mese successivo. Non gli avrebbero rimborsato una lira. A Catz non era stato difficile convincerlo a lasciare la chiave a Cole.

Poteva darsi che lei avesse torto. Forse non avevano estinto il suo conto corrente. Forse possedeva ancora il club.

— Che Dio me la mandi buona — disse lui, ad alta voce.

Il jet venne assorbito dal banco di nubi più basso. Le nuvole incombevano sull’aeroporto come demoni giganteschi e mostruosi. Catz non c’era più.

Catz era partita e lui si trovava a San José, lontano da Città. Si guardò attorno: estranei, folle di estranei. Era completamente solo.

Soffocando il panico, si girò, corse verso la scala mobile con la scritta USCITA SULLA STRADA. STAZIONE DELLA METROPOLITANA.


Cole guardò lo schermo del Tif nella cabina pubblica con una certa soddisfazione, CONTO CORRENTE ESTINTO, diceva. Non semplicemente CONTO CORRENTE MOMENTANEAMENTE CONGELATO CAUSA MANCATI PAGAMENTI. Non solo SEQUESTRO CAUTELATIVO DEI FONDI DEPOSITATI. Non per lui. Per Stuart Cole, l’anatema usato così di rado: CONTO CORRENTE ESTINTO.

In genere, quella formula la usavano con la gente che finiva in galera.

— Aveva ragione Catz — disse lui, spingendo da parte la porta a soffietto e uscendo in strada. Si fermò all’angolo tra Market e Sutter, all’ombra del tendone di un cinema di “erotismo terapeutico”. L’insegna, spenta, diceva: TERAPIA SOMMINISTRATA DURANTE LE PROIEZIONI/POLTRONE COMPLETAMENTE EQUIPAGGIATE/TERAPEUTI DIPLOMATI. — Diplomati come un asino di Tijuana — borbottò Cole, incamminandosi.

CONTO CORRENTE ESTINTO… Cominciava a risentire dell’impatto di ciò che era accaduto.

Scese lentamente lungo la strada. Ogni passo gli portava una fitta al petto. Il dolore che lo consumava era la pena di essere respinto da un’intera società.

— Perché la gente come me non l’infettano con la lebbra e la spediscono su un atollo deserto? — si chiese a voce alta.

Oltrepassò un relitto umano che russava sotto un portone invaso dalla sera. “Persino gli ubriaconi” pensò Cole “hanno un conto corrente. O per lo meno un numero di assistenza sociale, una licenza d’accattonaggio, un assegno d’invalidità. Io no. Ormai sono al di sotto anche di queste cose.”

Raggiunse una cabina telefonica e si mise ad aspettare, fissandola. Non restò deluso: il telefono si mise a squillare. — Città? — rispose, accorgendosi che un po’ del dolore se ne andava.

— Benny? — disse la voce di un portoricano, all’altro capo del filo. — Hai la roba?

Bestemmiando con tanta rabbia da non capire neppure quali parole stesse usando, Cole sbatté giù il telefono e si allontanò. — Città… — disse. Era quasi un gemito. Si guardò attorno, e le spirali della paura si avvolsero sulla pena di essere respinto.

Città era lontano da lui. Cole si sentì isolato, escluso dal solito rapporto con l’ambiente urbano.

Città lo stava punendo.

“Forse per me è finita. Forse ha trovato qualcun altro, qualcuno migliore di me per questo lavoro. Mi ha abbandonato per sempre.”

Un tram scese rombando lungo la collina alla sua sinistra. Oscillava, faceva nascere scintille dai cavi in alto. Rallentò, si fermò, fece scendere i passeggeri. Poi riprese velocità, corse verso di lui. Era lontano una ventina di metri. Gli sarebbe stato difficile fermarsi in tempo in discesa. Era l’unico modo per sapere, per scoprire come la pensava Città. Cole corse in strada, e un sudore freddo gli inondò la fronte. Aveva paura. Sì, molta. Paura di morire. Ma meglio essere morto che sentirsi escluso, intrappolato come un animale da laboratorio in un vaso di vetro. Si gettò a terra davanti al tram, strinse forte gli occhi, cercò di allontanare lo stridio delle ruote che frenavano coprendosi le orecchie con le mani. I passeggeri urlarono. Cole fiutò l’ozono del motore elettrico del tram. Sotto le sue braccia, l’asfalto tremò all’avvicinarsi delle ruote. L’ombra del veicolo gli fu sopra, metafora della morte.

