Sulla moquette c’era un uomo. Era morto, perdeva sangue. E, chino su di lui, c’era un altro uomo che stringeva una pistola fumante. Tutti e due indossavano un’uniforme. L’uomo in piedi stava piangendo. — Ehi, non è come sembra, amico! — disse, girandosi verso l’ascensore. — La pistola ha sparato da sola… — Poi vide le loro maschere.
Alzò l’arma e fece fuoco.
Cole e Catz si erano già appiattiti contro un lato dell’ascensore. Cole era paralizzato dall’indecisione: rispondere al fuoco? Chiudere la porta dell’ascensore? Arrendersi?
Ma Catz sparò un colpo, e la guardia si piegò in due, con un proiettile nello stomaco. Restò a contorcersi sulla moquette, ai loro piedi, invocando il nome di chissà chi.
“Cristo, Cristo” pensò Cole. “In tivù muoiono subito.”
L’uomo era riverso sullo stomaco, gemeva come un bambino preso a schiaffi, cercava di fermare con le mani il fiume di sangue che gli usciva dalla pancia. Era pallidissimo. Accanto a lui, come per dimostrargli comprensione, il berretto che gli era caduto di testa dondolava leggermente.
Cole alzò la pistola, uggiolò sottovoce, sparò alla testa dell’uomo. Ancora. Ancora. Due proiettili mancarono il bersaglio. Uno colpì la guardia alla spalla destra.
Catz abbassò la pistola di Cole e chiese: — Cosa stai facendo?
— Cercavo di… di non farlo troppo… — cominciò Cole, esitante.
— Non volevo colpirlo allo stomaco. Ho mirato alle gambe. Potrebbe anche cavarsela. Lasciagli una possibilità.
— Pensi che sia stato… uh… Città a… far sparare la pistola della guardia?
Catz non ebbe il tempo di rispondere. Vennero attaccati su due fronti. Davanti a loro, due uomini robusti, quasi calvi, in completo nero, puntarono due .45. Erano usciti dalla sala d’attesa annessa alla sala riunioni. Stavano già premendo il grilletto, ma le armi non spararono. I due si chinarono a guardare le pistole, stupefatti. Da destra arrivò, scivolando lungo il corridoio, un autoguardiano, uno di quei robot dal cervello non troppo complicato apparsi sul mercato nel 1979 e che servivano da guardiani notturni per magazzini e supermercati. — Fermi lì dove siete e non muovetevi per nessun motivo — disse la voce, materna e imperiosa, che uscì dalla testa globulare, cromata, del robot. Le sue braccia, simili al tubo di un aspirapolvere, terminavano in due paia di pinze con gli angoli smussati. Le braccia si spalancarono, circondarono i due uomini, sempre più perplessi. Il robot ripeté la litania del: — Fermi lì dove siete… — il che scatenò le proteste del gorilla più alto. — Ehi, che cazzo credi di fare, idiota, non sai che dovresti… — Venne interrotto quando gli sforzi frenetici del suo collega per liberarsi dal robot misero in azione, sulla testa dell’autoguardiano, un lampeggiatore stroboscopico. A distanza così ravvicinata, il lampo di luce accecò momentaneamente i due uomini.
Cole e Catz strizzarono gli occhi per allontanare le macchie di colore che danzavano sulle loro retine.
I due uomini prigionieri dell’autoguardiano continuarono a lottare, a cercare di liberarsi, bestemmiando e scuotendo la testa, come se bastasse quello a far scomparire la cecità. Una lampadina rossa cominciò ad accendersi e spegnersi sul petto cilindrico del robot, e i due gorilla si misero a sussultare: il computer stava trasmettendo loro piccole scariche elettriche. Poi i due precipitarono a terra, esausti e confusi. Uno cominciò a piangere. Da un foro che si apriva nel punto di congiunzione tra la testa e il petto della macchina uscì del gas. I due gorilla, ridendo come bambini isterici per aver respirato gas esilarante, si lasciarono trascinare via lungo il corridoio…
Di fronte a loro, oltre la porta spalancata della sala d’aspetto, Cole vide che veniva aperta la porta della sala riunioni. — Che cavolo succede? — urlò qualcuno, per il momento ancora invisibile. — Guardate che qui stiamo cercando di…
Cole avrebbe voluto girare sui tacchi e scappare, ma Catz (che probabilmente si stava godendo tutta la faccenda) balzò avanti, la pistola spianata, e con la mano libera si aggiustò la maschera sul viso. — Torna subito dentro! — urlò, fingendo un tono di voce secco.
Cole le corse dietro. La stanza danzava attorno ai fori per gli occhi della maschera, appiccicosi di sudore. Nel naso aveva il puzzo della gomma.
L’uomo fermo sulla soglia, le mascelle spalancate in un’espressione di stupore, indietreggiò freneticamente, inciampò, rotolò a terra sul sedere enorme. Catz e Cole lo seguirono di corsa nella stanza, agitando le pistole.
Qualcuno urlò: — Merda! Vogliono rapirci!
In sala riunioni c’erano cinque uomini, compreso l’idiota terrorizzato che era caduto. Cole riconobbe soltanto Rufe Roscoe e il suo avvocato, Salmon.
Due dei presenti non sembravano assolutamente spaventati: Roscoe e un tizio che, a giudicare dal taglio di capelli di moda a New York, non doveva essere di San Francisco. Un uomo dal viso olivastro, con borse nere sotto gli occhi e un sorriso gentile, da uomo d’affari, che gli fioriva sulle labbra da pesce.
Cole ricordava bene la parte che doveva recitare. — Okay — disse a Salmon, sperando di sembrare abbastanza duro — allora, chi devo uccidere? Tutti quanti, o solo quello di cui abbiamo parlato?
Il tipo che non era di San Francisco lanciò un’occhiata calma, ma piena d’interrogativi, a Salmon. Vedendolo di profilo, Cole lo riconobbe: Gullardo, l’ambasciatore della mafia. Aveva visto una sua foto di profilo in un articolo. Sotto la maschera, Cole sorrise. Ai capoccia del sindacato criminale nazionale avrebbe dato molto fastidio un’irruzione a un incontro a cui partecipava uno dei loro. Benissimo.
