ZINQUEE!

“E spicciati.” Aveva preso la macchina di Bill. Correva come un pazzo sotto la pioggia, con un’indifferenza assoluta alla scivolosità del fondo stradale.

La pioggia aveva cominciato a scendere due minuti dopo che lui era uscito di casa. Era bagnato fradicio quando era andato a svegliare il suo vice e gli aveva semplicemente chiesto le chiavi della macchina, promettendogli di spiegargli tutto più tardi. Bill era troppo distrutto e insonnolito per mettersi a discutere.

Cole si agitò sul sedile, irrequieto. Aveva i pantaloni umidi, la camicia gli si attaccava alla schiena. Il riscaldamento della Chevy Swift era acceso, i finestrini chiusi, e la pioggia che gli bagnava i vestiti cominciava a condensarsi in vapore, rendendo torrido l’abitacolo della macchina. Sentiva l’odore umidiccio dei suoi capelli, il puzzo di cenere stantia che usciva dal posacenere. Sulla lingua aveva un sapore disgustoso di sigaro. Il mal di testa era scomparso, sostituito da un irritante bruciore allo stomaco.

Le strade erano bagnate, nere, vitree, membranose, quasi organiche nella lucentezza della pioggia.

La vecchia berlina a due porte, col cofano ammaccato che ogni tanto sobbalzava perché era tenuto chiuso da un pezzo di filo metallico, s’infilò sulla rampa d’accesso della superstrada. Cole passò da una corsia all’altra, gli occhi puntati sui pannelli di controllo della guida elettronica che si erano accesi appena aveva imboccato la superstrada. Il sistema di guida elettronica non era ancora installato in città, e meno di metà delle auto in circolazione erano predisposte, per cui l’uso ne era facoltativo. Cole era esausto per la mancanza di sonno, gli dolevano gli occhi; decise di affidarsi alla guida automatica per raggiungere Oakland. Abbassò un interruttore e si appoggiò all’indietro sul sedile, lasciando che il volante guidasse da solo. Gli era ancora difficile abituarsi alla vista del volante che girava senza che lui lo toccasse, del pedale del freno che si premeva da sé quando l’auto che lo precedeva rallentava…

La Swift superò le cabine di pedaggio, si avviò verso le corsie gratuite, si lanciò sul ponte. Nel mattino piovoso, il mare che si stendeva sotto Bay Bridge era una distesa di giada increspata, troppo antica e sterminata per lasciarsi domare da un potenza. Pareva quasi che il mare aspettasse l’inevitabile terremoto per poter irridere, per l’ultima volta, gli artifici della civiltà.

Cole si girò a guardare dal finestrino posteriore. Sotto un velo di nebbia si alzavano le torri perlacee della città; in quella prospettiva misteriosa, somigliavano ai bastioni affilati di una città straniera, esotica. Sentì una fitta al cuore quando scorse la mole del Pyramid Building, ricordando un uomo steso sulla moquette che gemeva nell’agonia.

Poi tornò a guardare avanti. Cominciavano già ad apparire i profili di Berkeley e Oakland. Infilò la mano nella tasca della giacca, la lasciò riposare sul calcio della pistola. — E adesso, cosa faccio? — si chiese. — Gli dico che li ammazzerò tutti? Ma chi potevo portare con me? La polizia di Oakland, forse… No, avrei dovuto spiegare… Comunque, se è l’unico modo per liberarla…

Il motore della macchina tossì, come per dire: Smettila, di parlare da solo, Cole, lo trovo imbarazzante.

— Non ho nessun altro con cui parlare — disse Cole.

Parlare da soli è una brutta abitudine, rispose il motore a ronzii e rombi. Quindi parla con me.

— Oh, merda! — disse Cole. La stanchezza lo stava portando all’allucinazione. E poi c’era la preoccupazione per Catz, il cercare di accettare ciò che aveva visto. Gli uomini uccisi. Affrontare tutte quelle cose lo aveva portato quasi al limite estremo, un limite a cui non giungeva da parecchi anni, cioè da quando aveva smesso di prendere dosi eccessive di droga.

“Merda, non voglio impazzire” pensò. Poi, però, gli venne in mente che forse non si trattava solo di sue fantasie. Durante il giorno Città non poteva fermarlo, ma era in grado di mettersi in contatto con lui. E una macchina, dopo tutto, è solo una parte mobile di una città, come una cellula sanguigna nel corpo di un uomo. E attraverso la macchina… Parla con me.

— No — disse Cole, poi si mise a ridere.

Rilassati. Ripensa a quello che stai facendo, disse il sospiro del vento sull’auto, disse il movimento dei pistoni.

“È un’allucinazione o è Città?” si chiese Cole. “O sono tutt’e due le cose?”

La macchina lo aveva ingoiato. Lo stava portando via contro la sua volontà. Lo teneva chiuso nel suo ventre d’acciaio e lo portava verso chissà quale garage sotterraneo, dove avrebbe trascorso un’eternità di cemento. Dopo tutto, il volante girava da solo. L’auto possedeva una volontà propria. Lui si sentì in trappola, fuso col sedile di vinile, oppresso dai finestrini incombenti…

Con un grugnito di rabbia, Cole si rizzò a sedere, si scosse. Abbassò il finestrino, lasciò che l’aria fredda lo colpisse in viso. Un brivido, e il senso di disorientamento svanì. Chiuse il finestrino, lasciando aperto uno spiraglio per far circolare l’aria, e accese la radio per distrarsi. Dalla radio uscì una sovrapposizione infernale di voci, finché non riuscì a sintonizzarla su un notiziario: — …a questo punto, diviene non solo logico ma inevitabile che il servizio postale adotti al cento per cento, con l’eccezione dei pacchi, naturalmente, la trasmissione elettronica di messaggi stampati. L’attuale sessanta per cento non è efficiente. Uniformità significa risultati migliori, per cui diventa necessario richiedere l’installazione obbligatoria di terminali dati multipli in ogni casa che presuma di ricevere posta. I vantaggi sono di gran lunga superiori agli svantaggi. Ovviamente, battere la lettera su una tastiera in casa vostra, lettera che viene trasmessa all’istante, o mentre la scrivete o quando l’avete finita, a seconda…

Cole cambiò stazione. — Fine della posta tradizionale, eh? — mormorò, passando di canale in canale. — Ma a me piace aprire le lettere.

