NOVVEY!

Le pareti di cemento della cella sembravano risucchiare ogni calore dal suo corpo. Fuori, la serata era calda. Lì, in una cella della prigione di Sacramento, Cole si sentiva esposto a venti polari. Rabbrividì, allacciò il bottone più in alto della camicia. Non gli avevano dato l’uniforme da prigioniero: per organizzare il finto tentativo d’evasione lo volevano in abiti civili, per distogliere l’attenzione dalla sua permanenza in prigione…

Al tramonto, quando si era risvegliato con la testa che gli pulsava follemente, aveva deciso che non l’avevano ucciso solo perché esistevano troppi testimoni che potevano non essere venduti al Tif. Inoltre, non sarebbe stato prudente permettere al medico legale di scoprire che gli avevano sparato mentre era svenuto. Cole era sicuro che intendessero ucciderlo. Normalmente, un prigioniero in stato d’incoscienza veniva portato all’infermeria della prigione. Invece, non volevano che un dottore ritardasse il suo trasferimento a San Francisco.

Seduto sull’orlo della cuccetta lercia, Cole annuì cupamente. Avrebbero inscenato il tentativo di fuga e gli avrebbero sparato il mattino dopo, durante il trasferimento. Logico.

Si avvolse attorno alle spalle tremanti la coperta ruvida e chiuse gli occhi, mettendosi in ascolto dei suoni smorzati della sera di Sacramento che gli giungevano dalla finestrella a sbarre affacciata sulla strada. Lasciò vagare i pensieri, fu cullato dai suoni striduli della città, trovò conforto nella presenza turbinosa di una città tanto simile alla sua, eppure così diversa. Ma anche lì c’era qualcosa che lui riconobbe: un senso di organizzazione invisibile. Cercò di concentrarsi su quella traccia esile…

— Di qui. — Una voce di donna, dalla porta metallica.

Cole guardò la finestrella a sbarre della porta. Non riusciva a vederla bene. Catz?

Balzò in piedi e corse alla porta, lasciando cadere la coperta sul pavimento.

Ma la donna alla porta era una sconosciuta. I capelli, tinti di rosso e uniti a formare due trecce, le ricadevano da un lato, sulla spalla sinistra, nuda. Il vestito aderentissimo, di un verde acceso, lasciava scoperto uno dei seni, su cui riposava languidamente una mano bianca, con le unghie laccate a specchio. Il corpo della donna era pieno; il volto originalissimo, a forma di cuore, scompariva quasi sotto la tinta blu cupo della carnagione. Gli occhi erano nascosti da un paio di occhiali assolutamente opachi; il che era strano perché la sconosciuta era, chiaramente, una prostituta, e le prostitute non nascondono quello che hanno da offrire… Cole sapeva che era una prostituta, e quella sicurezza non nasceva da deduzioni sul vestito e sul trucco (una voguer avrebbe potuto benissimo divertirsi a imitare lo stile puttana), ma dall’osservazione del suo atteggiamento: la donna era seducente e al tempo stesso insolente. In lei c’era un’altra cosa strana: una sorta di autocoscienza flemmatica, una sensazione di dimensioni nascoste. Cole aveva incontrato solo un’altra volta quella combinazione di attributi. In Città. E Città portava occhiali da sole. E Città poteva manifestarsi tanto sotto forma di uomo che di donna.

— Città? — chiese, timidamente.

Lei sorrise, impercettibilmente. Guardare la pelle del suo viso che si muoveva era come vedere una ripresa al rallentatore di una lastra di marmo che si deforma per effetto di un terremoto. Era dura, dura. — Città? — ripeté Cole, quasi convinto che si trattasse di lui.

Lei scosse la testa. — No. — La sua voce era roca, dispettosa, saggia. — Non sono quel posto. Io sono altrove.

— Come… come hai fatto ad arrivare fin qui?

— In questa città posso andare e venire a mio piacimento. Quasi sempre… Anche qui esiste qualche luogo che non posso raggiungere.

— Non sanno che sei qui? — chiese Cole.

— Non sanno che sono qui… Hanno deciso di ucciderti, Cole.

— Lo pensavo… Non si sono presi il disturbo di leggermi i miei diritti. Nessuna telefonata all’avvocato. Immagino che l’unico motivo per cui non mi hanno ancora ammazzato…

— …è che vogliono scaricare la responsabilità su San Francisco, nel caso dovesse andare storto qualcosa — terminò lei, annuendo.

Cole sputò per terra. — Fin dove si estende l’influenza di Roscoe? — chiese.