Cole alzò la pistola, la puntò su Gullardo. — Vuoi che lo uccida o no? — chiese a Salmon.
— Co… Eh… No!
— Hai cambiato idea? — chiese Cole. E fu in quel momento che la pistola sparò.
Cole fissò l’arma, stupito.
Non aveva premuto il grilletto. Ma Gullardo piombò giù. Aveva la gola lacerata, sputava sangue.
— Merda, Città! — disse Cole, indietreggiando.
Si girò, corse via. Catz lo seguì, urlando qualcosa che non riuscì a capire. Quando superò la porta, nel legno si scavò un foro, e qualche scheggia lo colpì alla guancia.
La porta dell’ascensore li attendeva spalancata. Catz e Cole si gettarono nell’ascensore, si appiattirono contro la parete. Un altro proiettile colpì il muro quasi all’altezza del soffitto, a pochi millimetri dalla testa di Cole. — Cristomadonnasantissima — esclamò Cole, automaticamente. La porta dell’ascensore si chiuse. Qualcosa sbatté dall’altra parte con uno spang metallico. Poi l’ascensore cominciò a scendere. Diciassettesimo piano… dodicesimo… ottavo… quinto…
— Fermati al primo piano, Città! — urlò Cole. — Facci uscire lì, poi prendiamo le scale, se no a pianterreno ci saranno le guardie ad aspett…
Ma l’ascensore superò il primo piano e si aprì a pianterreno. Catz e Cole si accucciarono. Catz sparò una raffica alla cieca. Contro nessuno. I proiettili s’infilarono nel cristallo della porta d’ingresso, disegnarono una complicata ragnatela d’incrinature.
La guardia non si vedeva. Cole, cauto, seguì Catz fuori dall’ascensore. Sulla loro sinistra, sei metri più in giù lungo il corridoio, la guardia che aveva visto entrando era riversa a faccia in giù. Accanto a sé aveva un estintore. Il becco si alzava dalla moquette verso il suo viso, e il boccaglio…
— Gli ha perforato l’occhio! — gemette Cole, disgustato.
Impulsivamente, corse in corridoio, provò le porte degli uffici finché non ne trovò una aperta, tre uffici più in giù. Dentro, sulla scrivania, un telefono. Cole premette il pulsante di chiamata del centralino, ricordandosi di spegnere lo schermo perché nessuno potesse vedere chi stava parlando. — Ma cosa fai? — chiese Catz. — Dobbiamo andarcene subito di qui!
— Sto chiamando un’ambulanza… — disse Cole.
Il centralino non rispose. Al suo posto, la voce di Città: — Taglia la corda immediatamente, Cole. Posso bloccare le loro chiamate solo per poco tempo…
— Qui c’è della gente ferita — disse Cole, in tono acuto, stridulo — gente che ha bisogno di…
— Ha bisogno di morire — disse la voce di Città, una voce fredda ed echeggiante come una strada del centro in una mezzanotte d’inverno. — Meno testimoni ci sono, meglio è. L’Uee dovrà sistemare le cose, per non correre il rischio che durante le indagini saltino fuori i suoi rapporti con Gullardo. Lo porteranno via, fingeranno che sia stato ucciso altrove…
Cole, ribollente di rabbia, sbatté la mano sul pulsante che interrompeva la comunicazione.
Catz lo aspettava, agitata, in corridoio.
A passi rigidi, Cole seguì Catz sull’auto…
Qualche isolato più a sud si tolsero maschere e tute militari, e Cole si asciugò il sudore dal viso. — Penso che quella maledetta gomma mi farà vomitare anche l’anima — mormorò.
Catz guidava in silenzio.
Cole le chiese, perché aveva bisogno di sentirla parlare: — Credi che arriverà la polizia?
— No. Città bloccherebbe le telefonate alla polizia. A ogni modo, non credo che quelli dell’Uee vogliano sbirri tra i piedi finché non si saranno liberati di Gullardo. Se è morto.
— È quello… — Lo stomaco di Cole si contorceva. Inghiottì bile. — È quello che ha detto Città… al telefono… Non mi ha lasciato chiamare un’ambulanza…
Fra loro, nell’aria, c’era qualcosa che spaventava tutti e due: una verità non detta: Città aveva mentito.
— Le cose non sono andate… esattamente come ci aveva detto… — mormorò Cole alla fine.
Sulla difensiva, anche se non stava difendendo se stessa, Catz ribatté: — Stu, concedigli qualche debolezza. Non può controllare tutto. Non è mica Gesù Cristo in persona. Deve improvvisare anche lui, seguire gli sviluppi della situazione. — Chissà perché, ma parve quasi che lei difendesse Città per risparmiare la sensibilità di Cole, per impedirgli di lasciarsi prendere dal panico.
— Non sono stato io a premere il grilletto — disse Cole, con voce funebre. — Città non doveva…
— Cosa? — Catz si girò a guardarlo, dimenticandosi di guidare. Cole, istintivamente, schiacciò col piede un pedale del freno che non esisteva quando passarono col rosso a un semaforo.
Quasi a metà dell’incrocio, lei frenò e fece marcia indietro. La strada era praticamente deserta, a eccezione di poche figure in ombra che s’intravedevano dietro le finestre dai vetri affumicati di un bar semibuio, sulla via in discesa alla loro destra.
— Non gli ho sparato io. Non ho premuto il grilletto. È stato Città a far partire il colpo.
— Be’, forse… — Catz tagliò corto con le ipotesi. Il semaforo era passato al verde. Lei premette l’acceleratore. La macchina ripartì all’indietro. — Ehi!
Catz frenò, l’auto si arrestò.
— Eri ancora in retromarcia — disse Cole, accennando un sorriso. — Per non restare in mezzo all’incrocio hai dovuto fare marcia indietro e ti sei…
— Oh! — Lei sorrise timidamente, inserì la prima, si rilassò quando la macchina scattò avanti. — Oh, già. — Esitò. — Comunque, forse Città non sapeva che c’era anche Gullardo, e ucciderlo era l’unico modo di risolvere la situazione. Però… uomo, non capisco proprio perché fosse necessario…
Cole si accorse di sedere rigidamente, di avere la schiena che gli tremava. Fece uno sforzo cosciente per rilassarsi, e tutto il suo corpo ebbe un sussulto. Si appoggiò alla portiera, premette il pulsante che faceva abbassare il finestrino, respirò l’aria fresca. — Ho bisogno di un goccio.
