L’appartamento puzzava, ingombro com’era di vestiti sporchi, contenitori di cibo e lattine vuote; perversamente, Cole era felice del fetore. Nel suo stato d’animo, ogni ulteriore dato negativo era il benvenuto.
Grazie a Dio, era sera.
Aveva trascorso tre giorni senza dormire un minuto. Era la sera di mercoledì, e lui aveva atteso impaziente che la giornata finisse; non si sentiva più a suo agio quando Città non c’era…
Passeggiava su e giù lungo la parete di vetro, stringendo le mani, fermandosi ogni tanto a dare un’occhiata dal tendaggio… Il sole era proprio tramontato? Sì, sì, era tramontato.
E Cole cominciò a sentirla: un’oscillazione lenta della Presenza, un aumento della frequenza d’onda, qualcosa che gli risaliva nella spina dorsale, che accendeva nella sua testa le immagini delle cianografie: i percorsi neurologici della città sovrapposti ai suoi.
— Cole…
Cole raggiunse il televisore, si accovacciò davanti all’immagine elettronica di Città. — Cole — ripeté Città, come assaporando quel nome. — Stanotte non avventurarti in città; devi riposare. Domani ti aspetta un viaggio. Fuori città.
— No! — Cole si rizzò in piedi, tremante. — No… non valgo più niente… quando mi allontano da te… Credo che andrei in pezzi. Una settimana fa avrei potuto. Ma adesso le cose sono diverse. — Corrugò la fronte, cercando di capire in che senso le cose fossero diverse.
— Adesso siamo più vicini l’uno all’altro, è vero — disse Città, esprimendo ciò che Cole aveva tentato di tradurre in parole. — Ma devi partire, adesso che Barnes è morto. Ti mando a parlare col viceprocuratore distrettuale.
— Io… Senti, non potremmo fare in modo di farlo venire qui? Qui riesco a fare meglio tutto. Sempre. Persino di giorno… L’altro giorno sono riuscito a guidare quell’auto come… come un cascatore professionista. Perché adesso ti sono molto più vicino, e capisco infinitamente meglio quanto le strade e le macchine che corrono per strada siano una parte di te. Invece, fuori città…
Cole si arrese. Città era inflessibile. Inutile discutere.
— Devo… — disse Cole, esitante, allontanando gli occhi dall’espressione di accusa degli occhiali che lo fissavano sullo schermo. — Devo, uh, andare di giorno?
— Temo di sì. Sono le ore migliori per trovarlo. Ho già preso appuntamento a nome tuo. Il viceprocuratore ha l’impressione che tu sia qualcun altro. — Città quasi sorrise. — Un pezzo grosso.
— Ma… — Cole si mise a gesticolare vivacemente: gli era venuta in mente un’obiezione valida a quel viaggio. — Ma io non posso andare all’ufficio del procuratore distrettuale perché ricercato dalla polizia, e con tutto il casino che mi è successo saranno senz’altro state avvertite tutte le autorità di questo stato. Anche se mi mandi sotto falso nome, è probabile che qualcuno mi riconosca. In ogni caso, parlandogli dovrò per forza rivelargli chi sono, per rendere credibile il mio racconto… Bisogna pur poter dimostrare la propria identità, se si vuole che un tribunale accetti una testimonianza.
— Vedo che non segui i notiziari — disse Città.
Cole arricciò il naso. — Non li ho più guardati. Non voglio sentir parlare delle…
— Delle sparatorie? Non devi preoccuparti. Nessuno ne ha parlato. Hanno semplicemente accennato a lotte interne fra bande rivali, una cosa normalissima per tutti. Di te non si è fatta parola. All’interno della polizia, pochi sanno chi sei. Pensaci. Non sono tutti corrotti. C’è gente della stoffa di Barnes sia fra i poliziotti sia fra i giornalisti. Immagina che ti arrestino e che qualcuno del genere ti interroghi e creda alla tua storia, almeno quanto basta per rivolgersi alle autorità federali. Immagina che ci si mette di mezzo l’Fbi… Il Tif non vuole in modo assoluto che tu deponga, che testimoni. I poliziotti che sanno di te hanno ricevuto l’ordine, da domenica scorsa, di spararti a vista, che tu opponga resistenza o meno. Troveranno sempre una scusa.