— In questo stato, fino a Redding. Ma stanno cercando di infiltrarsi nel Tif dappertutto. A volte ci riescono, a volte no. Avranno presto una grossa sorpresa, se gli altri… gli altri posti si organizzano a dovere.

— Cosa vuoi dire?

— Voglio dire morte. Voglio dire incidenti e ferite mortali e arti spappolati. Voglio dire morte per elettricità e annegamenti. E tutto molto efficiente, molto selettivo. Morte alle persone giuste. — Cole era sconvolto dal suo tono neutro. — Ma per arrivare a tanto dobbiamo coordinarci. Temo che il tuo… il tuo Città non collabori con tutti gli altri. È un tipo ossessivo. Si rifiuta di rilassarsi. La tua amica ti aveva avvertito… Lo so perché lei parla con Chicago, e Chicago parla con me.

— Catz? — chiese Cole. Afferrò le sbarre: aveva le mani sudate.

— Sì. Ha un ottimo rapporto con Chicago.

Tante cose si misero a turbinare nella mente di Cole, si fermarono poco per volta, mentre le implicazioni delle frasi apparentemente distratte della donna prendevano forma. E Cole seppe: — Sei Sacramento.

Lei annuì.

— E tutte le grandi città posseggono… menti coscienti di sé? E possono manifestarsi?

— “A volte” è la risposta a tutte e due le domande.

Cole esalò un respiro lungo, affannoso. — Allora… puoi tirarmi fuori di qui?

— Sì, se mi prometti una cosa.

— Sì.

— Promettimi che cercherai di convincere Città a collaborare con noi alla Spazzata. Lui capirà a cosa alludi… Se fosse rimasto maggiormente in contatto con noi, gli avremmo detto che il tuo viaggio era inutile, che Faraday è venduto…

— Te lo prometto.

Con la dolcezza del bacio di un bimbo, la porta della cella si spalancò.

Il corridoio di cemento era deserto, a parte le falene che svolazzavano. Cole seguì la donna, Sacramento, fino a una parete in fondo al corridoio. E, come tagliando fette di un dolce morbido, Sacramento tolse dalla parete blocchi enormi di cemento, che sotto le sue dita parevano diventare porosi, malleabili. Cole cercò di aiutarla e riuscì solo a sbucciarsi le mani. Per lui, la parete era solida come la più solida delle pareti… Metodicamente, lei smantellò la barriera, ammucchiando i blocchi in bell’ordine in un angolo, finché non ebbe scavato una porta in corridoio.

Poi lo guidò nella notte. Un taxi senza autista li portò alla stazione ferroviaria; il treno di mezzanotte stava per partire.

Sacramento lo salutò baciandolo sulla guancia.

La pelle della guancia di Cole bruciava come se lui l’avesse sfregata con del ghiaccio secco.


Catz.

Lo aspettava sul marciapiedi davanti al suo hotel. Erano le quattro del mattino. La presenza di Città stava diminuendo. L’alba stava illuminando la città muovendosi come il braccio di un oscilloscopio radar. Mentre Cole restava a fissarla muto, il chiarore del giorno si faceva sempre più intenso.

Lui scosse la testa.

Era stato liberato dalla prigione, da una trappola che doveva terminare con la sua morte. E Catz era lì, ed era tornato da Città.

Non poteva durare.

“Allora non sprecare un minuto” si disse, e le corse incontro.

Si abbracciarono. La stanchezza, che pochi minuti prima lo faceva barcollare, evaporò alla vista di Catz davanti a lui nel fulgore del sole del primo mattino, con le ombre azzurrastre che si ritraevano attorno a lei e il vapore della rugiada in evaporazione che si alzava dai suoi stivali neri. Adesso, con le braccia piene di lei, gonfiò le gote per lo stupore della miriade di sentimenti che sentiva risvegliarsi… Catz pareva stranamente piccola, magra, fragile, sotto la giacca di cuoio, in contrasto alla statura monumentale che lui ricordava.

Indietreggiò, la tenne davanti a sé a braccia tese, la guardò. Gli occhi marrone-oro di Catz erano enormi, le pupille dilatate dalle ombre che aveva attraversato. I capelli erano in disordine; non era truccata; qualche cicatrice sulla guancia spiccava enormemente sotto la luce, dandole un’aria adorabilmente tragica. Teneva le labbra serrate, come per impedire alla bocca di tremare, forse per non dimostrargli sino in fondo quanto fosse felice di rivederlo. Indossava un vecchio paio di blue-jeans aderenti, un po’ stracciati, e una maglietta sotto la giacca. Sul marciapiedi, accanto a lei, c’era una borsa di stoffa pesante con una scritta in vernice bianca: ANARCHIA.