— O forse… — proseguì lei, tormentando il labbro inferiore con gli incisivi — forse sei stato tu a premere il grilletto. I nervi. Non puoi essere sicuro che non si sia trattato di un incidente, del dito che è scattato da solo…
Cole corrugò la fronte. Forse era stato lui, forse non era stato Città.
Non era stato a fare cosa? pensò furiosamente. — A uccidere — mormorò ad alta voce, per abituarsi all’idea, al suono della parola.
— Sarà meglio che ti ci abitui — disse Catz.
— Non mi piace che tu mi legga la mente quando non te lo chiedo — disse lui, dolcemente.
— Scusa. Mi è arrivata un’emanazione così, per caso.
— Sì. Giusto. Sicuro. Merda.
— Senti, non prendertela con me, Stu. Non è con me che ce l’hai.
— E come cazzo fai a sapere con chi ce l’ho? — La voce di Cole tremava; il suo sguardo era perso nel vuoto. — A meno che tu non mi stia leggendo la mente.
— No. Non posso nemmeno farlo tutte le volte che vorrei, tra l’altro. So con chi ce l’hai perché ti conosco. E lo vedo dal modo in cui ti stringi le mani, come se dovessi tenerle ferme per impedirti di prenderti a pugni, pirla. Ammettilo, hai un debito personale da pagare. Però non gettarlo sulle mie spalle, perché io non ho nessuna intenzione di dividere i tuoi sensi di colpa. Piantala con le menate.
— E tu piantala di usare certi termini. Non è da te. Tu sei una persona educata.
— Vedi? Adesso mi fai la censura. Ti sfoghi su di me perché ti fa comodo. Non venire a dire a me quello che sono e quello che non sono, Stu.
Cole stava tremando. Cercò di frenarsi, non ci riuscì. Aveva l’impressione che avrebbe continuato a tremare fino a mandare in pezzi l’automobile. Si sentiva teso, soffocato. — Lasciami giù qui — disse all’improvviso. — Arrivo a piedi al club. Ho bisogno di muovermi, di pensare. Ci vediamo al club.
Lei fermò la macchina di colpo. — Magari ci vediamo al club.
Cole scese, si portò sul marciapiedi.
Catz ripartì prima che lui riuscisse a chiudere la portiera. L’automobile schizzò via, la portiera sbatté secca, come se anche la macchina fosse arrabbiata.
Cole si guardò attorno. Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse.
Era a Polk Street. Respirò a pieni polmoni e rabbrividì. La notte gli pareva più fredda del normale.
Una donna alta, dai capelli chiarissimi, vestita da normalissima segretaria, stava arringando un gruppetto composto da quattro prostitute sotto i vent’anni. — Non m’importa se non ci credete. Ve ne accorgerete da sole. Datemi retta. Il sindacato è l’unica cosa che alla lunga possa proteggervi dai vigi, e dai poliziotti e da tutti quelli che cercano di fottervi. Non potete starvene qui a darla via al primo che passa senza pensare di rischiare… — La donna era una rappresentante del sindacato prostitute.
Cole si allontanò. Oltrepassando un’osteria, fu investito dal soffio di aria tiepida che usciva dall’apertura per la ventilazione: esalava odori di birra e vino e fumo d’erba e tabacco, mischiati alle voci di ubriachi litigiosi che urlavano per farsi sentire nel fracasso generale.
Superò un negozio di dischi/nastri/videocassette aperto tutta notte, vagò nella sua pozzanghera di luci multicolori, nel frastuono della sua musica. Stava attraversando un quartiere quasi completamente omosessuale. Era un quartiere accogliente, pieno di risate e d’affetto. I gay, in genere, accettavano tutti, e a volte lui entrava in un bar gay per vedere uomini che flirtavano con uomini, donne che flirtavano con donne, per guardare uomini che carezzavano uomini e… Gli piaceva il senso di comunione totale delle loro carezze, la loro spontaneità, la loro gioiosa ribellione. Ai gay non importava che ancora nel 1991 molta gente li disapprovasse, specialmente il movimento neopuritano. Infrangevano barriere, creavano legami proibiti per il semplice gusto di celebrare il minimo comun denominatore del piacere, il sesso. Cole aveva rimpianto più di una volta la propria eterosessualità. Talora immaginava che, se fosse riuscito a raggiungere il livello di amore comunitario dei gay, avrebbe riscoperto il fuoco della propria sessualità.
Oltrepassò un gruppo di travestiti, ascoltò distrattamente la loro conversazione: — …Be’, signorina Cosa, senti un po’, tesoro, ma ti ha dato di volta il cervello a tingerti i capelli di quel colore? Oggi il verde non lo porta più nessuno, e poi andrà a finire che le macchine ti scambieranno per un semaforo e ti passeranno sopra.
Cole sorrise debolmente. Non funzionava. Stava cercando di perdersi nella città. E non funzionava. Era il dolore che sentiva dentro a isolarlo.
E camminava troppo in fretta. Raggiungeva di continuo la gente (uomini barbuti in jeans e stivali militari, gay in tenuta da motociclisti coi pantaloni senza fondo, coppie e trii e gruppi di otto o dieci persone che si passavano spinelli e ridevano e si raccontavano battute oscene senza senso) che aveva davanti sul marciapiede, doveva superare tutti, aprirsi un varco. Un travestito gli lanciò un’occhiata furibonda e gli disse: — Ehi, ragazzina, non camminarmi sui tacchi, queste puttane di scarpe le ho appena comperate.
— Scusa — mormorò Cole, continuando disperatamente ad avanzare.
Il cuore gli batteva velocissimo.
Stava cercando di lasciare indietro le immagini… cercava di reprimerle… e le rivedeva all’infinito.
Sulla moquette c’era un uomo. Era morto, perdeva sangue. E, chino su di lui, c’era un altro uomo che stringeva una pistola fumante.