Passando nella banda d’onda della modulazione di frequenza, captò la frase: — … Vigilantes che dovrebbero essere… — Dopo qualche difficoltà, riuscì a sintonizzarsi su quella stazione. — Ma se questi uomini e donne non sono al servizio della comunità, e già ci hanno dimostrato di essere molto peggiori dei Robin Hood che pretenderebbero di essere, allora cosa sono? La loro comparsa di ieri sera a un concerto rock, e la carneficina che è seguita, mi sembrano molto sospette. Come giornalista, semplicemente non posso accettare la scusa, incisa su un nastro anonimo pervenuto alla nostra stazione, che il concerto rappresentasse un “un punto focale di corruzione e degradazione”, dopo di che vengono citati i Disordini Punk e Rock dell’81. Storielle piuttosto esili! Venendo a conclusioni più solide, abbiamo saputo che il gruppo dei Prima Lingua ha rifiutato di aderire al sindacato musicisti rock che, come sanno anche i bambini, è gestito dal crimine organizzato. Ma allora, i vigilantes sono una diramazione della mafia?

— Senti senti! — disse Cole, annuendo.

L’auto uscì dalla superstrada, e lui spense la radio. Se non si fosse messo al volante, la macchina si sarebbe fermata: era di nuovo in una zona sprovvista di guida elettronica.

Cole tolse la guida automatica, si mise al volante. Imboccò l’uscita con la scritta SAN PEDRO BOULEVARD. Proseguì per un chilometro e mezzo, continuando a mordersi un labbro nonostante il dolore che sentiva. Avvicinandosi all’isolato dove avrebbe dovuto svoltare per raggiungere il covo dei vigilantes, le ferite che gli avevano inflitto cominciarono a dolergli, a pulsare, come un avvertimento. — Reazione psicosomatica — si disse.

Ecco lì la strada. Svoltò. Il respiro suonava affannoso alle sue stesse orecchie. Guidò con la sinistra. La destra era infilata in tasca, copriva di sudore il calcio freddo della pistola.

La popolazione di Oakland era quasi tutta nera. I cartelloni pubblicitari che qua e là si alzavano a fianco di palazzi o case in costruzione ritraevano neri col sorriso del piccolo borghese, neri che fumavano o bevevano birra o danzavano al ritmo della disco. Alcuni dei cartelloni più nuovi, ricoperti da un vetro spesso, ospitavano frenetici ologrammi di giovani neri che ballavano alla musica trasmessa dalla stazione radio pubblicizzata.

Visi neri, meno allegri di quelli ritratti sugli enormi cartelloni, lo fissarono con stolida curiosità da finestre, da gruppi fermi davanti a rivendite di liquori. Cole superò due chiese evangeliche abbandonate, costruite alla bell’e meglio, “La sacra chiesa rock di Gesù Cristo Nostro Signore re della pregiera” (“preghiera” scritto senza h) e “La chiesa hard core di Gesù sotto i sacri auspici di Dio”. Sorrise. Il sorriso si mutò in una smorfia quando vide il motel dove aveva parlato a Città. — Città… — sussurrò. — Dormi… oppure aiutami.

E apparve la casa. Due bambini neri coi capelli ricci, fermi sul marciapiede opposto, guardavano la facciata carbonizzata dell’edificio, le orbite vuote delle finestre. Cole superò la casa. Il suo cuore correva più in fretta dei pistoni della Chevy. Si fermò mezzo isolato più in giù, davanti a un’altra rivendita di liquori. “Catz è lì” pensò febbrilmente. “Le sono vicino.”

Restò seduto in macchina, scosso dai brividi.

“Spicciati” pensò. “Fa’ presto.”

Scese dalla macchina, la destra sulla pistola che aveva in tasca, sbatté la portiera con la sinistra e si avviò verso la casa.

Cosa poteva fare? Ma proseguì, tenendosi all’ombra di un motel dal tetto sporgente. Forse poteva raccontare alla polizia che lì era in corso un’operazione anti-droga, e sarebbero intervenuti… No, prima che si muovessero avrebbero chiesto conferma, e sarebbero trascorsi giorni.

Non gli restava altro da fare che tentare di introdursi nella casa da un’entrata laterale o dal retro, prendere qualcuno alla sprovvista, puntargli la pistola alla testa, chiedere in cambio la vita di Catz. In tivù, cose del genere funzionavano.

Un suicidio. Ma non si fermò.

Quando era ancora a dieci metri dalla casa, si fermò. Aveva visto qualcosa di anomalo in un passaggio pedonale, stretto e pieno di frammenti di vetro, fra due palazzi molto alti. Restò a guardare. Stava osservando se stesso, e l’altro Cole gli sorrise.

La figura indossava abiti diversi, ma era senz’altro lui… a parte la strana espressione. Gli venne in mente il termine doppelgänger. Cole guardò su e giù, sui due lati della strada. Non c’era nessuno. Entrò nel passaggio pedonale. Fissò lo sguardo sull’immagine, quasi si aspettasse di vederla svanire come un miraggio. Continuò a camminare, calpestando sterco di cane e cartoni inzuppati d’acqua. Giunse a un paio di metri dall’apparizione. L’immagine non svanì. Gli sorrideva, divertita. Ma, così da vicino, riusciva a vederle attraverso. Era trasparente, come un ologramma da due soldi.

— Credevo che questa storia fosse finita quando ho aperto il finestrino dell’automobile — disse Cole. Però non aveva la sensazione di vivere un’allucinazione. Quella cosa era lì di fronte a lui, un po’ vaga ma indiscutibile, parte del paesaggio quanto lo è il fumo dei camini.

Lo spettro (perché pensava che fosse uno spettro) rise. Cole ebbe l’impressione che lo spettro ridesse a pieni polmoni, ma la voce (indiscutibilmente la sua voce) gli giunse in un sussurro roco. — Cole, vecchio mio, dovresti vedere la tua faccia. Be’, naturalmente la vedrai, quando le nostre prospettive si capovolgeranno.

La cosa rise follemente. Cole tese una mano, la lasciò scorrere sulla vernice scrostata della parete di legno che aveva a fianco, per entrare in contatto con qualcosa di tangibile. “Se è un’allucinazione” pensò “dovrebbe apparirmi ovunque io guardi.” Così si girò a fissare la parete dipinta di grigio, cercò il miraggio di se stesso negli strati di polvere dello zoccolo. L’immagine non apparve lì. Quando voltò di nuovo la testa, la figura era al suo solito posto. Si vedeva soltanto lì. Cole si sentì traversare da un brivido freddo di déjà-vu, che spazzò via la sua incredulità. D’improvviso, quella scena gli parve giusta, esatta. Inevitabile.

— È strano — disse il Cole trasparente, una mano sul risvolto della giacca — ma ricordo benissimo quello che stai pensando adesso. Ricordo che ho guardato la parete per vedere se si trattava di un’allucinazione, e il déjà-vu, e praticamente, nel ricordo, è come se questa esperienza la stessi vivendo io, però… però la vivo un po’ di sbieco, come in un sogno. Mi segui?