— Tengono nascosto tutto? Tutti quei morti? — chiese Cole. Ma non era sorpreso.
Città si limitò a fissarlo.
Alla fine, Cole annuì. — Dove e quando?
— Sacramento, palazzo della magistratura di stato, stanza quattro, tre del pomeriggio. Partirai con il treno di mezzogiorno.
— Ma cosa gli racconto?
— Nella stessa cassetta di sicurezza dove hai trovato la bomba ci saranno un biglietto e una valigetta. Dentro c’è la trascrizione di uno degli incontri più importanti registrati da Roscoe, più uno spezzone di videonastro per riscontro. Dovrebbe bastare a metterli in moto, anche se di per sé è tutto materiale inutilizzabile come prova, dato che è stato ottenuto illegalmente.
— Ottenuto come? — chiese Cole, speranzoso. — Voglio conoscere l’uomo che mette la roba nella cassetta di sicurezza, che te la procura. Potremmo aiutarci a vicenda… e parlare.
— No — rispose Città, mentre la sua immagine s’indeboliva. — Non è un uomo. È un autoguardiano. Solo una macchina fredda. Avreste poco in comune.
— Non ne sono certo — mormorò Cole mentre l’immagine di Città svaniva dallo schermo. Solo una macchina fredda.
Cole fu lieto di avere un biglietto di prima classe, con cuccetta. Perché, dal momento in cui si era allontanato dalla portata della coscienza di Città, avvertita solo a livello subliminale ma onnipresente, si era sentito male. Persino lì, nell’ombra oscillante, confortante, della cuccetta, era tormentato. Si girava da un fianco all’altro; un attimo era preda della claustrofobia, l’attimo dopo si sentiva completamente esposto. Soprattutto, si sentiva profondamente solo. Il suo stomaco era un pozzo di dolore; bestemmiò fra sé per tacitare i discorsi inconsulti che gli nascevano dentro, il bisogno a stento domato di urlare: “Fermatevi! Voglio andare a casa! A casa!”.
— Merda — disse ad alta voce, masticandosi un’unghia e fissando gli angoli in penombra del piccolo compartimento — sembro un bambino. — Cercò di trarre conforto dal chirr-click-chirr-click regolare delle ruote del treno a elettricità. Aveva bisogno di bere qualcosa. Doveva restare lucido per il colloquio. Ma gli sarebbe stato utile stordirsi un poco. Soltanto un poco. Il vuoto che avvertiva dentro sembrava risuonare a ogni vibrazione del treno, ricordandogli dolorosamente: Sei in un luogo estraneo, Cole, un luogo estraneo, Cole, un luogo estraneo, Cole…
Si scosse rabbiosamente, gettò i piedi giù dalla cuccetta, aprì la tenda che la chiudeva, avanzò traballando nello stretto passaggio in mezzo alla fila di cuccette. Si avviò verso il vagone bar, pensando: “Solo un bicchierino o due. Qualcuno mi offrirà da bere”.
Nella piattaforma rumorosa, percorsa dall’aria, che univa le due carrozze, incontrò un uomo con la barbetta a punta, pallido in viso, basso e magro. Gli occhi nascosti dagli occhiali attrassero l’attenzione di Cole: le lenti da sole gli ricordavano Città. I capelli dell’uomo erano corti, e ai lati della testa erano stati tagliati in modo da formare con la pelle nuda croci di Malta. Quando Cole entrò nella piattaforma, l’uomo nascose qualcosa nella giacca militare. Cole si fermò a scrutarlo. Fra i due si svolse un dialogo silenzioso, e l’uomo si rilassò. Tolse la mano dal davanti della giacca, permettendo a Cole di vedere il flacone di pastiglie che stringeva con dita pallide. Non si erano mai incontrati, ma si conoscevano già: Cole era l’acquirente, l’altro il venditore. L’istinto della strada aveva permesso a entrambi di identificare l’altro all’istante, anche se erano anni che Cole non prendeva droghe. — Qualcosa da vendere? — chiese Cole, dimenticando per un attimo che non possedeva più un conto corrente.