Poi la strada esplose.

Mentre Cole veniva scaraventato lungo la discesa, rotolando verso destra, intravide una tubatura enorme che schizzava fuori dall’asfalto, frapponendosi tra lui e il tram. Il veicolo andò a sbattere contro la tubatura, deviò di lato. Le ruote posteriori uscirono dai binari. Cole riuscì a fermarsi, smise di rotolare.

Stringendo i denti per il male, appoggiandosi sulle ginocchia sbucciate, si rizzò in piedi. Il tram era uscito dai binari, bloccava di traverso la strada, ma non si era capovolto. Non c’erano feriti gravi. Qualcuno correva verso di lui, e sembrava quasi che i loro visi furibondi precedessero i corpi; altri, pietrificati, fissavano la tubatura delle dimensioni di un uomo che aveva fermato il tram due secondi prima che Cole finisse maciullato.

— Ehi, ehi, ma che madonna di… — urlò l’autista, piombando su Cole.

Alle spalle di Cole, sulla corsia opposta, arrivò un taxi, eseguì una conversione a U, gli giunse a fianco. La portiera dal lato del passeggero si spalancò, invitante. Cole balzò su e il taxi ripartì. Boccheggiando, si accomodò sul sedile anteriore.

Non c’era autista.

— Città… — disse dolcemente Cole. In bocca aveva il sapore salato di lacrime assurde.


Il taxi senza autista continuò la sua corsa. “Dove mi sta portando?” si chiese Cole. Due isolati, e la macchina si fermò. Cole si girò a scrutare il condominio del quartiere Tenderloin che aveva davanti: alto, stretto, di un giallo lurido. Ellis Street rigurgitava di sconosciuti, ma lui non era più solo. Chiudendo gli occhi, sentiva un elicottero decollare dal tetto di un palazzo, sei isolati più a sud. Nel buio dietro le palpebre vedeva le macchine dei pendolari sulle superstrade nord e sud: ogni auto seguiva un ritmo precisissimo, si teneva a una certa distanza dal veicolo che la precedeva, e tutte avevano la stessa velocità; come se tutte quelle macchine, anziché essere guidate da individui indipendenti e capricciosi, seguissero un’unica corrente invisibile. Come se, di nuovo, le automobili fossero cellule sanguigne trasportate dal flusso del sangue. E sentiva i treni del metrò che gli passavano sotto i piedi, le tubature che gorgogliavano e sussurravano lungo i tunnel della metropolitana; lo scintillio enorme dell’energia elettrica nella migliaia di chilometri di cavi; avvertiva il lezzo dei torrenti delle fogne e l’odore repellente dei gas di scarico di migliaia di motori, mischiati al fetore dei vapori di migliaia di fornelli su cui cuoceva cibo. Per Cole, erano profumi sopraffini.

Aprì gli occhi, scese dal taxi.

Trovò l’appartamento controllando le cassette della posta. Il bassista di Catz usava il suo nome d’arte per farsi indirizzare la corrispondenza: I.M. Dedd. Appartamento quattordici. Cole si aprì la strada a calci fra le bottiglie di vino e la carta igienica bagnata di cui era cosparsa l’anticamera lercia. Raggiunse l’ascensore con la gabbia in ferro battuto, che doveva avere almeno cinquant’anni, ed entrò. Chiuse la porta, ignorando il cartello che diceva FUORI SERVIZIO. E l’ascensore che era fermo da tanto tempo si mise in moto, con meccanismi e cavi che gemevano per la ruggine. Scese al secondo piano, sorrise vagamente alla signora uscita per le compere che se ne stava lì sul pianerottolo a fissarlo stupefatta, con una borsa piena di cose che uscivano da tutte le parti. — Quel maledetto aggeggio non funziona da cinque fottuti anni — disse la donna. I suoi occhi umidi lo guardavano come se lui fosse uno scarafaggio di dimensioni umane.

— Non funziona nemmeno adesso — ribatté Cole, superandola. — Non azzardatevi a usarlo. — E subito pensò: “Porco Giuda! Ho attirato troppa attenzione su di me”.