Entrò nel bar più vicino, si fece strada a colpi di gomito tra la folla al banco, e urlò: — Un bourbon liscio! — al barista. Il barista, un finocchio piccolo, avvizzito, che s’era tinto troppe volte i capelli, si leccò le labbra e mostrò la lingua a Cole.
Il jukebox stava suonando un pezzo dolce di Amanda Lear… Il barista guardò negli occhi di Cole, e capì. Scrollò le spalle, gli versò da bere. Gli versò una dose doppia. Cole si trasferì col bicchiere in un séparé d’angolo, vuoto; sedette, bevve, rabbrividì al gusto forte del liquore, tremò per lo sforzo di allontanare…
E non ci riuscì.
L’uomo era riverso sullo stomaco, gemeva come un bambino preso a schiaffi, cercava di fermare con le mani il fiume di sangue che gli usciva dalla pancia…
— Città… — disse, roco, Cole, a niente, a nessuno.
Cole alzò la pistola, sparò alla testa dell’uomo. Ancora. Ancora. Due proiettili mancarono il bersaglio. Uno colpì la guardia alla spalla destra…
— Città! — uggiolò Cole, i denti serrati, gli occhi chiusi.
Gullardo piombò giù. Aveva la gola lacerata, sputava sangue…
— Città! — urlò Cole, e riaprì gli occhi.
— Tutto bene, ragazzina? — Un ometto con la barbetta a punta e un solo orecchino gli sorrise debolmente. Qualcun altro si avvicinò al tavolo: un travestito, scoprì Cole, indifferente. Trangugiò il liquore in tre sorsate, rabbrividendo, e si alzò.
— Ragazza mia, hai una cera orribile — disse il travestito quando Cole lo superò. — Sarà meglio che tu vada a casa e…
— Sì — disse Cole. — Sì, grazie. È proprio quello che voglio fare. Vado a casa. — Uscì, strizzando gli occhi.
S’incamminò per strada alla cieca, mormorando scuse, respirando pesantemente, quasi senza accorgersi che oltrepassava discoteche gay, cinema gay, poliziotti gay che si tenevano per mano mentre pattugliavano, negozi di olovisori gay. e ristoranti gestiti da gay. Marciò furiosamente senza una direzione.
Alla fine si fermò, si scosse. Si riempì i polmoni d’aria e riprese il controllo di sé. Era in centro, dalle parti dell’Embarcadero Center; macchine a gasolio correvano alla sua destra, i grattacieli si ergevano duri e freddi e tozzi alla luce dei lampioni. I marciapiedi erano quasi deserti. Alla sua sinistra, qualcuno era coricato in un portone buio.
Cole si tese. La figura scura riversa sotto il portone aveva occhiali da sole a specchio, un cappello logoro e un lungo impermeabile. Dall’altezza del suo ventre usciva una musica in sordina…
— Città? — sussurrò Cole, avvicinandosi. Si chinò sulla forma dormiente. — Città? — L’uomo sotto il portone puzzava di vomito e di vino. Gli occhi di Cole si abituarono al buio. Fissò il viso dell’uomo: gli occhiali gli pendevano sul naso, di traverso. Dormiva, russando piano. Un messicano con la faccia da falco devastata dall’acne. La musica usciva da una radiolina portatile, semi nascosta nell’ansa del braccio. Era una stazione rock che andava e veniva, fra continue scariche.
Cole fece per allontanarsi, completamente deluso.
— Come ti senti, Cole?
La voce di Città, alle sue spalle.
Cole si girò di nuovo verso la figura che dormiva, le ginocchia sotto il mento, all’ombra del portone. L’uomo continuava a russare.
— Città?
— Sì, Cole. — La voce proveniva dalla radio, più forte della musica.
Cole si riavvicinò al portone, si chinò davanti alla radio, parlò piano per non svegliare l’ubriaco. — Città… sono fritto. Sto male.
— Come mai? Perché, Cole? — chiese la radio. E la musica, in attesa di una risposta, riprese il sopravvento.
— Sono disgustato. Mi viene da vomitare di disgusto. È strano… All’inizio non stavo troppo male. Sarò stato sotto choc, immagino. Poi ho cominciato a tremare, mi è piombato tutto addosso. Ho ucciso quell’uomo. L’abbiamo ucciso tu e io, tutt’e due. Mi hai mentito. E la guardia… Forse Gullardo doveva morire, forse se lo meritava… Merda! La sua gola squarciata… Ma quella guardia non sapeva niente di questa faccenda.
— Era sotto droga, Cole. Quella guardia era un paranoico drogato. Avrebbe ucciso chiunque fosse uscito dall’ascensore.
— Ammesso che sia vero, doveva pur esserci un altro modo di neutralizzarlo, anziché…
— Doveva esserci, ma non c’era. — La voce di Città era più alta, più stridente. L’ubriaco si agitò e gemette nel sonno.
— Senti, io non posso fare cose del genere, non posso… non posso prendermene la responsabilità. Non posso giudicare quella gente e ammazzarla. Non mi piace come sta andando questa situazione, non mi piace quello che sento… — Cole s’interruppe per schiarirsi la gola. Stava singhiozzando. Le macchine ululavano alle sue spalle. Guardò lungo i due lati del marciapiedi: non arrivava nessuno.
— Doveva succedere, Cole. Doveva verificarsi questo momento di presa di coscienza di te stesso. All’inizio stai male, hai paura, sei disorientato, poi ti riconosci, riconosci il tuo ruolo, e capisci.
— No, uomo. Io non capisco proprio niente.
— Cole, non sei stato tu a sparare. Sono stato io. Forse ti ho usato per farlo. Tu eri il mio veicolo. Ma la scelta, la responsabilità, sono mie…
— Però io ho il diritto di scegliere, o almeno dovrei averlo, se voglio o non voglio essere il tuo fottuto veicolo…
— Uh-uh. No, Stu, questa scelta è stata fatta molto tempo fa. Tu sei stato scelto, ma al tempo stesso ti sei offerto volontario. Hai accettato di diventare parte di me, di essere il mio agente, molto prima di vedermi nel tuo club. E adesso una domanda importante, Stu: io cosa sono? Cosa credi che sia?
Cole esitò. — Sei… l’inconscio della città. L’inconscio collettivo, solidificato in una sola mente. Almeno, questo è quello che dice Catz.