Catz annuì in direzione dell’hotel. — Possiamo entrare tutt’e due?

— Sì… — Cole si schiarì la gola. Aveva la voce roca. — Sì. A quest’ora non c’è personale di servizio. La porta si apre con una chiave e un’impronta vocale. È un alloggio che mi ha procurato Città. Ma mi servirà solo per un altro mese, perché poi torna il vero inquilino. — Restava lì a fissarla. Il fresco del mattino gli procurava fitte reumatiche alle nocche. Non riusciva a decidersi a spezzare l’incanto incamminandosi verso l’hotel.

Ci pensò lei. Prima disse, con una certa petulanza: — Gesù, e muoviti — poi si chinò a raccogliere la borsa, se l’infilò a tracolla, si rialzò. — Sono distrutta. Ho fatto il viaggio su un fottuto Greyhound. Sono peggiorati da che ero piccola, fratello. Più affollati. Roba da non crederci.

Un brivido di stanchezza riafferrò Cole. Si frugò in tasca per un minuto intero prima di riuscire a trovare la chiave. Assieme, si avvicinarono alla porta a vetri con serratura di cromo. Cole inserì la chiave e disse: — Inquilino. — Un clic. Tolse la chiave, e la porta si spalancò…

Mentre salivano in ascensore, le raccontò come meglio poteva, disfatto dalla stanchezza, l’incontro con Sacramento. Catz restò affascinata dalla descrizione della donna che era l’incarnazione di Sacramento. — Mi piacerebbe conoscerla — disse, quasi con venerazione. — L’apoteosi delle prostitute.

— Da quello che mi ha raccontato, dovresti essere in buoni rapporti con Chicago. Per cui è probabile che riusciresti a entrare in sintonia con Sacramento. Credo che a te si manifesterebbe. — L’ascensore divorava piano dopo piano. Strano trovarsi in una scatola che correva verso l’alto alle quattro e trenta del mattino. — Come hai fatto a sapere dove sto?

— Chicago ha avuto contatti sporadici con Città. A quanto sembra, San Francisco è un lupo solitario… Hai detto che probabilmente riuscirei a entrare in sintonia con Sacramento? Come a dire che è fuori discussione che tu venga con me. Perché dovresti andartene da qui, come se questo buco fosse chissà quale Eden…

— Ehi, piantala con le prediche! — scattò Cole. — Sono giorni che non dormo… A parte quando sono svenuto per un colpo in testa, e non è che sia stata una cosa molto riposante. Ci vedo triplo, e per il momento non sono pronto per le solite discussioni, a nessuna discussione.

Catz si mise a fissare la porta grigia dell’ascensore. Come intimidita dal suo sguardo, la porta si aprì sull’ultimo piano. Cole guidò la ragazza lungo il corridoio, fino all’ingresso del suo appartamento. Eseguirono un altro rituale di apertura elettronica ed entrarono. Catz trattenne il fiato. — Ugh… Rifiuti!

— Scusa. Lo so che puzza. L’ho fatto apposta. Rifletteva il mio stato d’animo. Credo di… — Respirò a fondo. — Sono stato da cani, senza te.

Lei gli sfiorò dolcemente la guancia con un dito, scosse la testa, affettuosa, triste.

Poi lanciò a terra la borsa e si avvicinò alla finestra, per aprire le tende. — No! — urlò Cole. — C’è già il sole!

Catz lasciò cadere la mano dalla tendina, si girò a fissarlo con uno sguardo di repulsione.

— Vedi, è perché… — balbettò lui. — Sono giorni che non dormo; mi fanno male gli occhi. Non voglio che vengano colpiti dalla luce viva… finché non mi sarò riposato.

Lei decise di non discutere quella spiegazione.

— Forza, allora — disse, avviandosi in camera da letto tra i rifiuti sparsi a terra. — Andiamo a dormire. Sono a pezzi.

— Sì — disse Cole, e la seguì, sollevato di aver schivato una discussione. — Sono distrutto anch’io.

Si spogliarono nella camera da letto in penombra, si sdraiarono sulle lenzuola, crogiolandosi nella reciproca compagnia. A Cole sembrava di affondare nel materasso. Insonnolito, restò ad ascoltare Catz, se la tirò vicino. Non vedeva assolutamente niente nel buio dietro le palpebre.