— Trilithum — rispose l’uomo. — Tranquillanti a effetto ritardato. Quattro creditodollari l’uno.
Cole rifletté. Non aveva conto corrente né soldi, niente.
Però aveva un orologio d’oro che aveva trovato in un cassetto dell’appartamento. Un modello costoso, digitale, con calcolatrice e trasmittente incorporate. — Ho soltanto questo — disse Cole, togliendosi l’orologio e passandolo all’altro.
Il viso dell’uomo non ebbe la minima reazione, ma la sua voce era troppo indifferente quando disse: — Be’, okay. Direi che vale tre pillole. — Anche se sapeva benissimo che ne valeva più di trecento.
Cole scrollò le spalle, annuì. L’uomo gli diede tre trilithum, che Cole sistemò nella scatoletta di plastica del suo ultimo sigaro. Poi tornò indietro, raggiunse il distributore d’acqua, ingoiò tutt’e tre le pillole. Sdraiato sulla cuccetta, si mise a pensare: “Come farò ad arrivare dalla stazione al palazzo della magistratura? Non ho i mezzi per pagare un taxi”.
Restò lì sdraiato, affondato in una deliziosa nebbia di stordimento.
Arrivato, scoprì che dalla stazione si poteva giungere a piedi al palazzo della magistratura, distante poco più d’un chilometro. Insonnolito, andando ogni tanto a sbattere contro le persone, Cole percorse la strada avvolto in una foschia d’intorpidimento. La valigetta penzolava, appena trattenuta da dita molli. Scrutando ripetutamente le targhe delle vie, poi il foglio con l’indirizzo che stringeva nel palmo sudato, raggiunse lentamente il complesso di edifici che ospitavano gli uffici statali.
Come un sonnambulo, Cole per poco non precipitò a terra nell’ufficio della segretaria del viceprocuratore distrettuale. La segretaria lo scrutò da cima a piedi con espressione sdegnata. Cole le sorrise (sperava che fosse un sorriso; i suoi muscoli facciali non funzionavano troppo bene) e farfugliò: — Scusate. Sono un po’ giù di corda. Ho preso… delle pillole per il raffreddore e mi hanno steso.
La donna annuì lentamente. — Sì, succede.
— Volete dire a Faraday che sono arrivato?
— Glel’ho già detto, signore. Vi chiamate Stuart Cole e siete un investigatore speciale della tesoreria di San Francisco, no?
— Sì — rispose Cole, barcollando. Non ricordava di averglielo detto, ma evidentemente lo aveva fatto. Gli scoppiò in testa un’idea: lo spacciatore aveva detto che si trattava di tranquillanti a effetto ritardato. Quindi, con ogni probabilità l’effetto vero cominciava solo in quel momento… Cole disse sottovoce: — Merda impestata. — Sperava di riuscire a cavarsela fino alla fine.
— Forse vorreste sedervi… — cominciò la segreteria, ma la voce che uscì dall’altoparlante nascosto nella sua scrivania disse: — Fatelo entrare.
La segretaria tornò a dedicarsi al suo terminale dati, indicandogli col pollice la porta che c’era alla sua destra.
Cole superò la scrivania con molta incertezza, cercando di orientarsi. Le gambe erano lontane, lontanissime. Gli oggetti ai margini del suo campo visivo sembravano fondersi. Superò la porta ed entrò nell’ufficio di Faraday. L’uomo dietro l’enorme scrivania di cromo e legno sintetico era avvolto nella nebbia. Cole strizzò gli occhi, ma la nebbia s’infittì. Il trilithum. Non riusciva a vedere bene Faraday, ma ebbe l’impressione di un uomo dai tratti angolosi, smilzo, coi capelli neri tagliati alla neopompadour.
— State bene, signor Cole? — chiese Faraday con voce da ragazzino.