— Abbastanza vero. Ma allora, rifletti, quali sono le implicazioni della cosa? Io realizzo i desideri frustrati di tutta la gente di questa città. In cuor loro, hanno paura del Tif e dell’Uee e della computerizzazione del mondo e del decentramento della città. Hanno paura degli uomini che si servono di questi strumenti per assumere gradualmente il potere assoluto. Nonostante il condizionamento che li spinge ad accettare tutto questo a livello conscio, inconsciamente vogliono opporsi. E hanno creato me per poter lottare, e scelto te come mio agente fisico. Sono stati loro, Stu, a uccidere Gullardo. Sono stati loro a uccidere i vigi per strada. E tu sei sempre stato a favore di un governo collettivo, di un’espressione collettiva delle personalità. Tu sei sempre stato dalla loro parte, Cole. Adesso stai semplicemente eseguendo i loro ordini. Tu sei il bambino, e loro la tua famiglia.
Cole rifletté. L’idea funzionava, gli andava bene. Era un’ottima giustificazione razionale. Poco importava che Città avesse o meno ragione dal punto di vista morale. L’importante era che Cole possedeva una giustificazione per le cose che aveva fatto quella sera. Il sangue non macchiava più soltanto le sue mani. La responsabilità era condivisa con tutti coloro che vivevano attorno a lui. E chi poteva giudicarlo? Si sentì più leggero. Rabbrividì, ma questa volta di sollievo.
— Okay — disse.
— Ci saranno momenti — disse Città — che tu dubiterai di loro, e di me, e vorrai lasciarci. Forse succederà stasera stessa, più tardi. Ma adesso sai come affrontare questi momenti. Passerà. Non permettere che nessuno faccia leva sul tuo senso di colpevolezza morale, Cole.
A chi stava alludendo Città? A Catz?
La radio gracidò, ricominciò a trasmettere musica idiota. Città se n’era andato.
Ma adesso la sua presenza era lì, foltissima nell’ammasso di edifici che circondavano Cole.
Cole riprese a camminare, sorridente, sollevato. Si sentiva libero. La tensione era scomparsa. Pensò al suo club e svoltò l’angolo, diretto da quella parte: verso l’Anestesia.
Gli venne in mente che s’era incamminato verso il club così come i pensieri s’incamminano verso la piena comprensione di un’idea, o verso un ricordo che si vuole rivivere. La città era una mente enorme, una matrice di idee, di concetti compressi nel cemento e nell’asfalto; e lui era il centro di coscienza che percorreva quella mente, che sfiorava un’idea (un punto della città) e poi un’altra. I nomi delle vie sistemati in bell’ordine, sfumando l’uno nell’altro, erano come i percorsi delle libere associazioni d’idee.
Si sentì, più che mai, parte della mente di Città.
— Ehi, Stu! — Alzò gli occhi, vide Catz ferma davanti al club Anestesia. Sorrise, la salutò col braccio. Lei parve sollevata. Lo raggiunse, lo prese per mano, e assieme entrarono nel clamore del club. Come per muto accordo, parlarono di tutto, di qualsiasi cosa; tranne che di Città e dei morti del Pyramid Building.
Andarono nella stanza sul retro, e Cole versò due birre. Parlarono di musica, e del pubblico, e riuscirono quasi a dimenticare.
Però, nella voce di Catz c’era un leggero tono d’accusa. Combatteva con se stessa, per impedirsi di parlare di quello che era successo. Cole sentì tornare il disgusto di sé. “La faccenda non è in mano mia” si disse. “Per me hanno deciso tutto quelli che vivono in città.”
Si alzò, si stiracchiò, disse che doveva mettersi a lavorare. Catz annuì, fissando il pavimento. Cole rientrò nel locale.
Per due ore si perse nel lavoro. Versò da bere e nutrì il mostro dalle mille bocche; lavò bicchieri e tenne d’occhio gli incassi e pulì il banco; fece partire e ripartire la disco computerizzata e studiò carte d’identità e buttò fuori gli attaccabrighe e finse di ascoltare aneddoti che il fracasso non gli lasciava sentire; versò da bere, da bere, da bere.
A volte faceva tutte queste cose una dopo l’altra, eseguiva in cinque minuti una serie di lavori a velocità record; rimbalzava avanti e indietro dal banco come una palla da biliardo che rotolasse sul tappeto verde, contro le sponde. Un sollievo enorme. Riusciva a essere una parte funzionante del grande congegno della città notturna, e si sentiva a proprio agio.
Versò da bere, lubrificò gli ingranaggi della Grande Macchina del Sabato Sera, senza mai perdere d’occhio il suo regno fumoso, dominato da una sfera a specchi.
Lo squillo del registratore di cassa, l’acciotolio della lavastoviglie, i barriti animaleschi dei clienti: tutto si fondeva in un mare tempestoso di suoni.
Era il capitano del club Anestesia. Era il primario che somministrava l’oblio in siringhe a forma di bicchiere, e poteva benissimo dimenticarsi la guardia che si contorceva sulla moquette e l’italiano con la gola squarciata al diciottesimo piano di un palazzo progettato per sopravvivere ai terremoti… Riusciva a scordarsene anche per mezz’ora di seguito. E poi gli tornava in mente che è stata tutta quanta la città a premere il grilletto; io ho solo eseguito l’ordine.
Ma, di tanto in tanto, rivedeva davanti a sé il palazzo piramidale, ed era diverso; somigliava alla piramide stampata sui vecchi biglietti da un dollaro, quella con sopra un occhio enorme, fisso.
“Appena capiranno che Salmon non li ha traditi” pensò “verranno a cercarmi. Sarò uno dei primi sulla loro lista di sospettati. Sanno che ho motivi per odiarli.”
Quindi, non restò sorpreso quando alle dieci, dopo che la banda di Catz aveva suonato per un’ora, due uomini in abito grigio entrarono e si avviarono, decisi, verso il banco. Quello più anziano aveva occhiali con le lenti gialle, e il suo viso affilato sembrava ancora più piccolo per le cicatrici da ustioni che aveva sulle guance. L’altro era più giovane, più basso, di carnagione scura, con occhi castani e capelli neri; probabilmente un messicano.