— …Insomma, mi è sembrato strano — stava dicendo la ragazza — che Città mi abbia fatto sapere, attraverso Chicago, dove trovarti. E che non abbia cercato di fermarmi quando sono tornata. Credevo che mi volesse fuori dei piedi, prima… Sembrerebbe quasi che si sia un po’ lasciato andare. Ma forse è una cosa temporanea. Forse ci concede qualcosa perché sta per chiederci molto di più… Oppure sa che non posso fermarmi a lungo. Devo tornare a cercare di concludere il contratto per il disco…

— Tutte ipotesi — mormorò Cole nel cuscino, umido per la vicinanza delle sue labbra spalancate.

— Insomma, per quanto tempo ancora, Stu? — riprese Catz, con uno sbadiglio. — Per quanto tempo puoi andare avanti così? La gente non è fatta per vivere come hai vissuto tu ultimamente, uomo. È una situazione che non può durare, credimi. Tu farai la fine di tutti quegli idioti che si vedono per strada, i poveretti che s’incontrano tanto spesso, gli schizofrenici completamente partiti che urlano a persone che non esistono e discutono coi lampioni e sbattono le braccia come pipistrelli… Insomma, prima o poi dovrà finire. Non puoi restartene qui per sempre. E… continuo a pensare a quello spettro di te stesso che hai visto. Insomma, dove finirà, Stu?

Lui non le rispose. Preferì lasciarle credere che si era addormentato. E un minuto più tardi dormiva sul serio.


Dormirono per tutto il giorno. Quando il tramonto oscurò le finestre, si alzarono, fecero il bagno, indossarono vestaglie da camera pulite. Vestaglie da camera di seta azzurra con le iniziali di uno sconosciuto sul taschino.

Per muto accordo ripulirono l’appartamento. Gettarono bracciate enormi di spazzatura nei tritarifiuti. Cole notò che Catz aveva staccato telefono e televisione. Non disse niente: sentiva Città in attesa dietro le finestre con le tende ancora tirate.

Adesso che era sera, era Catz a non volerle aprire.

La ragazza frugò nella borsa, tirò fuori un mangiacassette e qualche cassetta, ne mise su una, e alzò il volume al massimo.

La cassetta era un’antologia di canzoni di diversi artisti, popolari e sconosciuti, vecchi e nuovi. La musica era una presenza senziente che dava alle pareti una risonanza inedita, viva. Il beat, l’eterno intramontabile beat. In quel momento stavano ascoltando un brano della fine degli anni Ottanta: Puttana dell’altro sesso, degli Odds.

Cosa importa se l’idea ti fa stare male,

Per lei e i suoi trucchetti è tutto uguale.

Io l’ho incontrata in un bar pieno d’attrici

Mi ha portato a casa, mi ha mostrato le cicatrici…

Catz ballava, e intanto Cole versava da bere. Cole era troppo inibito per ballare da sobrio. Un crepuscolo caldo stava scendendo negli angoli del soggiorno, i mobili sembravano avvolti da coperte d’ombra. Cole avvertiva la città pulsare tutt’attorno all’hotel: si sentiva l’asse attorno a cui Città ruotava. Versò di nuovo da bere e guardò Catz. La ragazza aveva la vestaglia aperta, ballava con furore maniacale, era bagnata di sudore. Cole ebbe l’impressione che stesse cercando di assaporare gli ultimi sprazzi di gioventù.

Gli Odds continuavano con la loro musica voloce, dura, affascinante; il cantante stava imitando il tono di voce suadente di un venditore di macchine usate:

È meglio di una ragazza vera

Il doppio calda, il doppio leggera

Fa l’amore persino in un parcheggio

Per un po’ di soldi rischia il peggio

È solo una puttana dell’altro sesso

Mi farà ricco, se non sono fesso

Sarà un po’ strano, ma che grande effetto

Se non fai caso ai peli sul petto.

È solo una puttana dell’altro sesso

Merda, solo una puttana dell’altro sesso…

Cole portò da bere a Catz e sedette a guardarla. Nella penombra, la sua pelle bianca sembrava di un azzurro fosforescente; forte e fragile, con la vestaglia che le svolazzava attorno al corpo, era la regina dei vampiri appena risorta. Cole sorrise la sua approvazione…

La canzone terminò, ne iniziò un’altra. Catz si gettò a sedere sul divano accanto a Cole, reggendo con una mano il bicchiere di scotch e coca, con l’altra carezzando il collo e le spalle di Cole. Muovendosi freneticamente, percorreva con le dita il bracciolo del divano.