Cole annuì debolmente. Seguiva.

— Anzi — continuò il suo doppelgänger — ricordo quello che ti sto dicendo adesso… Lo sento come una specie di pre-eco prima di dirlo. Il che è strano, dato che ti sto parlando dei fenomeni… Insomma… — Ridacchiò, spalancò gli occhi. In quello sguardo c’era una traccia di follia. — Insomma… Lo sapevo che avrei detto quello che sto dicendo, visto che l’avevo già vissuto nei tuoi panni… quando me ne stavo lì a guardare me, dal punto di vista dell’io che tu sei in questo momento, e volevo… Be’, quando sono venuto qui per parlarti, per metterti in guardia, avevo intenzione di cercare deliberatamente di dire qualcosa di diverso da quello che sto dicendo, e invece sono qui a dire “cercare deliberatamente di dire qualcosa di diverso da quello che sto dicendo”, ed è questa la frase che volevo modificare, perché sapevo, dato che l’avevo già ascoltata quando ero te, che l’avrei detta… Insomma, è una specie di circuito strano e pazzesco, no? Deliziosamente pazzesco. Però tu non sei pazzo, Cole; io sono vero. Sono persino, uh, solido… ma non nel tuo mondo. Io esisto solo in parte nel tuo mondo. Sono fisicamente solido qui, nella dimensione dell’essere urbano assoluto, ma dal tuo…

— Hai detto che devi mettermi in guardia?

— Oh, eh… Ricordo che me l’hai chiesto… Insomma, ricordo quando tu… quando io… quando ero te, e mi sono spazientito e ho chiesto a me stesso di…

— Lascia perdere! — esclamò Cole.

— È esattamente questo che hai detto! — sorrise l’apparizione. — “Lascia perdere!” hai detto! Sì, subito dopo che io ho detto “mi sono spazientito e ho chiesto a me stesso di…”

— Senti — disse Cole, disperato, sommerso da ondate continue di déjà-vu — dimmi da cosa devi mettermi in guardia…

Ma in qualche modo, quando lo spettro annuì e gli trasmise il messaggio che era venuto a trasmettere, lui riuscì a prevedere ognuna delle sue parole, a sistemarla in una casella.

— Cole, non entrare in quella casa. Sono qui per dirti questo. Tu ti trovi a un incrocio del tempo e io dovevo venire a consigliarti la direzione giusta da prendere. Il che sembra una cosa idiota, dato che io ho già superato questo momento quando ero te, e so quale direzione sceglierai… D’altra parte, è vero che ho scelto quella diramazione, quella particolare possibilità, perché io sono venuto a metterti in guardia. Io. Tu? Deliziosamente folle, il paradosso. Credo che “paradosso” sia il termine…

— Ma perché non dovrei entrare nella casa dei vigi? — chiese Cole, fissando con orrore crescente l’espressione contorta, infantile, sul suo viso. Il suo viso da morto?

— Perché… ah, heh!… Mmm. Okay, pensaci (ricordo di avertelo già detto). Stamattina eri stanco; se no ti saresti chiesto come mai quel vigilante non ha esitato un secondo a farti sapere dove dovrebbe trovarsi Catz. Ovviamente voleva solo che tu venissi qui. Questa casa ha ricevuto troppa pubblicità, anche se si è trattato solo di vigili del fuoco. Quelli non corrono rischi del genere, stupido. Hanno spostato il loro quartier generale; anzi, lo hanno diviso in tre posti diversi. Lì dentro ci sono tre uomini armati che ti aspettano. Per ucciderti.

Cole non restò sorpreso. “Idiota” pensò. “Hai accettato la loro carta di credito senza controllare il conto corrente.”

— Ma allora dov’è Catz? E cosa ne sarà di noi? E com’è che ho assunto il tuo aspetto? E poi…

— Guarda, ti dico dov’è Catz — lo interruppe lo spettro, con un sorriso idiota. — Però non posso dirti tutto il resto perché non te l’ho detto quando tu eri me. Ricordo di non averlo detto, quindi non posso proprio. Non è deliziosamente…

— Dove madonna è?

— A Berkeley, al tremilaquattrocentoventidue della Quarta, dalle parti dell’università. Ci sono quattro vigi che stanno giocando a carte. Catz è chiusa in un armadio. Non si aspettano di vederti arrivare, ma sono armati. Ti direi di cercare aiuto, ma non lo cercherai, perché sei frenetico, se non ricordo male… Oh, ma non posso dirtelo perché…

Cole girò le spalle a se stesso e corse via lungo il passaggio pedonale, mentre lo spettro gli gridava: — Lo sapevo che saresti scappato quando ho detto “Non posso dirtelo perché…”. Cole!

Tornò in macchina.


Guidò alla velocità massima consentita per la sopravvivenza. Gli si mise alle calcagna una macchina della stradale, ma la seminò all’uscita per Berkeley. Guidava furiosamente, teneva il clacson premuto per far scansare i pedoni. Infilò tutte le scorciatoie della zona verde, residenziale, di Berkeley.

Si lanciò in un sentiero col fondo a ghiaia, scansò miracolosamente un bambino in bicicletta che cadde e andò a sbattere contro un cancello. Fra lo stridio delle ruote, si avventurò nella zona universitaria. Passò col semaforo rosso alla Terza, svoltò nella Quarta senza mettere la freccia, lacerò il silenzio della strada a settanta chilometri l’ora, scrutando febbrilmente i numeri civici. Si affidava alla velocità per lasciare indietro il terrore. Il terrore delle implicazioni di ciò che era accaduto, il terrore della sua furia.

Presto.

Ed ecco la casa: facciata bianca con decorazioni rosse, stile pseudospagnolo, un giardino moribondo delimitato da eucalipti. Una Buick azzurra sul retro. Accostò a destra ma non si prese il disturbo di parcheggiare la macchina, la lasciò quasi in mezzo alla strada. Impaurito all’idea di fermarsi a pensare, schizzò fuori dall’automobile, si lanciò verso la casa. Il sole era alto sopra la baia, a sud, e un raggio di fotoni gli sfiorò il punto in cui il suo cranio era nudo. Odore di foglie di eucalipto, di hamburger che cuocevano.

“Spicciati.”

Corse sul retro della casa, sperò che nessuno stesse guardando da una finestra. Un cortile squallido, un garage di legno in rovina, una vecchia Volkswagen arrugginita. “Non importa, sbrigati. Sbrigati.”