Cole fece loro segno di avvicinarsi all’estremità del bar, dove la folla era meno fitta, e quando i due lo raggiunsero capì di aver commesso un errore: avrebbe dovuto ignorarli finché non l’avessero costretto a interessarsi a loro. Comportandosi come se li stesse aspettando, si era compromesso.
L’uomo con le cicatrici disse: — Cole? Drummond — e indicò se stesso con un cenno quasi impercettibile del pollice. Poi accennò al tizio che sedeva al suo fianco. — Il sergente Hulera. — Drummond gli mostrò il portafoglio col distintivo della polizia.
Hulera, che anche muovendo le labbra riusciva a conservare un’ombra di sorriso, chiese: — Ci stavate aspettando? Qualcuno vi ha avvertito?
— Cosa? Uh… — Non balbettare, si disse Cole. — No, cavoli, no. Però so riconoscere un poliziotto quando lo vedo. E siccome voi non siete quelli che di solito fanno servizio di pattuglia qui, ho pensato che voleste parlare con me. Ecco tutto.
Drummond parve soddisfatto della risposta. Ma Hulera chiese: — E per caso sapete perché vogliamo parlare con voi?
— Oh, piantala con questi giochetti — disse Drummond, irritato. — Non è mica scemo… Cole, sapete niente dei ragazzi che ci hanno rimesso le penne nel palazzo della Cracker Bank? È successo solo poche ore fa.
— Ragazzi? — chiese Cole, fingendosi annoiato. — Volete dire ragazzini?
— Voglio dire guardie. Una ha fatto una fine piuttosto brutta.
— Una fine mostruosa, per la madonna — intervenne Hulera. Scosse la testa, il sorriso scomparve. — Gli hanno infilato il boccaglio di un estintore nell’occhio.
— Uh… Che razza di modo di morire. — Cole deglutì per cercare di riprendere il controllo. — E come diavolo è successo? — chiese, con un sorriso che si rese conto doveva sembrare la smorfia di un ubriaco.
— Questo volevamo chiederlo a voi — disse Hulera con aria da istrione.
— A me? E perché?
— Ci hanno detto che dovete un sacco di soldi a quella gente. Un sacco. A quelli del diciottesimo piano — rispose Drummond.
Cole si sentiva penetrare dallo sguardo di Drummond. Il poliziotto stava esaminando al microscopio ogni minima variazione nell’espressione di Cole.
— Sentite, Drummond — ribatté Cole — è ovvio che mi sarei levato dai pasticci se fossi andato da loro e avessi infilato qualcosa nell’occhio della guardia. Lampante. Insomma, è logico che dev’essere stato un maniaco. Insomma, se questo cosiddetto debito mi avesse fatto uscire di testa, e non voglio dire che non mi dia fastidio, se avessi perso i cinque minuti e fossi andato a far fuori tutti, credete che adesso potrei starmene qui a fare tranquillamente il mio lavoro, a poche ore di distanza?
— Come fate a sapere che sono passate poche ore? — disse Hulera, giulivo. Nei suoi occhi si accese la luce di trionfo dell’ingenuità.
— Cristo, Hulera — ringhiò Drummond con l’angolo della bocca — gliel’ho detto io qualche secondo fa. E sta’ attento.
Hulera scrollò le spalle, si leccò le labbra, puntò lo sguardo su Cole.
— Vi dispiacerebbe venire con voi al commissariato di polizia, signor Cole? — chiese Drummond.
— Mi dispiacerebbe sì. A meno che non abbiate un mandato di arresto.
— Possiamo averlo entro domani mattina — disse Hulera.
Si abbassarono le luci. Era cominciato il numero di Catz. Dovettero urlare tutt’e tre per farsi sentire al di sopra della musica.
Cole era contento che l’illuminazione fosse scarsa. Drummond non poteva più vedere perfettamente il suo viso. Era sicuro che il terrore che lo stava assalendo (niente lo spaventava più della prospettiva di finire in galera) si riflettesse in chissà quale angolo del suo viso.
— Dovrete procurarvi un mandato — disse Cole. — Io ho un locale da mandare avanti, e con quel debito che mi pende sulla testa resterò qui ad assicurarmi che renda tutto il denaro possibile, potete scommetterci l’anima…
— Una scusa molto debole, amico — disse Hulera, protendendosi in avanti. La sua voce era dura come l’acciaio.
— Porca miseria, Hulera, è un’ottima scusa — urlò Drummond al suo collega. Poi fece un cenno a Cole. — A domani. — E guidò fuori dal bar un Hulera terribilmente accigliato.
Cole si versò da bere.
— Un comportamento sospetto — mormorò fra sé, sorseggiando il liquore e fissando i poliziotti. — Dovevo andare con loro. Forse dovrei rincorrerli e rispondere a tutte le domande. Chi se ne frega.
La sua attenzione si soffermò sulla figura riflessa nella vetrina del club, fra insegne al neon che si accendevano e si spegnevano; una figura vaga, sovrapposta alle immagini dei clienti che popolavano il club. Era visibile solo quando il colore delle insegne passava dal giallo al rosso. Rosso: era Città, col suo impermeabile, il cappello lacero, gli occhiali a specchio.
Cole si guardò attorno. Città non c’era (se non a livello macroscopico). Di lui restava soltanto quel riflesso. Un riflesso che nessuno proiettava. Lo guardò. Città lo stava fissando e scuoteva la testa. — Alludi ai poliziotti? — gli chiese. — Devo andare a parlare con loro?
Città scrollò la testa, ammiccò, svanì.
Cole si rimise al lavoro. Quando terminò di suonare, Catz lo raggiunse al banco. — Ho sentito la voce di Città nei microfoni del palco — gli disse. — Mi ha parlato.
Il gelo scese nel cuore di Cole. — Vuole farci fare qualche altra cosa…
Lei annuii. — Ha detto che devi andare al telefono a gettoni.
— Perché? — Cole lasciò cadere lo straccio per pulire il banco. — Stasera è stato abbastanza. Non posso sopportare niente di più. Uh-uh. È stato abbastanza per dieci anni.
Ma andò al telefono.