Cole aveva mandato giù il secondo scotch quando Catz gli strappò il bicchiere di mano e lo scagliò violentemente contro il bar. Mancò per poco l’abat-jour dalla luce rossa, la loro unica illuminazione. Il bicchiere si ruppe, e Catz rise; Cole capì che si era trattato di un gesto di rabbia. Le prese il bicchiere e lo lanciò contro la porta dell’appartamento, ma il bicchiere non si ruppe. Catz rise, si lasciò scivolare in avanti, sulle spalle di lui, schiacciandolo sui cuscini col proprio peso.

Cole, col cervello un po’ annebbiato dal liquore, aprì la vestaglia, e lei aderì al suo corpo. La metà superiore di Cole era morbida, la metà inferiore si concentrava in un nucleo duro, teso, un nucleo che lei chiuse fra le labbra, mentre le mani di Cole seguivano il percorso dei muscoli sulla schiena di Catz, evocavano elettricità dalla sua spina dorsale. Ci fu un’ondulazione reciproca; i loro muscoli oscillarono impercettibilmente sulla stessa lunghezza d’onda, quasi fondendosi. Lei strinse l’asse di Cole con un compasso: le cosce serrate. E per poco lui non venne. Ma Catz balzò a sedere, e il pene eretto andò a sbattere contro la pancia di Cole, e poi lei si mise a cavalcioni su di lui, si mosse lentamente, si lasciò penetrare. La musica era un coltello ritmico, un tuono di contrappunto, un rombo amplificato, e dietro gli accordi delle corde metalliche della chitarra si udiva il cozzare della spada sullo scudo.

Fare l’amore fu una battaglia in tono minore, e la ferocia si trasformò in amore attraverso il sangue versato. E in effetti lei sentì male, e lui sentì male quando lei non volle fermarsi dopo che lui era venuto, quando la repulsione era forte e il suo membro flaccido; ma l’erezione tornò immediatamente, e il trascorrere del tempo portò un entusiasmo rinnovato, e i suoi movimenti fiacchi si trasformarono in una spinta veloce e la spinta veloce in un ritmo sfrenato e, come in una guerra, ci fu una serie progressiva di esplosioni, e urla di angoscia, e poi restarono immobili, sbuffanti, abbracciati dolcemente.

Dopo i minuti del respiro affannoso e delle dolci esalazioni, si staccarono. Catz si alzò per andare a lavarsi.

Ma non sarebbe stata l’unica volta, quella notte. Cole intuì vagamente che nel loro desiderio convulso di accoppiarsi c’era disperazione, c’era il bisogno di fare tutto il possibile nel tempo che restava.

“Domattina” pensò. “Domattina succederà qualcosa.”


Era quasi mezzanotte quando Catz si vestì e uscì per andare a sistemare gli affari della band; mezzanotte era l’ora di maggior lavoro per le persone che doveva vedere. Cole piombò in un sonno esausto.

Alle dodici e trenta fece un sogno. Sognò che le sue braccia discutevano per stabilire quale delle due dovesse considerarsi padrona delle spalle. E le sue gambe battagliavano per il possesso dei fianchi. Ma fianchi e spalle, strillando, ribatterono di essere padroni della propria anatomia; anzi, dovevano essere loro a dominare gambe e braccia, e non viceversa. Mentre le braccia urlavano che dovevano essere loro a decidere della sorte delle spalle e le spalle gridavano i propri diritti sulle braccia, e gambe e fianchi litigavano per lo stesso motivo, si misero a discutere anche lo stomaco e il sesso. Il sesso sosteneva che l’intero corpo spettava a lui, dato che la riproduzione era senz’altro l’imperativo più importante. Lo stomaco ribatté aspramente che tutto quanto il fisico di Cole doveva diventare stomaco, visto che persino l’ultimo degli imbecilli sapeva che nutrirsi era considerato la priorità numero uno in assoluto.

Solo la testa se ne restò in silenzio.

Cole si svegliò, conscio di essere solo (a parte la presenza della città che ruotava attorno all’albergo, attorno a Cole, l’asse umano), alle due di notte. Era sdraiato sulla schiena. Strizzò gli occhi. Era bagnato di sudore, eppure aveva freddo. Perfettamente sveglio, tutti i suoi sensi erano all’erta. Cosa l’aveva destato? La sensazione di qualcosa che gli strisciava sul braccio destro. Deglutì, respirò tre volte di seguito. Odiava in modo totale i roditori. Forse, a corrergli sul braccio era un topo. O, ancora peggio, un ratto di fogna. E se l’avesse morsicato? Cercando di muovere solo il braccio sinistro, protese la mano, accese la lampada che stava sul pavimento, accanto al materasso. Trattenne il fiato e si girò a guardare, sollevando la sinistra per gettare via la cosa che aveva sul braccio.