Il corridoio puzzava di urina, muffa e topi. Forse, un tempo la moquette era color terra di Siena; adesso aveva il colore e l’aspetto di un sentiero di campagna invaso dal fango.

Trovò l’appartamento quattordici. La porta era aperta.

Rimise in tasca la chiave ed entrò.

Un monolocale: camera da letto, bagno, cucinotto. Alla parete verde, squamosa, era appeso un poster dei Prima Lingua. Sembrava un enorme cerotto. Non c’era molto di più: una scatola di cartone piena di vestiti sporchi e spiegazzati, una corda di chitarra rotta, lattine di birra vuote, un lettino azzurro-nero con mattoni al posto delle gambe.

In camera da letto, dove il pavimento s’incurvava paurosamente, c’erano un materasso (nudo, pieno di bruciature di sigaretta), una siringa di quelle fornite dal governo, e un televisore… Un vecchio televisore dell’epoca in cui non esistevano ancora notiziatori o ciberterminali. Sul fianco non aveva la fessura per l’introduzione della carta di credito. Qualcuno (Catz?) lo aveva lasciato acceso.

L’audio era a zero. Ma il governatore declamava, con verve muta, davanti a una folla di giornalisti, ondeggiando enfaticamente sui talloni, circondato dai microfoni che costellavano il podio. Cole alzò il volume e sedette sul materasso, i gomiti piantati sulle ginocchia, il mento sui palmi delle mani. Ascoltò distrattamente, in attesa dell’apparizione di Città. Il governatore stava dicendo: — Credo che sia estremamente prematuro, in questo momento, asserire che le città stanno morendo… Anche se è indubbiamente certo che le città stanno cambiando, e in modo del tutto radicale. — Il governatore era un politicante giovane. I suoi capelli, di colore indefinibile, erano impomatati all’indietro; il cravattino, di un oro immacolato, spiccava sul panciotto marrone. — Possiamo attenderci di vedere un incremento, ah, delle tendenze attuali e, come avrete notato… — a quel punto sorrise al giornalista che gli aveva fatto la domanda a cui stava rispondendo — … la tendenza demografica punta a una ridistribuzione della popolazione, a un allontanamento da quelle che in gergo si definiscono “zone calde”. La gente si sta distribuendo su tutto il territorio. La Bell Telephone, che come sempre sa riconoscere, uh… — a quel punto si schiarì la gola, guardò gli appunti — … i cambiamenti apportati dal progresso, sta aprendo un ufficio multiplo che consiste in novanta differenti sedi disseminate nella zona della baia. Ognuna di queste sedi si troverà in casa di uno fra quarantacinque dirigenti e quarantacinque assistenti, e ogni sede sarà dotata di un terminale multiplo.

“Ogni terminale è fornito di videoschermo, ricevitore di microfilm, stampatrice di dati e segmentatore per consultazioni multiple, uh, nonché di molte altre apparecchiature. In pratica, non esiste nessun tipo di lavoro d’ufficio che non si possa eseguire con un terminale multiplo. E tutti i lavori verranno eseguiti più in fretta, visto che risulteranno eliminati gli sprechi di tempo e gli accumuli inutili di scartoffie. In prospettiva, avremo anche un risparmio energetico, dato che sarà eliminata la necessità di spostamenti in macchina per i dipendenti dalla Bell Telephone interessati. I benefici sono senz’altro troppo numerosi perché io li possa elencare tutti.”

Gettò un’occhiata agli appunti. — Ma quali sono le implicazioni di tutto questo? Dato che tutto il lavoro d’ufficio, le previsioni economiche, l’elaborazione di dati, si possono svolgere attraverso i terminali multipli, in collaborazione con il Tif, e dato che questi terminali potrebbero trovarsi, per fare un esempio estremo, dall’altra parte del pianeta e continuare a funzionare perfettamente purché esistano degli operatori, non c’è nessun bisogno che l’industria utilizzi questi, ah, meccanismi per concentrare il proprio personale in una città… Le operazioni di dogana, il trasporto delle merci, la distribuzione del cibo, tutte queste operazioni si vanno sempre più automatizzando… Gli utopisti prevedono per, oh, il prossimo secolo una nazione di villaggi legati fra loro dalla comunicazione elettronica, villaggi lindi e poco affollati, simpatici, più visibili, liberi dai condizionamenti che creano lo squallore… Coloro che oggi vivono grazie a un semplice lavoro fisico potrebbero trovare impieghi adatti a loro nel campo dei pannelli solari e delle fattorie idroponiche. Il sistema che costringe le persone ad ammassarsi nelle città dà l’impressione che esista un sovraffollamento. In realtà, la stragrande maggioranza dello spazio disponibile negli Stati Uniti non viene usato; se la popolazione si ridistribuisse…

— Città — disse Cole, e deglutì. Era successo all’improvviso.