Davanti all’apparecchio senza schermo, raccolse il ricevitore, s’infilò un dito nell’altro orecchio per eliminare in parte il frastuono della disco, e si mise in ascolto. Immediatamente, più forte del segnale di libero, si udì la voce di Città: — Non parlare con la polizia se puoi evitarlo. Cercherò di gettare i sospetti su una banda rivale. I Tongs, magari. Loro, quelli di Roscoe, hanno la tua voce registrata su videonastro. Sono riuscito a bloccare la telecamera, ma non la registrazione audio. Per cui, se vai al commissariato, potrebbero identificarti… Adesso devi recarti al Memorial Auditorium. C’è un concerto dei Prima Lingua. I vigilantes vogliono dare una lezione al gruppo perché si è rifiutato di associarsi al loro sindacato musicisti. Andremo a orecchio, vedremo di sfruttare le possibilità che ci si offriranno. Va’ all’uscita sud e ti farò entrare. Parti subito.
— Ehi, senti, sono stufo di fare le cose così, a orecchio — cominciò Cole in tono stridulo. — Avevi detto che non sarebbe successo niente a nessuno, e invece ci sono… — abbassò la voce, si guardò alle spalle — …ci sono dei morti in quel palazzo, e due come minimo non dovevano morire. Come minimo. Non c’era motivo di uccidere la guardia con l’estintore, Città. Potevi semplicemente stordirla, oppure… — La voce di Cole si spense. Il telefono gli rimandava solo il suo segnale monotono. Aveva la netta sensazione… — Città? — …che Città non fosse più all’apparecchio.
Scagliò il ricevitore di plastica contro la tastiera, restò a guardarlo rimbalzare e penzolare per aria, appeso al cordone di metallo, come un orribile pendolo.
Catz era al suo fianco, gli porgeva la giacca. — Ho già detto a Bill di sostituirti — disse. — La band continuerà senza di me. Al diavolo.
Cole si mosse lentamente per prendere la giacca. In lui c’erano tre diverse stratificazioni di paura. La prima era la paura di essere ucciso o fatto prigioniero. La seconda era paura per il night club e, contemporaneamente, paura per la sorte di Catz. La terza stratificazione era il terrore che provava accorgendosi di non avere nessuna scelta quando giungeva il momento di fare quanto Città gli diceva…
S’infilò la giacca e seguì Catz fuori dal locale.
L’uscita sud dell’Auditorium era chiusa con una catena; non c’era nessuno a sorvegliarla. Ma Città aveva aperto i due lucchetti che la bloccavano, e Cole dovette semplicemente sfilare la catena dalle maniglie della porta. Questa era chiusa anche dall’interno, e resisteva ai colpi di Cole. Catz disse: — Tirati indietro. — Cole si tirò indietro. Sentì due scatti metallici. Quando riprovò a spingere, la porta era aperta.
La spalancò, e i due entrarono decisi nel caldo e nel fumo dell’Auditorium. Si trovavano in un corridoio all’esterno dei gabinetti. Il corridoio di cemento vibrava al ritmo del basso e delle percussioni della band che si stava esibendo sul palcoscenico dall’altra parte della parete… Non erano soli. Li avevano visti entrare.
Punk e seguaci dell’angoscia rock erano allineati lungo le due pareti in un disordine studiato. I punk indossavano abiti fatti da loro stessi, ornati alla rinfusa da catene, gioielli, ninnoli, gingilli, autoadesivi, distintivi vari; i loro vestiti (simili come stile senza che ce ne fossero due identici) erano accozzaglie di parti che facevano a pugni tra loro, a riflettere il disgusto per gli abiti di produzione industriale e la moda computerizzata. Gli angosciari indossavano soprattutto uniformi (andava bene ogni tipo d’uniforme, ma quelle da carcerato erano le preferite) oppure tuniche bianche da ospedale. C’era anche un pizzico di vestiti in gomma, in pelle nera, in metallo cromato, qualche fascia da trapianto, qualche voguer sgargiante. Fumavano sigarette, erba e stick di alcaloidi. Guardarono Cole e Catz con indifferenza, ma in qualche espressione Cole lesse rispetto: — Quelli sono entrati gratis — ridacchiò qualcuno. — Mica dev’essere stato facile forzare la porta.
Punk dai capelli foltissimi, i visi rozzamente tatuati con inchiostro di china a rappresentare il simbolo del dollaro, teschi e simboli anarchici, si avviarono verso l’uscita sud; gli angosciari, torvi e depressi, le mani infilate in tasca, gli occhi tristi sotto le fronti uniformemente fasciate di nero e la capigliatura corta, non si mossero. Le ragazze punk, tutte a seno nudo, con gli anelli infilati nei capezzoli che riflettevano la luce, risero e indicarono Cole con la testa. — È un po’ vecchio per stare qui, no? — si chiesero, storpiando a bella posta le vocali. Cole sentì come un dolore al petto.
Con un sorriso arrogante, Catz prese Cole per il braccio e lo guidò sulla destra verso l’ingresso dell’Auditorium più vicino al palco. Alle loro spalle, i punk urlavano agli amici che stazionavano all’esterno, offrivano l’ingresso gratuito attraverso l’uscita sud.
Catz era piuttosto nota; probabilmente l’avrebbero riconosciuta se non fosse stato per la maschera domino di plastica e il trucco diabolico che le nascondevano quasi tutto il viso. Indossava una calzamaglia con un foro da cui sporgeva il seno destro, una giacca marrone da pilota e calzoni aderenti di pelle nera. I capelli erano diritti sulla testa, cosicché lei sembrava, nell’insieme, un ritratto dipinto da un paranoico. Aveva il tipico aspetto da punk, il che la rendeva un po’ fuori moda. In genere, i punk erano relitti al di sopra della trentina.
Superarono un corridoio spettrale, con luci azzurre; tirarono calci a flaconi vuoti di plastica, a pacchetti di sigarette, a siringhe del tipo distribuito dal governo; svoltarono a sinistra ed emersero nel teatro. Si fermarono al limitare della folla fittissima, a una dozzina di metri da cinque dei monumentali altoparlanti sulla destra del palco. Gli altoparlanti erano talmente grandi da poter contenere due uomini ciascuno. Il tuono heavy-metal li avviluppò, li trascinò nelle sue correnti di suono totale, li costrinse a nuotare…
Catz si muoveva in quell’elemento (il ruggito folle di un concerto di angoscia rock è un elemento a sé, un oceano in miniatura di suono palpabile; musica che si può sentire a livello fisico, una seduzione sonora che scuote le membra, scompiglia i capelli con la forza della sua pressione, fa battere spasmodicamente i denti) con la sicurezza di un falco che voli tra l’infuriare dei venti.