Non c’era niente. Soltanto il filo di una lampada, con la spina disinserita dalla presa. Il filo di una delle due lampade. Strano che si trovasse lì sul letto. Sul lenzuolo spiegazzato, spiccava come una vena. A terra, spenta, la lampada da cui il filo usciva. “Ma perché sto qui a fissarlo?” si chiese Cole.

Doveva essere stata Catz a buttarlo sul letto, quando era uscita; forse se l’era trovato fra i piedi.

Ma allora, cosa aveva sentito strisciare sul braccio? Un sogno.

Allontanò il filo dal letto e tornò a sdraiarsi. Si sentiva pesante. Stare coricato era un sollievo. Trascorsero altri quarantacinque minuti prima che riuscisse a riaddormentarsi.

Perse coscienza. Gli parve di sciogliersi nel materasso, di fondersi col liquido che scorreva allegramente nelle tubature sotto le strade di Città. Sopra di lui, diagrammi luminosi, case e uffici si denudarono, furono investiti dal bagliore dei neon, lampeggiarono in una coreografia meccanica…

Qualcosa lo svegliò alle quattro. Il suo braccio destro era imprigionato: il filo della lampada gli serrava il bicipite, e la spina affondava i due poli di rame nella sua spalla. Sembravano i denti smussati di un serpente.

Urlò qualcosa e agitò violentemente il braccio, lanciando via il filo. La pelle era cianotica nel punto in cui il filo lo aveva stretto.

Sulla spalla, dove i poli della spina avevano morso, aveva due contusioni, e lì la pelle era diventata assurdamente, malignamente insensibile. Cercò di sollevare il braccio per vedere meglio i segni lasciati dalla spina, ma l’insensibilità si diffuse per tutto il braccio, gli invase la carne; sicché dovette lasciar ricadere il braccio sul letto. Si è addormentato, tutto qui, si disse.

Tentò con tutte le sue forze di muovere il braccio, ma non si spostava di un millimetro.

Si udì gemere, si costrinse subito a smettere. Si alzò, barcollò, sentì in bocca il sapore della bile. Gli sembrava di cercare di camminare su un jet che si fosse lanciato in picchiata; la forza di gravità lo schiacciava verso il pavimento. Riuscì ad arrivare in bagno anche se il suo corpo era paralizzato. I muscoli gli obbedivano a stento, quasi desiderassero correre da un’altra parte e si sottomettessero con reticenza petulante. Barcollò fino al lavandino, frugò tra le cose di Catz con la sinistra (la destra gli pendeva inerte lungo il fianco, un ammasso di carne morta), aprì un flacone di sonniferi. Ne ingoiò sei, senz’acqua. Poi tornò a letto e spense la luce.

“Mi sono mosso nel sonno e mi sono impigliato nel filo della lampada. Avrò avuto un incubo” si disse. “E adesso sto male. Domattina, quando mi sveglierò, sarà passato tutto.”

Piombò nel sonno come un macigno che rotoli da un precipizio.


Ma, nonostante i sonniferi, si svegliò alle sei. I raggi rossastri del sole entravano di sbieco dallo spazio vuoto fra le tendine.

Cole cercò di mettersi a sedere. Non riusciva a muoversi. Allora si guardò.

Il filo era arrotolato attorno al suo collo. Anzi due fili: uno gli stringeva la vita. Riuscì ad alzare la testa sul cuscino e guardò oltre l’orlo del letto, sulla destra. Il filo che si avvolgeva lentamente attorno alla sua gola correva sul materasso, scendeva dal letto, s’infilava sotto il tavolino di vetro; ma non usciva dalla lampada, come lui credeva. Era stato strappato dalla lampada. L’estremità mozza penetrava direttamente nella presa della parete. Cole sentì qualcosa muoversi, mordergli la nuca all’attaccatura del collo. La cosa si fermò lì, ma non ci fu nessuna scossa.

D’altronde (lo capì ragionando in base a un’obiettività isterica), ormai il suo corpo non avvertiva più sensazioni. Le sue membra erano pesanti, morte, possedute.

Indubbiamente, in quel momento una corrente elettrica molto forte lo attraversava, ma lui non poterva sentirla. Indubbiamente. Senza dubbio. Probabilmente. Così pare. Frasi beffarde, assurde, che risuonavano vaghe nel suo cervello in agonia.