Era apparso Città, il governatore era scomparso. Città era più grande di quanto Cole lo avesse mai visto su uno schermo televisivo; lo riempiva tutto col suo viso di pietra. I suoi occhi opacizzati erano imperscrutabili. — Visto? — chiese Città. — Hai visto?

Cole scosse la testa.

— Hai sentito cos’ha detto — insistette Città. La sua voce era il sibilo di un rettile. — Quelli dei terminali multipli stanno con il Tif, e quel figlio di puttana è una loro creatura. L’hanno in tasca, il governatore. — La voce di Città tremava, genuinamente, di rabbia. — Non era ovvio?

— Sì… — rispose Cole, reticente. — Adesso che mi ci fai pensare, mi è sembrato che facesse troppa pubblicità al decentramento. E, naturalmente, i capoccia dei terminali multipli e il Tif acquisterebbero un monopolio, se la cosa passasse, e tutti dipenderebbero da loro. — Cole parlava sovrappensiero, in tono monotono, e pensava. “È completo e inattaccabile e freddo-ma-umano e perfetto come un eroe del cinema.” Stupefatto, scrutò l’immagine di Città sullo schermo. “Com’è possibile che Catz abbia dubbi su di lui? Com’è possibile che qualcuno dubiti di un viso del genere? Di una Presenza del genere?”

Ma l’attenzione di Cole tornò improvvisamente su Città, quando Città disse: — Vuole ucciderci.

Cole indietreggiò leggermente. — Uh… Chi? Chi vuole uccidere chi?

Città annuì piano. — La rete elettronica. I computer. Il cancro che ho nel petto. Dobbiamo distruggerli… Il Tif, i terminali multipli. Vogliono disseminare la popolazione su tutto il territorio, in proporzione geometrica. Far diventare l’America una specie di alveare enorme, regolare.

— La città ha una sua regolarità — disse Cole, stralunato.

— La regolarità della città nasce dalle mura innalzate dalla competizione, la competizione della libera iniziativa. La città è un mondo dominato dall’attività frenetica; il loro mondo sarà tranquillo, efficiente e annoiato. Con il Tif e i terminali multipli non ci sarà più bisogno delle città. E la criminalità vuole questa uniformità idiota, perché le rende più facile coglierci alla sprovvista, assumere il potere. La delinquenza organizzata, una volta che si è procurata una facciata di legalità, agisce sotto l’alibi dell’ordine…

— Immagino che… sia così — disse Cole, incerto.

— Non mi credi? — Il viso di città si allargò sullo schermo, finché restarono solo gli occhiali, la fronte, e il ponte del naso.

Scosso, Cole piegò la testa all’indietro. — Certo che ti credo… Però non sono proprio sicuro che questa faccenda del grande villaggio renderà, uhm, le cose più facili al crimine. Col decentramento dovranno sparpagliarsi anche loro, lasciare pochi uomini in ogni località. Io ho la sensazione che i terminali multipli possano essere in competizione con il Tif, e…

Città chiese: — Vuoi tradirmi un’altra volta?

Cole rabbrividì all’accusa, distolse gli occhi. — Ehi, guarda che non volevo…

— Con quella donna. Sei scappato. Te ne sei andato in un’altra città. Potevo aver bisogno del tuo aiuto. Hai creduto a quello che ti diceva lei. Cosa farai per noi?

E in quel momento Cole avvertì la presenza della città, meravigliosamente schifosa, dolcemente squallida, flessibile ma infrangibile. Le cianografie dietro le palpebre, i grovigli di energia e i punti di riunione della gente: tutto ardeva nel buio mentale. E, travolto da un senso profondo, indicibile, di appartenenza allo stato puro, di indiscutibile identità, Cole disse: — Daremo battaglia.