Corse su per la scala sul retro. Gli scalini di cemento non facevano rumore, ma ci fu un suono enorme come un colpo di pistola quando lui spalancò con un calcio la porta. Estraendo la pistola di tasca (“a quest’ora dovevi già averla in mano, stupido”) si guardò attorno. Qualcuno stava alzando la testa dalla stufa (e sembrava che si muovesse con una lentezza assurda, innaturale, come il replay di un goal in televisione; era come se Cole fosse entrato nella dimensione totale della frenesia, tanto da agire su coordinate di pensiero e di tempo più veloci di quelle degli altri), e Cole gli balzò addosso, gli puntò la pistola in viso, premette il grilletto. Immediatamente dopo il colpo (e Cole intuì vagamente che l’uomo precipitava a terra, gli occhi incrociati a fissare il foro che si era scavato sulla sua fronte) entrò a passo di carica nella stanza attigua, sparò ai tre uomini che si erano alzati stupefatti, lenti, formando parole che non ebbero il tempo di uscire dalle loro labbra prima che lui li abbattesse. Era talmente vicino che gli sarebbe stato difficile sbagliare il bersaglio. Eppure, l’uomo alla sua sinistra restò semplicemente colpito alla spalla, cadde a terra, rotolò su se stesso, si nascose dietro uno scaffale da libreria piuttosto profondo. Infilò la destra nella giacca, in cerca della pistola. E la velocità innaturale abbandonò Cole. Gli parve di rallentare, mentre i vigilantes acceleravano: due si agitavano nell’agonia, secondo i tempi normali, e il terzo puntava la pistola. Cole si gettò sulla sinistra, ma adesso gli era difficile muoversi. Si sentiva come avviluppato da una membrana gelatinosa. Piombò sul pavimento mentre il proiettile del vigi fracassava la finestra alle sue spalle. Era atterrato sul braccio ferito, e il dolore gli rendeva difficile usare la pistola. La destra era inutilizzabile. Qualcuno stava correndo verso la casa. La porta si spalancò. Entrarono due uomini: un nero e un bianco con i capelli scuri e gli occhiali da sole. Le loro pistole erano puntate.

La porta dell’armadio si aprì. Ne uscì Catz, strizzando gli occhi. Immediatamente, la ragazza si gettò sulla pistola lasciata cadere da uno dei due uomini sotto il tavolo da gioco. La stanza era invasa dal fumo delle pistole. Il vigi dietro la libreria sparò di nuovo, ma mancò Cole: la ferita alla spalla gli rovinava la mira. Cole tentò di riprendere controllo del braccio, perse l’arma in un attacco di confusione e stanchezza. Catz se ne stava in ginocchio… Mirava a lui? No, sparava alle sue spalle, ai due uomini che stavano entrando nella stanza. E uno dei due sparò un colpo che s’infilò per sbaglio nella libreria e uccise il vigilante ferito.

Esplosioni laceranti scossero la stanza. I due vigi appena entrati precipitarono a terra. Uno, colpito alla gamba, lasciò cadere la pistola, bestemmiò, si rizzò in piedi sulla gamba buona, si girò, corse fuori.

Cole guardò Catz. Un’apparizione spettrale: pallida, il viso sporco di sangue, l’occhio destro nero, i capelli arruffati, le mani tremanti che continuavano a stringere la pistola. Era in ginocchio. Il suo viso registrò stupore e orrore e trionfo, tre emozioni in tre secondi. Poi la ragazza lasciò cadere l’arma. Cole si piegò in due, distrutto, annientato dall’allentarsi improvviso della tensione.

Catz lo aiutò a rimettersi in piedi, e assieme uscirono dalla porta posteriore, scesero barcollando le scale, respirarono un’aria più fresca. Corsero all’auto. Le sirene della polizia erano sempre più vicine; dalle porte delle case, la gente li guardava, ammiccava alla luce del sole.

Cole si abbandonò dietro il volante, si lasciò spingere via da Catz. Si affidò alla sua calma. Lei si mise alla guida e lui si appoggiò alla portiera, mezzo addormentato, pensando: “Speriamo di arrivare dall’altra parte del ponte e di scaricare la macchina prima che tutti quelli che ci hanno visto diano il numero di targa alla polizia”.

Apparentemente, nessuno decise di descrivere la loro auto alla polizia. Raggiunsero senza la minima difficoltà l’appartamento del bassista di Catz, a San Francisco. Il bassista era fuori città per qualche giorno.

Lì, si addormentarono l’uno nelle braccia dell’altra.


— Erano ore che mi davo da fare per liberarmi. Sciogliere le corde non è stato difficile. Ma non riuscivo a decidere quale fosse il momento migliore per saltare fuori — disse Catz. — Aspettavo che si addormentassero.

— Me l’ero immaginato — disse Cole. L’argomento lo metteva a disagio.

Se ne stavano seduti in un caffè all’angolo della via. Il sole tremolava sopra l’ultimo piano di un grattacielo; la città era sospesa fra giorno e tramonto. Avevano dormito quasi tutto il giorno su un materasso pieno di protuberanze nell’appartamento di Castro Street; si erano svegliati quasi simultaneamente due ore prima, scoprendo di essere ancora abbracciati. Prima, fra loro non era mai esistita una vicinanza fisica. E mentre Catz, con stupore di Cole, sembrava voler restare in quella posizione, lo stringeva stretto stretto, Cole si sentiva imbarazzato. E gli si era addormentato il braccio. Ma adesso, ripensandoci, ribolliva di felicità.

Si erano lavati, medicati le ferite come potevano, avevano fatto colazione con pane e burro, ed erano venuti lì.

Adesso, sotto la luce azzurrastra che filtrava dal vetro polveroso accanto al tavolo pieno di tazze, il profilo di Catz era irregolare ma sublime. Sedeva col gomito sul tavolo, il mento un po’ spigoloso sul palmo della mano, il naso leggermente adunco perfettamente stagliato contro le ombre alla sua sinistra, gli occhi incavati intenti a scrutare paesaggi interiori. Le contusioni la rendevano ancor più carina, decise Cole: il trucco istrionico di un’artista dell’angoscia rock. Indossava una giacchetta dai risvolti enormi, e i suoi piccoli seni sodi erano nudi.

Gli occhi di Cole indugiavano sulle ferite sul seno di Catz.

Lei aveva un’espressione di sdegno regale, e le unghie dipinte di nero e il rossetto nero conferivano alla sua posa una certa autorità.

Se ne stavano lì immobili da troppo tempo. Cole intuiva fra loro un disagio crescente. Tanto per fare qualcosa, sorseggiò il cappuccino e cercò di sembrare sicuro e disinvolto, come Catz. Non voleva parlare di ciò che era successo quel mattino. Però non gli veniva in mente nient’altro, e doveva dire qualcosa. Qualsiasi cosa per smorzare il senso di oppressione, di attesa, che si gonfiava tra loro.