Cole emise un gorgoglio e svenne.

Quando rinvenne, era quasi mezzogiorno. Ma lui non sapeva che ora fosse. Non poteva guardare un orologio o una sveglia, perché non poteva muoversi. Sopra di lui si muovevano cose, strisciavano, avanzavano. Fili, fili neri di impianti elettrici, che scivolavano, che lo avvolgevano sinuosamente. Che lo trasformavano.

Città? Un urlo muto. Città!

Nessuna risposta.

E Catz dov’era? Ma gli aveva detto che sarebbe rimasta fuori fino alla sera del giorno dopo. “Tanto meglio che non sia qui a vedere quello che sta succedendo” pensò Cole. “Tenterebbe di interferire. Ma è inutile opporsi.”

Cole sapeva di stare morendo.

A volte, la follia non è un’aberrazione. A volte è una reazione indispensabile. A volte è l’unica via d’uscita.

Esistono alcuni terrori che non si possono affrontare senza l’aiuto della follia. È sempre stato così, e molti lo hanno detto. È una verità che tutti conoscono. Esistono alcuni terrori…

E uno di questi terrori è la paralisi che avanza poco per volta, il tipo di paralisi che sembra dover durare per sempre. Essere intrappolati sotto il peso di una città; essere sepolti vivi; tramutarsi in pietra; congelare… Pensando, vivendo tutto, avvertendo lo smorzarsi progressivo dell’io.

Cole provò le stesse sensazioni che aveva immaginato di provare se si fosse trovato fra due pareti che si stringevano, schiacciato poco per volta dalle mascelle di un mostro artificiale.

Si chiese se Città potesse almeno togliere il dolore. Se volesse togliere il dolore.

Città non voleva… E il dolore stava arrivando, penetrava la coltre d’intorpidimento, come un autocarro enorme, mostruoso, che sbucasse all’improvviso dalla nebbia fitta; gli si scagliava addosso, ridondante di frastuono, di un’indicibile accelerazione metallica.

Un dolore intensissimo.

Esistono alcuni terrori…

Cole non era in grado di emettere nemmeno un gemito. Ma, dentro, rise. E si chiese, mentre il dolore correva su e giù per la sua spina dorsale, mentre invadeva con forza incontrollabile i suoi nervi, ogni suo nervo, si chiese che fine avesse fatto Pearl. E Catz. E…

Rideva perché era al di là delle urla.

Città…

Un tuono bianco…

Cole si mise a fissare il soffitto, fingendo che racchiudesse il mondo intero.


Era schiacciato sotto il peso di una città, finché non giunse la morte a togliere il peso dalle sue spalle.


Fu la voce di Catz a ridestarlo da quello stato.

Si trovò in piedi vicino al letto, a guardare la ragazza. Non ricordava di essersi alzato. Ricordava che non riusciva a muoversi, che era inchiodato al letto, che si sentiva legare, soffocare, e… cambiare. E poi un caleidoscopio delle cianografie di Città, e tenebre che lo risucchiavano. E adesso era lì, guardava Catz, che se ne stava ferma sulla soglia della camera da letto, sbadigliava, si sfregava gli occhi.

Erano le otto di sera. La stanza era buia, la figura sul letto irriconoscibile.

Chissà chi c’era sul letto, si chiese Cole. — Catz? — disse, e la sua voce fece nascere strani echi. Era una voce e non era una voce. Ridacchiò.

Sul letto c’era qualcuno. Non era Cole e non era Catz.

Catz protese una mano, accese il lampadario.

Cole sbarrò gli occhi. La figura sul letto era trasparente. L’intera stanza (si guardò attorno, meravigliato) era trasparente. E anche Catz era trasparente. Come negli ologrammi da due soldi. Le pareti erano fatte di una nebbia stranamente immobile, attraverso cui riusciva a vedere i fili dell’impianto elettrico e le travi e l’altra stanza e il corridoio esterno… E, oltre il corridoio, la nebbia si infittiva a nascondere tutto il resto. Cole guardò la propria mano. Era solida, era vera. A quanto pareva, l’unica cosa concreta rimasta nel mondo era lui.

E la figura sdraiata sul letto era Cole. Affondava nel materasso, come oppresso da un peso gigantesco. Il che era strano, dato che era semitrasparente, e di conseguenza fragile, inconsistente.

E poi ogni tessera del mosaico andò al suo posto, e Cole capì d’improvviso cento cose, una dopo l’altra, finché non tremò sotto il peso della rivelazione e dovette farsi forza per non crollare. Ecco qui tre delle sue rivelazioni:

1) Lui era morto. Defunto.