Doveva essere una bomba. Esistevano certi punti all’interno di Città che lui poteva a stento raggiungere, così come un uomo non può controllare il funzionamento di ognuno dei suoi organi interni. Città poteva aprire le porte che conducevano al computer, ma non era in grado di distruggerlo. Non come poteva far esplodere una strada o abbattere un lampione. Ma Cole era le mani di Città.

Città gli aveva fornito la bomba. Cole l’aveva trovata in una cassetta di sicurezza di una stazione dell’autobus. Come forma e dimensione sembrava una scatola di cioccolatini, ed era avvolta in carta marrone. Gli stava alla perfezione sotto il braccio. In un angolo la carta era ritagliata, e da lì sporgeva in fuori una manopola nera. Sulla manopola era incisa una lineetta bianca. Girando la manopola in modo che la lineetta risultasse parallela alla X nera disegnata sulla carta, la bomba era innescata per esplodere entro un minuto.

Una bomba piccola ma potente, gli aveva assicurato Città.

Cole si chiese per un attimo chi, quale agente umano l’avesse preparata e chi l’avesse depositata nella cassetta di sicurezza.

Adesso Cole si trovava davanti a un tozzo edificio in pseudogranito nero: la centrale direttiva del Centro Distribuzione Dati del Tif. Per lealtà a Città, nello sforzo di criminalizzare il Tif e di mettere a tacere i propri dubbi, Cole visualizzò il grande computer che si trovava lì sotto come una gigantesca vedova nera artificiale, acquattata tra i cavi del terminale che erano la sua ragantela…

Immaginò di sentire, attraverso l’asfalto sotto i suoi piedi, l’enorme computer che ronzava. Fermo sul marciapiedi, era a pochi metri dal lato sud dell’edificio quasi informe. Si guardò attorno. Indossava un giubbotto di pelle nera, jeans lucidi e scarpe da ginnastica. Niente maschera: sapevano già chi era. All’ombra di un lampione spento, attendeva.

Il marciapiedi si squarciò. La città gli si offriva. Il cemento del marciapiedi si era spezzato con un crac secco ma breve, e adesso il foro si allargava. Frammenti di cemento scivolavano giù, verso il buio, risuonavano su una superficie sconosciuta. Il crepaccio si allargò ancora di più, un altro strato di pavimentazione cedette, e un raggio di luce gialla arrivò all’esterno. Cole si infilò la bomba in tasca, accanto alla pistola (quella pistola che aveva giurato di non toccare mai più). E, dopo aver controllato la strada deserta (erano le due di notte), si mise carponi, si infilò nell’apertura, si lasciò cadere verso la luce gialla della zona proibita. Atterrò in piedi, girò freneticamente la testa, fece per estrarre la pistola. Ma non c’era nessuno. Guardò in su, sorpreso da uno stridio che veniva dall’alto. Il foro nel soffitto si chiuse. S’incamminò lungo il corridoio, verso l’edificio di granito e il centro computer sotterraneo.

Il corridoio era ampio e illuminato a giorno; Cole si sentiva esposto. Ma in giro non c’era nessuno.

Proseguì, si accucciò d’istinto, anche se il fatto di essere accucciato non lo rendeva meno rumoroso o individuabile. Giunto a un incrocio, sporse con cautela la testa dietro i due angoli; e scoprì corridoi deserti.

Luci gialle e pavimenti di mattonelle sulla sinistra, luci gialle e mattonelle sulla destra. Da che parte? Come in risposta, a sinistra si mise a lampeggiare una luce. “Grazie, Città.” Svoltò a sinistra, estraendo la pistola.

Sentiva la città vibrare tutt’attorno, fra risonanze incapsulate e amplificate dal passaggio sotterraneo. — Sono sotto la sua pelle — disse fra sé. E quell’intimità lo ubriacava. Per cui, non si chiese: “Cosa diavolo ci faccio qui?”. Non in quel momento.

Un altro bivio. Una luce gialla lampeggiò a destra. Un cartello alla parete diceva: Cctif; sotto, una freccia rossa puntava a destra. Prese da quella parte. E fece tre passi. E si fermò serrando la mano sulla pistola.