“Succederà qualcosa” pensò Cole.

— Uhh… Ehi, sai, non riesco… — cominciò, incespicando sulle parole — non riesco a… a ricordare le facce degli uomini che abbiamo visto… quelli di stamattina… e invece dovrei ricordarmele… insomma, sono i primi che vediamo senza quelle stupide calze. Però… È buffo, è come se avessi continuato ad accumulare velocità per tutto il mattino, ad accelerare mentre cercavo di trovarti, e… è successo tutto così in fretta. Non li ricordo. Sarebbe stato lo stesso se avessero indossato le calze, perché per me i loro visi erano soltanto macchie rosa… Il che, non so come dire, è una cosa schifosa. Perché, insomma, se stai per… — abbassò la voce — uccidere qualcuno, dovresti almeno vederlo in faccia. Moralmente, io…

— Io la vedo in maniera opposta — disse lei, allontanando i suoi dubbi con un lieve cenno del capo. Continuò a parlare senza distogliere gli occhi dalla strada. — Sono rimasti col viso coperto finché non mi hanno portata lì e lasciata in quell’armadio tutta notte. Per cui non li ho mai visti, e non li ho guardati troppo bene quando abbiamo… Stamattina. Però non voglio sapere che faccia avessero. Non voglio ricordarlo.

— Io non voglio toccare mai più una pistola — disse Cole.

Catz scrollò le spalle. — Dimmi come hai fatto a trovarmi.

— Te l’ho raccontato a colazione.

— Ero ancora sconvolta. Non credo di aver capito bene.

— Okay… — E così, guardando la gente che dava spettacolo fuori, percorrendo con gli occhi il viale sempre più affollato, Cole le raccontò degli uomini che si erano presentati al suo appartamento, del suo colloquio con il doppelgänger.

Quando ebbe terminato, lei annuì, seria.

Cole rise. — Non vuoi dire: “Sei pazzo! Quello spettro era un’allucinazione!”?

Catz lo fissò, un po’ sorpresa. — No. E perché dovrei dirlo? Mi hai trovata, no? Se non fosse vero, come avresti fatto? Dev’essere vero. Comunque, io sono abituata a cose del genere. Per me… — è agitò la mano in direzione della finestra — …questo mondo è trasparente. A volte riesco a vedere oltre le cose… Oggi non riesco a ricevere molto, ma ieri notte sentivo che saresti venuto a liberarmi. Non sapevo quando, ma ero sicura che prima o poi saresti arrivato.

In quel momento, Cole si chiese se lei non stesse intercettando i suoi pensieri. Arrossì, cercò di leggere l’espressione della ragazza. Aveva visualizzato l’immagine di loro due che facevano l’amore. Catz guardò fuori dalla finestra, battendo con una mano sull’orlo della tazzina da caffè. No, aveva detto che non riusciva a ricevere molto, decise Cole, sollevato. Il suo dono era incostante.

Un fracasso dietro il banco, alle spalle di Cole… Un cameriere disse: — Porcogiuda! — e si chinò a raccogliere i vetri rotti. Il locale cominciava a essere affollato; i clienti della sera erano apparsi come per magia. Macchinette a vapore, complesse riproduzioni in cromo e legno lucido di apparecchiature più arcaiche, sputavano una schiuma bianca nei caffè; una donna coi capelli corti, striati d’arancione e d’azzurro, accettava le carte di credito dell’Interfondo che poi, con efficienza automatica, inseriva nei terminali. — Grazie — diceva, scrutando lo schermo elettronico. — Grazie — senza nessuna vivacità. — Grazie — restituendo una carta di credito. — Grazie — inserendo una carta nel terminale, premendo pulsanti, guardando lo schermo, restituendola. — Grazie… Grazie… Grazie…

I tavoli della minuscola stanza erano affollati di angosciari che uscivano da un locale nuovo, il club Sordità (poco più in su lungo la strada cosparsa di neon), e di voguer che portavano al guinzaglio animali dagli occhi dolci, animali in via d’estinzione, col pelo ornato da riproduzioni placcate in oro di carte di credito.

Fuori, si mischiavano angosciali, voguer, qualche cinese dal viso cupo, turisti. Ecologisti con basco, trecce, jeans con toppe di cuoio e simboli solari cosparsi di diamanti artificiali vendevano erba e opuscoli inneggianti al ritorno alla natura. — Perché vivono in città se vogliono tornare alla natura? — mormorò Cole.

Passò, ridendo, un gruppo di angosciali in uniformi da carcerati. Uno restava indietro rispetto agli altri, rallentato dalla palla in miniatura legata da una catena alla sua caviglia destra.

Cole guardò Catz. Tra loro, la tensione riprendeva a crescere. La ragazza s’infilò un paio di occhiali scuri e, all’improvviso, si alzò, stiracchiandosi. Cole si mise la vecchia giacca nera da motociclista e, assieme, uscirono nella sera.

Il cielo andava imporporandosi, le poche nuvole sfilacciate avevano contorni viola. Contro l’orizzonte, la Coit Tower era un gigantesco simbolo fallico. Tenendosi vicini, cominciarono a fendere la folla in continuo movimento. Un gruppetto di turisti giapponesi fotografò Catz, e lei cacciò fuori la lingua quando l’obiettivo scattò. I giapponesi sorrisero, deliziati. Neon e luci puntiformi lasciavano scie allucinogene nella visione periferica di Cole, insegne giganti formavano strati di luminosità accecante. Cole cominciò a rilassarsi, a sentirsi al proprio posto. Le insegne della lunghissima fila di club nudo-dal vivo-sesso-bestialità-masochismo-dal vero sembravano parlargli in un codice subverbale che gli era familiare; le insegne erano disposte secondo una sorta di contrapposizione estetica con la rete di fili dei tram che s’incrociavano sopra le loro teste. Dai pantografi dei tram elettrici scoccavano scintille, ogni volta che un tram superava l’intreccio di fili di un incrocio.

Stormi di gabbiani sbattevano nervosamente le ali, alti sulla città, volando in cerchio al di sopra degli edifici in gruppi compatti, come elementi di un mobile di Calder.

I frequentatori abituali della strada (angosciari, voguer, ecologisti, prostitute) sfilavano su e giù lungo i marciapiedi affollati, mettendosi in mostra nei loro piumaggi sfarzosi, e in lontananza, come in un caleidoscopio, si fondevano gli uni negli altri. A Cole vennero in mente i demoni giapponesi.