— Sì… Ho un brutto raffreddore… Sono stati i medicinali, sapete com’è. Ah… — Cole socchiuse gli occhi, tentando di distinguere il vero Faraday dagli altri due nella proiezione tripla che vedeva. Strizzò gli occhi e si concentrò: i tre Faraday divennero uno solo. Cole avanzò con la grazia di un elefante, gettò la valigetta sulla scrivania di Faraday e, con dita tremanti, riuscì ad aprirla e a estrarre le carte e la scatola con lo spezzone di microfilm; poi mise il tutto sulla scrivania, sotto il naso dell’altro. — Sarà meglio venire subito al sodo — disse. — Non sto bene. Qui avete le prove di… — Cercò le parole. — Della corruzione nella polizia di San Francisco e nella sede di San Francisco del Tif. Anzi, Rufe Roscoe…
— A dire il vero — lo interruppe frettolosamente Faraday — conosco la natura delle vostre accuse. — Si mise a sfogliare la trascrizione della videoregistrazione. Le sue sopracciglia si alzavano e abbassavano di pagina in pagina.
Fu solo molto più tardi che Cole si chiese come facesse Faraday a conoscere la “natura” delle sue accuse.
— Bene — disse Faraday, annuendo per dimostrargli che era doverosamente impressionato dopo quello che a Cole parve un esame terribilmente breve del materiale — tutto questo richiede indagini approfondite. Dedicherò il resto del pomeriggio a questi documenti, e stasera conferirò con i miei collaboratori. Adesso… volete scusarmi? Se devo studiare ciò che mi avete portato, bisognerà che cominci subito; temo di essere terribilmente occupato, in questi giorni. Ah… potete tornare domani?
Cole aprì la bocca per ribattere, poi la chiuse senza aver detto niente. Domani? Significava dover trascorrere un’altra notte e parte di una giornata lontano da Città: una prospettiva agghiacciante. Ma non aveva scelta. Per prendere tempo, lasciò vagare lo sguardo nell’ufficio. Attraverso la nebbia che lo intorpidiva riuscì a vedere un grande schermo di comunicazione e, accanto allo schermo, un armadietto metallico, una macchina, probabilmente.
— Signor Cole?
Cole fissò Faraday, perplesso. — Oh… oh, sì, domani, d’accordo.
Girò di colpo sui tacchi, e per poco, travolto dall’accelerazione, non precipitò sul pavimento. La mancanza di sonno, unita al trilithum, lo aveva reso instabile come una marionetta. Recuperato l’equilibrio, si lanciò verso la porta, la superò, arrivò in sala d’attesa; e si fermò immediatamente. Cosa aveva dimenticato? La valigetta? Poteva riprenderla domani. Qualcos’altro. Si era scordato di stabilire l’ora del loro secondo incontro.
— Signore? — La voce della segretaria, alle sue spalle. Con un che di sprezzante. Probabilmente la donna pensava che lui fosse ubriaco.
Gli venne voglia di ridere. Poteva andare a sederle in grembo e farle sentire il fiato, per assicurarla che non aveva bevuto… Si riprese, scosse violentemente la testa. «Torna dentro e fissa un’ora per l’appuntamento», si disse. Voltandosi con estrema attenzione, traversò le sabbie mobili della moquette, rientrò nell’ufficio del viceprocuratore.
Faraday, fermo davanti alla macchina grigia (inserita nella parete: sporgevano soltanto un’apertura e una fila di comandi), non alzò gli occhi quando lui entrò. Stava inserendo qualcosa nella macchina, e intanto parlava allo schermo sulla sua sinistra. Sullo schermo, intento a fissare Faraday, c’era un viso, ed era il viso di Rufe Roscoe. Roscoe stava dicendo: — Se sei sicuro che arriveranno in tempo, non lasciarti prendere dal panico. Basta far scomparire il materiale… — S’interruppe. A San Francisco, aveva alzato gli occhi sul proprio schermo e aveva visto l’immagine televisiva di Cole accanto a Faraday. — Puttana miseria.
Cole guardava Faraday. Il viceprocuratore distrettuale stava inserendo la trascrizione di Cole nella macchina, che quasi sicuramente era una distruggidocumenti. “Se ne tiene una qui in ufficio” pensò Cole. “L’amico è ben preparato.” — Probabilmente avete intenzione di diventare procuratore… — disse ad alta voce.
Non vide gli uomini che lo afferrarono da dietro, ma lottò tanto da costringere uno a colpirlo alla nuca. E mentre piombava, felice, nell’incoscienza, pensò: “Sono poliziotti, e mi uccideranno”.