L’autoguardiano correva direttamente verso di lui, leggermente proteso in avanti, con le braccia a stantuffo che si agitavano pigramente. — Città? — disse Cole. L’automa continuò ad avanzare. — Città?

L’autoguardiano lo sfiorò dolcemente e proseguì il cammino. Cole lasciò andare il fiato. — Grazie.

In fondo al corridoio, una massiccia porta di metallo, gli sbarrava la strada. In alto, una finestrella di vetro antiproiettile ricoperto da una rete metallica. Cole affacciò il viso alla finestrella, guardò dall’altra parte, e si maledì per l’eccessiva fiducia in se stesso. Una guardia, con una specie di berrettino grigio da baseball in testa, stava estraendo la pistola dalla fondina. Il viso dell’uomo lo fissava dall’altro lato del vetro.

La porta si mosse, rientrò piano nella parete. Quando la finestrella scomparve, Cole lesse sorpresa sul viso della guardia. Città aveva aperto la porta, e l’uomo era rimasto confuso, stupefatto. Città avrebbe impedito alla pistola della guardia di sparare.

E Cole avrebbe dovuto ammazzare immediatamente quello sconosciuto… Cole esitò, in un’agonia d’indecisione.

La porta era rientrata completamente nella parete. La guardia fissava la propria pistola con stupore raddoppiato: l’arma non funzionava. Dietro l’uomo, un lungo corridoio di metallo e luci: il computer.

Ci fu un attimo di calma assoluta, mentre i due uomini, incerti, si soppesavano. Il corridoio vibrava, ma non c’era nessun vero ronzio. I computer a stato solido non usavano più relè. Erano mostruosamente sileziosi. Banchi sterminati di cromo: silenziosi, freddi, e sicuri di sé. Il silenzio non è d’oro è di cromo.

L’uomo fece un balzo, e Cole puntò la pistola. Ma non sparò: la guardia non gli si era lanciata addosso. Aveva saltato di lato, probabilmente per azionare un allarme. Un allarme che non funzionava. E, quando se ne accorse, la guardia disse: — Merda! — ma non sembrava più sorpresa.

— La mia pistola funziona — disse Cole, puntando l’arma sul petto dell’altro.

La guardia indietreggiò. Fissava la pistola respirando pesantemente. Cole ebbe il tempo di notare che era giovane, robusto e abbronzato; probabilmente nel tempo libero si dedicava al surf. Sembrava anche forte. Socchiudendo minacciosamente gli occhi, l’uomo gli chiese: — Cos’è questa storia? Cosa vuoi fare?

Cole si morse le labbra. Al suo fianco, invisibile, Città ripeteva: uccidilo uccidilo uccidilo uccidilo uccidilo…

— No — disse Cole.

— Cosa? — chiese l’uomo, stupito. Gli tremava la bocca.

— Niente. Ci sono altre guardie, qui dentro?

— Sei. Quasi tutte al piano di sopra, in turno di riposo.

Sei! Città aveva scelto il momento perfetto. — Sdraiati a terra — ordinò Cole.

L’uomo obbedì lentamente. “Quando esploderà la bomba, morirà gente” pensò Cole; poi oltrepassò la guardia, si chinò per sistemare il congegno contro un pannello di cromo. Esitò. La sua mano sinistra tremava sulla manopola.

Esitò… E qualcosa lo colpì da dietro. Ancora una volta, si era fidato troppo di se stesso. Si trovò schiacciato a viso in giù, sotto la guardia. Le dita che stringevano la pistola erano serrate dalla mano dell’altro, che con tutta la sua forza, con tutto il suo peso, con tutta la sua rabbia gli premeva sulla schiena. La guardia tentava di non far muovere Cole, si strappargli l’arma. Freneticamente, Cole premette due volte il grilletto. I colpi spaventarono la guardia, la sua stretta si allentò, e Cole colse l’occasione per liberarsi. Pistola alla mano, balzò in piedi. Si girò, oltrepassò di corsa la porta, si lanciò nel corridoio. Alle sue spalle, urla. Le esplosioni avevano attirato altre guardie; Città avrebbe chiuso la porta d’acciaio, fermando qualcuno degli uomini. Boccheggiante, col sapore del ferro in bocca, i polmoni in fiamme, Cole divorò il corridoio, aggirò angoli al volo. Odiava l’eco dei suoi piedi in corsa.