2) La figura sul letto era il suo corpo, trasmutato e invasato.

3) Dal suo punto di vista attuale, il punto di vista del nuovo corpo (un corpo astrale?), il mondo era una cosa esile, c’era e non c’era. Il mondo gli si svelava nella sua vera natura di illusione transitoria; ma, dal punto di vista di Catz, era lei a essere vera, mentre Cole era morto. Per lei, a tutti gli scopi pratici, lui era morto.

Queste sono tre. Aggiungiamone una quarta.

4) Non era morto. Era vivo; in un nuovo corpo, in un nuovo stato dell’essere. Solo il vecchio Cole era morto.

Era vivo, e in grado di pensare. Però non era più padrone di sé.

Città aveva ucciso il vecchio Cole. Aveva scelto di possedere il suo corpo, già preparato dai rapporti precedenti fra loro. Il corpo di un uomo posseduto da un’intera città: ecco cosa giaceva sul letto.

Catz stava urlando.

Scuoteva le spalle del Cole defunto, cercava di trasmettergli la vita premendogli le mani sul petto. Ma la sue nocche sanguinavano al minimo urto contro il corpo. Catz se ne accorse e indietreggiò, spalancò la bocca, la coprì con dita tremanti. I suoi occhi sbarrati, vuoti, urlavano che aveva capito.

Il corpo nudo sul letto si era tramutato in pietra.

Ma la pietra, animata da Città, poteva muoversi, piegarsi e incresparsi come pelle. La figura sul letto si mosse. Il letto scricchiolò per il peso enorme. Gli occhi restavano chiusi. La figura si alzò. La sua testa ondeggiava in qua e in là, a destra e a sinistra, come un radar che esplorasse la stanza. Lentamente, la figura s’incamminò verso lo specchio della parete opposta, restò immobile a scrutarsi. I suoi lineamenti duri, decisi, non registrarono il minimo cambiamento. Il viso era quello di Cole, l’espressione quella di Città. Il fu Cole alzò le mani a coprirsi gli occhi; la metà superiore del suo viso, adesso, era nascosta dai palmi aperti. Restò in quella posizione per dieci secondi, mentre Catz, orripilata, se ne stava immobile contro la parete, fissandolo boccheggiante. Poi la figura abbassò le mani, e dove un tempo esistevano gli occhi adesso c’erano occhiali da sole, direttamente incorporati nel tessuto della testa. Città si girò a guardare Catz, riempiendo dell’immagine di lei le lenti a specchio. L’espressione di Catz, un disgusto assoluto, venne riflessa due volte. — Catz! — disse Cole. Lei guardò verso il punto in cui si trovava lui, stupita. A quanto pareva, non riusciva a vederlo; però lo aveva sentito. — Non mi vedi?

— Stu? — chiese lei, incerta. — Riesco quasi… C’è qualcosa, ma…

— Catz… — cominciò Cole, e la ragazza alzò di colpo la testa. Lo aveva sentito.

— Stu!

La figura davanti allo specchio, Città, si voltò a guardare Catz. Cole si sentiva addosso quegli occhi. Avvertiva attorno a sé la Città, come un nuotatore avverte qualcosa degli abissi dell’oceano che lo circondano, anche se nuota nell’acqua bassa vicino a riva: risonanze di profondità enormi, lontane. Le piazze della città che risuonavano al passaggio delle macchine e degli uomini, le urla dei bambini…

Città girò la testa, e la sensazione della totalità urbana si smorzò in sottofondo. Città si avvicinò a Catz, protese una mano fredda verso la sua spalla. — Questo non è il tuo posto — dissero le labbra di ferro, sotto un naso che non respirava e le lenti a specchio.

Lei disse qualcosa: — Auh… auh… op… auh… — e indietreggiò, massaggiandosi le dita nei punti che sanguinavano. Poi si voltò, uscì dalla stanza, e Cole la sentì dire: — Mi spiace, Stu.

Qualcosa di caldo lasciò per sempre Cole. Lo stato in cui si trovava era talmente nuovo da procurargli dolore.

Città si girò verso di lui e gli disse: — Va’ dove vuoi. Percorri i meandri dello spazio e i labirinti del tempo. Ma non interferire col mio lavoro. È giunto il momento della Spazzata…

Splendido, Città oltrepassò porte che nascevano dall’incrocio di un piano di splendore con un altro piano di splendore e lasciò Cole solo, con il mondo intero a sua disposizione.

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