Proprio in quel momento, un cartellone a scritte elettroniche cominciò a trasmettere: VENITE A… TROVARCI ALLA… TORRE DI GIADA… UNA CENA INDIMENTICABILE… PER CHI INDOSSA… L’ELEGANZA DELLA GIADA…

La tensione fra loro due era scesa, e Cole cominciava a sentirsi quasi allegro (anche se doveva bloccare dalla mente le immagini di visi confusi che esplodevano in fontane di sangue, dell’uomo con gli occhi incrociati sul foro di proiettile che gli trapassava la fronte).

Ma quando Catz gli prese la mano, rabbrividì. E quando capì che lei lo stava guidando al suo appartamento, le mani di Cole si riempirono di sudore.

Giunti in fonfo alla collina (dopo aver traversato Chinatown, la sua cacofonia di odori, le finestre da cui s’intravedevano oggetti d’avorio e giada, e dopo aver incrociato diecimila paia di occhi a mandorla), Catz si fermò di colpo, scostandolo leggermente col braccio. Cole si girò a guardarla con aria interrogativa, cercando di mascherare l’apprensione. Ma fu lei a chiedere: — Cosa c’è, Stu?

— Niente — rispose lui, cupo, e pensò: “Oh, Cristo, sta cominciando a leggermi nel pensiero”.

— No, sul serio.

Cole scrollò le spalle con foga esagerata. — Uh… non so, Catz. Probabilmente sono preoccupato per Città… Ho paura che ci chiami… È quasi notte. E tu… Senti, te l’ho detto che non ha voluto aiutarmi a liberarti da quei mostri.

— Non me ne importa. Me l’aspettavo. Anzi, credo che mi abbia messo i bastoni fra le ruote quando stavo correndo fuori da quella casa con te, e che abbia fatto in modo che i vigi mi prendessero. Ha ragione: non mi fido di lui. È l’inconscio di centinaia di migliaia di persone estremamente fallibili, Stu. Tu credi che la gente di questa città sia del tutto sana di mente? Ma nemmeno per idea. Sotto ognuno di quei crani placidi si nasconde un nido di vipere. Quand’ero ragazzina, andavo in overdose di acido… e stavo benissimo, solo che a un certo punto perdevo il controllo cosciente di me e non capivo più dov’ero e finivo con l’essere dominata dall’inconscio. E siccome il mio inconscio era pieno di ostilità, combinavo un macello continuo…

Lui la fissò. Dovette alzare la voce, per superare lo stridio di un tram che si stava arrampicando lungo la salita ripida. — Allora perché gli hai obbedito? Perché ci hai aiutati?

— Lo sai perché. Città te l’ha spiegato — rispose lei, seria seria — anche se di questo non mi hai parlato.

Cole fu lieto che, nell’addensarsi di tenebre, lei non riuscisse a vedere il rossore che gli nasceva in viso.

— Merda, mi comporto come un adolescente spaventato — mormorò.

Lei rise un attimo. — Sei così buffo quando parli da solo.

Nel tono di Catz non c’era ironia, ma lui si sentì ferito. Imbizzarrito, allontanò gli occhi.

— Penso che dovresti lasciare San Francisco — disse. — Potrebbe ucciderti.

— Forse me ne andrò — disse lei. — Devo ammetterlo… sono spaventata anch’io. Di solito faccio finta di non esserlo, ma con te non voglio fingere. — La sua voce era stranamente tenera. — Io… Ieri notte, in quell’armadio, credevo di impazzire. Non mi hanno violentata, ma avevo paura che lo facessero. Non voglio trovarmi di nuovo nella stessa situazione. È stupido. Voglio andarmene via con la mia banda. Ma tu non puoi restare qui. Lui ti possiede… troppo. Tra un po’ non riuscirai più ad agire di testa tua, Stu. Devi andartene anche tu.

Cole scrollò le spalle, impotente. — Non credo di poter stare lontano da qui. Non per molto… Non so.

Il semaforo passò al verde. La scritta all’incrocio disse AVANTI, e così s’incamminarono. Traversarono la strada. Sul lato opposto c’era un negozio di articoli da regalo. Dietro la vetrina polverosa, una zingara in legno che leggeva la fortuna. La statuetta, rotta, si trovava in quella vetrina da almeno vent’anni. Quando passarono davanti al vetro, Catz s’irrigidì all’improvviso, stringendo spasmodicamente la mano di Cole. Poi si fermò, restò a fissare la bambolina di legno, quel viso di vecchia rugosa corroso dal tempo che sorrideva malignamente verso di loro. — La testa — mormorò convulsamente Catz. — Prima… prima non era girata da questa parte. Ma quando le sono passata davanti, si è voltata a guardarmi. L’ho visto con la coda dell’occhio…

Il minuscolo volto da zingara li scrutava maliziosamente. Cole ricordò che sì, la testa della statuetta era girata dall’altra parte, pochi secondi prima.

— Forse il meccanismo interno ha ricominciato a funzionare. Le vibrazioni delle macchine o qualcosa del genere — azzardò, senza nessuna convinzione.

Accelerando il passo, quasi trascinandosi dietro Cole, lei si voltò e disse: — Balle! È Città. Lo sento. Mi sta tenendo d’occhio. Quello era solo un avvertimento. Un segno. Si sta risvegliando. Mi segue. — Le si spezzò la voce. — Oh, all’inferno!

Corsero via, sulla strada sempre più buia. Cole si fermò vicino a un ingresso della metropolitana rapida Zona Baia. Impaziente, Catz si tolse gli occhiali, gli lanciò un’occhiata interrogativa.

— Sta arrivando un treno diretto a sud — disse Cole, fissando di sottecchi il terreno.

Catz parve divertita. — E come fai a saperlo? Non hai mica consultato gli orari.

Cole provò un brivido. Come faceva a saperlo? Guardò l’angolo della strada. — Sta arrivando un autobus per Mission Street.

Catz seguì il suo sguardo. Due secondi dopo, da dietro l’angolo spuntò un autobus elettrico. Il cartello della destinazione diceva MISSIONI.

Catz lo guardò. Cole si sentiva strano. Freddo tutt’attorno al corpo. E non si sentiva più i piedi. Non poteva avere freddo sul serio, la serata era tiepida, però aveva i piedi intorpiditi. Come se si stessero fondendo nell’asfalto. Cole si mise a batterli finché un minimo di sensibilità non gli tornò nelle piante dei piedi. Poi, alzò gli occhi. — Adesso — disse — da dietro l’angolo sta arrivando un camion. E dietro c’è un nero su una Harley. — E un mastodontico camion giallo rombò accanto a loro, seguito a ruota da un nero su una motocicletta argentea.

Catz continuò a fissare Cole, orripilata.

Fu in quel momento che il telefono nella cabina accanto a loro squillò.