Lontane, sopra di lui, ululavano sirene.

Svoltò a sinistra, percorse un corridoio, girò a destra. Non capiva più di preciso dove stesse andando. Gli si spalancò davanti una porta. Superò la soglia, fu nell’altra stanza, divorò scalini di cemento. Si trovò nel locale delle caldaie, immediatamente al di sotto del livello stradale. Oltrepassò tubature e condotti rivestiti di gomma, incontrò una scala di metallo, la risalì con molta difficoltà, impacciato dalla pistola. Protese la sinistra verso la ruota che costituiva la serratura di un tombino. Il tombino gli cedette, si aprì con troppa facilità: l’assistenza di Città. Piombò nel buio della notte, fu felice di respirare l’aria fresca, libera. Si trovava in un vicolo dietro l’edificio di granito. Sulla strada lampeggiavano luci, ululavano sirene che seguivano la corsa di fantasmi volanti; urla giungevano da dietro l’angolo. Un paio di fari illuminò, orrendo, il vicolo. L’automobile riempì tutto lo spazio disponibile, si lanciò alla carica contro di lui. Terrorizzato, bestemmiando, cercò un rifugio. Ricerca inutile. La macchina, un’omhra nera sommersa dalla luce dei fari, gli corse incontro. Cole si appiattì contro il muro. L’auto si fermò a una trentina di centimetri da lui. Le luci si spensero. Era solo un taxi vuoto con una portiera spalancata. — Oh, Dio, grazie — sussurrò Cole, e confuso, stanchissimo, andò a sedersi dietro il volante. Era il posto migliore, se no qualcuno si sarebbe accorto che il taxi era senza autista. La portiera si chiuse, la retromarcia si inserì da sola, i fari si accesero, il volante si mise a girare: la macchina indietreggiò lungo il vicolo, arrivò in strada.

Svoltarono a destra. “Andiamo troppo forte” pensò Cole. “A questa velocità è impossibile che non ci notino.” Due macchine della polizia si lanciarono all’inseguimento quasi immediatamente. Il taxi accelerò, passò a un semaforo rosso (sia Cole sia Città sapevano che nessuno stava sopraggiungendo all’incrocio), schizzò via nel viale quasi deserto. Le luci lo sfioravano come meteore, seguite da pozzi d’ombra: luce/buio/luce/buio/yin/yang/yin/yang/luce/buio; e nello specchietto retrovisore, occhi rossi, demoniaci, le luci rotanti delle due macchine della polizia che lo inseguivano fianco a fianco. La voce di Città dalla radio: — Non hai ucciso la guardia e non hai innescato la bomba.

Te l’avevo detto che non sono un agente segreto — ribatté Cole, ferito dall’accusa implicita di tradimento.

Le auto della polizia guadagnavano terreno. Una terza macchina proveniente da una strada laterale si unì alle prime due. Tra un po’ lo avrebbero costretto a fermarsi.

Intervenne Città. Le auto che lo seguivano rallentarono, quasi si fermarono, cominciarono a tracciare sulla strada assurdi otto, una dietro la coda dell’altra. Giravano e giravano e giravano. Guardandole nello specchietto retrovisore, Cole si mise a ridere. Come l’avrebbero spiegato nei loro rapporti? — Le macchine avevano voglia di ballare, signore — scimmiottò Cole, fissando la scena alle sue spalle, sempre più lontana.

Poi il taxi frenò di colpo. Cole venne scaraventato in avanti, si aggrappò al volante, evitò per un pelo di sbattere la testa. Davanti a lui, due auto della polizia bloccavano la strada, e dai megafoni qualcuno urlava: — Fermo lì dove sei…

La voce amplificata fu sostituita dalla disco music che adesso usciva dai megafoni. Le due macchine cominciarono a rincorrersi testa/coda, tracciando una serie infinita di otto. La canzone che i megafoni diffondevano era un successo dell’anno precedente:

Vieni, baby, giriamo qua e là

Vieni, baby, per tutta la città

Vieni, baby, giriamo qua e là…

Cole, continuando a ridere, lasciò che il taxi svoltasse l’angolo. A una velocità meno frenetica, il taxi lo riportò all’appartamento nel quartiere di Tenderloin.

La risata di Cole conteneva più di un briciolo d’isterismo.

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