La porta della cabina, che era di quelle di vecchio tipo, si aprì. Il telefono cadde dalla forcella e si mise a oscillare, come in un gesto di richiamo. Meccanicamente, Cole s’avviò verso la cabina, per afferrare il ricevitore.

Catz balzò avanti, si frappose tra lui e la cabina, lo bloccò mettendogli le mani sul petto. — Non rispondergli. Lo sai che è lui. Non… non adesso. È lui, si sta risvegliando… e vuole farti diventare una parte di sé. Perché diavolo pensi di aver previsto quali veicoli sarebbero spuntati da dietro l’angolo? E la metropolitana?

Cole era intontito. Si mise a parlare da solo. — Tutti i macchinari di questo mondo sono collegati fra loro — mormorò, guardandosi attorno, comprendendo. — Da linee elettriche, cavi telefonici, da una gigantesca rete elettronica. Le tubature… — Chiuse gli occhi. E la vide, nell’oscurità infinita dietro gli occhi chiusi: una sovrapposizione luminosa, blu-bianca sullo sfondo del buio screziato: la grande infinita cianografia dei canali elettrico-neurali della città, gli edifici collegati fra loro e i punti focali, il nucleo della centrale per la produzione d’energia, il…

Riaprì gli occhi, stupefatto. Una sensazione strana sul viso. Capì che Catz lo aveva schiaffeggiato. Si lasciò guidare da lei all’ingresso della metropolitana. — Vieni — disse Catz. — Vieni. — Lei lo trascinava per la mano: lui la seguì passivamente, estraneo a se stesso, immerso in un sogno. Scesero fra luci vivissime e piastrelle bianche, immacolate. Con una carta di credito dell’Interfondo, Catz acquistò due biglietti dal computer alla parete e li mostrò, dalla parte delle strisce magnetiche, all’occhio elettronico del cancelletto. L’occhio li lasciò passare.

Ancora lontano dalla realtà, sognante, Cole si lasciò portare sul treno d’acciaio lucido. Le porte si chiusero automaticamente alle loro spalle. S’incamminarono sulla moquette pulitissima, sedettero sotto un grande finestrino. Gli altri passeggeri chiacchieravano tranquillamente o leggevano giornali. Trascorsa l’ora del rientro dagli uffici, c’erano appena una dozzina di persone sul treno diretto a sud.

Cole prese nota di quelle cose con attenzione ma con distacco, come se tutto ciò che aveva attorno, compresi i passeggeri e il treno stesso, fossero solo elementi minuscoli ma funzionali della grande macchina urbana.

Il continuum urbano della metropolitana si mise in azione. Il treno partì e, con una remota sensazione di piacere per il funzionamento perfetto della macchina che lo avviluppava, Cole si mise a contare le luci che esplodevano come lampi nel tunnel. E ascoltò il clic ritmico delle ruote, il sospiro della pressione dell’aria alle svolte…

Un poco più tardi, Cole si risvegliò improvvisamente dal sogno di cianografie interminabili e mappe complesse. Si guardò attorno, nervoso. Si sentiva solo e sperso, disorientato, e capì di essere ormai oltre la portata di Città.

Fu un sollievo scoprire accanto a sé Catz. La ragazza teneva le gambe sollevate, i talloni degli stivali sul sedile davanti, e fumava una sigaretta fatta a mano.

— Sul metrò non si dovrebbe fumare — disse Cole, con un sorriso.

Lei gli restituì un sorriso smorto. — Allora cosa vuoi farmi, porcone?

La mano di Cole scivolò su quella della ragazza. La pelle di Catz era calda e umida, sembrava aderire alla sua.

Lui avvertiva ancora una leggera sensazione di freddo. — Dove… dove stiamo andando?

— Questo è il treno in direzione sud di cui parlavi tu, baby. È quello che passa nel nuovo tunnel sotto le colline di Berkeley, lo sapevi? È una linea che funziona solo da un mese. Arriva fin quasi a San José. È un viaggio lungo, però… Città non può arrivare così lontano, penso.

Cole annuì. — Mi sono sentito scivolare via da Città. Mi sorprende che non abbia fermato il treno. Forse per fermarlo avrebbe dovuto ucciderci. Forse…

Lei scosse la testa. — No. Poteva bloccarci alle fermate regolari. Bastava che impedisse al treno di ripartire. Ma può esserci un altro motivo. Per esempio, fose sa… — Catz lo guardò con la coda dell’occhio — che tu tornerai.

Cole respirò profondamente. — Mi sento strano.

— Una crisi d’astinenza.

— Cosa?

— Niente… Ehi, quando hai avuto quelle precognizioni sul traffico e tutto il resto, c’era di mezzo quel tuo duplicato? Quell’immagine che hai visto a Oakland? È stata l’immagine a darti le informazioni?

Cole scosse la testa, fissando le luci del tunnel. Il mormorio del treno era calmo, regolare. — No, non credo. È stato come se stessi guardando attraverso gli occhi di qualcun altro. Oppure come vedere dietro un angolo col periscopio. Una ripresa televisiva dall’alto. Non è che vedessi avanti nel tempo… Era come se gli edifici fossero diventati quasi… trasparenti.

— Queste balle non me le bevo…

— Non ti sto raccontando bugie…

— No, questo lo so. Ti credo. Voglio dire che la situazione è molto brutta. Si è proprio impadronito di te…

Cole cambiò immediatamente argomento. — Ma cosa credi che fosse quella cosa che ho visto? Quel “duplicato”?

— Non lo so — rispose lei, depressa. La sigaretta si era spenta. La riaccese, scrutò con una smorfia le tracce di rossetto nero sulla cartina bianca. — Forse era, uh, una proiezione di te stesso, delle tue doti latenti. Le tue intuizioni proiettate in una specie di visione.

L’idea non gli pareva esatta. — Uh-uh. Però… Più che altro sembrava uno spettro.

Catz rise nervosamente. — Be’, è impossibile. Tu non sei morto, fratello.

— No — disse Cole. Ma pensò: “Non sono ancora morto. Forse lo sarò presto. Molto presto”.

Aveva ragione.


— Non so — disse Cole, rigidamente seduto sull’orlo del letto che cigolava. — Forse dovrei tornare. Devo andare fino in fondo a questa faccenda. Gli ho obbedito dal primo momento, ed è un po’ come se mi fossi… be’, impegnato. Mi sento solo, lontano dalla città. Gesù, sono anni che non me ne allontano. Non…

— Già, hai paura di startene lontano dal tuo paparino — disse Catz. — Ma c’è anche qualcos’altro.

Si chinò su di lui, intrecciò le dita nei suoi capelli, disse dolcemente: — Tu, fratello, sei nervoso per qualcos’altro.

Cole, involontariamente, si ritrasse da lei. Gli arrivava alle narici l’odore del suo sudore, l’aroma del suo corpo. Ne era intossicato. Ma sentiva la schiena fredda e rigida. — Senti, perché siamo venuti qui? — Allargando le braccia, indicò la stanza del vecchio hotel Santa Cruz. L’aria sapeva vagamente di muffa e salmastro. La tappezzeria ingiallita si staccava dalle pareti, era ammuffita negli angoli. Il letto di ottone, un relitto, cigolava a ogni minimo movimento. — Forse per te è meglio stare lontana da San Francisco. Ma non per me. Io non dovrei essere qui. Ho un club da mandare avanti, Catz.

— Scuse, scuse… — miagolò lei.

— Senti, non…

— Quanto tempo è? — lo interruppe Catz, facendo sforzi terribili perché la domanda non sembrasse troppo importante.

— Quanto tempo è cosa?

— Non fare il timido — ribatté lei, fredda.

Lui esitò. — Un paio d’anni.

Catz chiuse gli occhi. Sorrise. Eccccoci qui. Adesso sono sulla tua lunghezza d’onda.

Cole deglutì per soffocare un’esclamazione di paura. Il suo dono…

— Ah… — disse lei, con quel suo sorriso di denti acuminati. — Ah. Ti sei scoperto impotente… — Cole sobbalzò a quella parola — … l’ultima volta. È stato con una prostituta nera. Hai paura di essere ancora impotente. Hai paura di essere troppo vecchio per me. Hai paura che io possa usarti chissà come perché non riesci a capire perché dovresti piacermi. — Catz riaprì gli occhi. — Te lo dirò io perché mi piaci, Stu. Tu mi hai offerto la mia prima possibilità al tuo club, anni fa, e lo sapevi già che ci sarebbe voluto un sacco di tempo per creare un pubblico per quello che facevo, e per un po’ hai continuato a perderci soldi. Però sei andato avanti lo stesso perché t’importava di me e capivi la mia musica e la mia poesia. Sei l’unico uomo che io conosca che le capisce sul serio. Ma non è soltanto gratitudine. Sono anni che tu mi dai una scossa. — A quell’espressione, rise. — È vero, Stu. Io ti amo. Città aveva ragione. L’unico motivo per cui ti ho seguito in tutta questa storia con lui è che volevo proteggerti.

— Senti, non… insomma, non riesco… sono, uh…

— All’inferno Città. Sì, sei un po’ grassottello, hai la pancia. Sei tanto. Comunque, a me gli uomini piacciono morbidi. Sono più dolci. Senti, vedo benissimo le tue paure, Stu. Piantala di cercare di nasconderle.

Cole si sentiva le guance in fiamme. — Non… Ehi…

— Però adesso ti stai arrabbiando perché ti leggo un pochettino la mente. Proprio non posso impedirmelo, quando mi sento così vicina a te. Però stammi a sentire. Se pensi che questa sia un’invasione della tua privacy, posso lasciar perdere le tue, hum, immagini mentali, le istantanee della tua ansietà e cose del genere. Puoi tenertele solo per te. Guarderò soltanto le tue… sensazioni. Mentalmente, posso sperimentarne almeno una parte. Sensazioni interne ed esterne. È un po’ come un fenomeno di risonanza. Così potremo essere veramente vicini, Stu.

Lui gonfiò le guance. — Ho la sensazione che tu stia cercando di dirmi qualcosa. — Si mise a fissare il tappeto lacero sotto i suoi piedi.

— Forse. Se è l’unico modo per raggiungerti… — Catz si chinò ancora di più su di lui. Le labbra della ragazza bruciavano sul collo di Cole.

E lui schizzò quasi via dal letto.

Catz lo rimise dolcemente giù, scosse la testa, seria. — Rilassati, Stu.

— Non ci riesco. — Cole tremava. La tensione fra loro due aveva raggiunto la punta massima. A lui sembrava di essersi rinchiuso in se stesso, di osservare quella scena attraverso occhi miopi. — Non riesco proprio a farcela, Catz. Uh… Non vorrei deluderti. Chiaro?

Lei roteò gli occhi. — Ancora non capisci — disse. La dolcezza sincera della sua voce lo spinse a guardarla, grato. — Puoi rilassarti, Stu, perché io non mi aspetto niente da te. Non dobbiamo fare poi tanto l’amore. Voglio solo stringerti e toccarti. Non dobbiamo… non dobbiamo fare troppo di niente. Io voglio solo… — gesticolò, impaziente. — Insomma, staremo nudi, okay, ma non è necessario che ci sia una grande elaborazione. Capito? Non ho bisogno che tu entri in me. Se hai voglia di regalarmi un orgasmo, benissimo, è per questo che Dio ha dato a te mani e lingua e a me una clitoride. Ma non importa. Vedi, stupido, io ti amo. Quindi, non importa.

Cole esalò un lungo sospiro, e qualcosa dentro di lui si rilassò. Si sentiva vivo, più cosciente di sé, fuso in comunione con lei. Senza pensare, tese la mano e spense la luce. La stanza si fece più buia, ma una luce fredda continuava a entrare dalla finestra semichiusa alle loro spalle. Quel tanto che bastava per vedere Catz; ed era abbastanza scuro perché lui non avesse una coscienza precisa del proprio corpo.

Lei si era tolta stivali e giacca, stava emergendo dai pantaloni. Tornò un pizzico di tensione quando, le mani tremanti, le dita che scivolavano sui bottoni di plastica, lui si spogliò, sistemando poi i vestiti su una sedia con più cura di quanto non fosse necessario.

Poi si girò, scivolò fra le braccia di lei. Fu facile. Catz era solida ma morbida, la sua pelle liscia ma magnetica. Cole si sentì percorso da un altro livello di rilassamento, da un’altra piacevolissima carica elettrica, e avvertì una sensazione strana al ventre. Abbassò gli occhi, sorpreso. Il suo pene eretto premeva senza esitazioni contro le labbra umide del sesso di lei. Le gambe di Catz abbracciarono le sue natiche, e quando le loro labbra si incontrarono lei diede il via a una pressione ritmica, evocatrice. Il suo monte di Venere palpitava contro il pene di lui. Un brivido corse sulle loro labbra, e Cole si scoprì a esplorare il corpo di lei con le mani, a esplorarlo senza pensieri o coscienza.

— Vedi? — disse lei dolcemente, sussurrando nel suo orecchio, percorrendogli la schiena con le dita. — Dovevi solo rilassarti. Rilassati del tutto, e vedrai che finirai in un altro posto, fratello. Rilassati, rilassati, e vedrai che ti succederanno un sacco di cose piacevoli… Stu…

Naturalmente, aveva ragione Catz.

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