Cole era raggiante di ammirazione per lei.
Come un gigantesco drago arenato sulla spiaggia, la folla si muoveva all’unisono, formava un unico corpo agitato da sinuosità da rettile: un’enorme massa multicellulare che fremeva al massaggio imperioso del rock ’n ’roll, una pelle multicolore (cinquantamila facce fuse l’una nell’altra) che vibrava di vita, che si nutriva della prodigiosa amplificazione ritmicamente elargita dalla band.
I musicisti, vestiti rispettivamente da santi gnostici, maghi iniziati e alchimisti, indossavano arcani costumi in rosso-nero-argento. Il cantante solista portava solo una fascia di tela grezza che gli cingeva i fianchi e, sul petto esile grondante di sudore, era tracciato a fuoco il Simbolo, il simbolo cabalistico del caos, la croce la cui base si trasforma in falce. I suoi occhi da gatto (lenti a contatto verdi gli allargavano le pupille) emanavano un’intelligenza aliena. Si agitava masochisticamente sotto le sferzate del ritmo singhiozzante di basso e batteria; eseguiva una coreografia bizzarra, spontanea quanto lo schioccare d’una frusta e al tempo stesso attentamente studiata, e ogni passo faceva parte di un rito d’invocazione del voodoo urbano… Nelle interviste, il cantante dei Prima Lingua aveva sempre ripetuto che i loro strumenti parlavano la “Prima Lingua”, il linguaggio dei tempi precedenti Babele, il linguaggio degli angeli. Era l’unica band di rock occulto che avesse ancora un certo successo, anche se il genere era stato iniziato più di dieci anni prima dalla Blue Öyster Cult.
Il cantante, che sfoggiava il nome d’arte di Blue Drinker, intonò con quella sua aria sfottente:
Le sei gambe del cadavere vivente
Che invade con lame di
ghiaccio la pace della morte
E le sue sei lingue che annunciano imminente
Di un Cristo elettrico il ritorno a nuova sorte…
E in quel momento ebbe inizio lo show luminoso. Nel turbinio di fumo sospeso sul pubblico, i raggi laser si accesero, rossi e acuminati come l’inevitabilità della morte, intrecciandosi e cozzando in una ragnatela di colori, pulsando secondo un codice diabolico; colori fondamentali, rivoli eterei d’acciaio incandescente e filamenti di luce, tutto al ritmo della musica. Sempre sincronizzati con la musica, con la prima e l’ultima eco di un rimbombo della batteria, con ogni gemito di uno spunto della chitarra solista; accendendosi in perfetta sintonia col coro arcano del sintetizzatore, col lamento funebre del basso. Le luci erano in funzione della musica, attivate dal computer con lo scarto di un millesimo di secondo rispetto al suono. Il computer sapeva, nell’attimo in cui la musica cresceva, che era giunto il momento di far partire l’olografia; i raggi laser si spezzarono, si rifransero, si soffusero, e presero forma come la creta sul tornio, seguendo le configurazioni del grande campo elettromagnetico proiettato da fonti nascoste nel soffitto.
E la folla eccitata, acclamante, ipnotizzata, coi visi rivolti verso l’alto come onde di un mare agitato dalla tempesta, vide una bestia grande quanto un cacciatorpediniere. Era una cosa mostruosa, subumana: un uomo a sei gambe che strisciava come un aracnide sul ventre striato, e nella sua enorme testa deforme splendevano sei occhi dai colori mistici, e la bopca priva di labbra si apriva a svelare le sbarre di una prigione da cui i carcerati guardavano con occhi spenti…
Gigantesca, tridimensionale, apparentemente solida, la cosa nuotò nel fumo emesso dalla folla, si mosse al ritmo frenetico ma esatto dei Prima Lingua, mentre tutt’attorno gli edifici olografici esplodevano in geyser di polvere, seppellivano gli abitanti della città che scappavano urlando…
L’immagine olografica mosse i suoi arti squamosi, lanciò strilli orribili al ritmo della musica (e il tuono che giungeva dal palco sembrò immobilizzare quegli strilli, ricrearli di nuovo e di nuovo, secondo per secondo), devastò la città che la circondava. E Blue Drinker, mentre il suo viso cadaverico esprimeva l’apoteosi del dolore, recitò prodigiosamente un brano biblico: — …e ho visto un’altra bestia uscire dalla Terra, e aveva due corna come un capro e parlava la lingua dei draghi…
Al mostro olografico spuntarono due corna, e dalla sua bocca uscirono fiamme.
— …e causa grandi meraviglie, sicché fa scendere dai cieli il fuoco sulla Terra alla presenza degli uomini…
L’immagine olografica mostrò il fuoco che pioveva sulla bestia e sulle sue vittime.
— …e fa sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevano un marchio sulla fronte…
E le persone che si muovevano nell’ologramma, cadute in ginocchio ad adorare la bestia che sputava fuoco, ricevettero sulla fronte un marchio di numeri; e sul palco si accese, sopra la testa di Blue Drinker, una luce a fluorescenza, e sulla sua fronte apparve qualcosa che sino ad allora era invisibile: 666.
Catz batté i piedi, estasiata; Cole rise.
Cole si avvicinò di più alla ragazza e le urlò all’orecchio: — Dove sono i vigilantes che dovremmo fermare? E cosa cavolo facciamo se li vediamo?
Catz si limitò a stringersi nelle spalle. Cole non capì se si trattasse di una risposta, oppure se lo faceva semplicemente perché non riusciva a sentirlo.
La band proseguiva nel suo sound frenetico: una falange di carri armati che avanzavano sul campo di battaglia. I giri melodici erano precisi e impeccabili, ma amplificati e arrangiati con tale asprezza da farli sembrare, a un orecchio non esperto, un semplice caos di rumori. Però, come un carrarmato sembra, a prima vista, niente di più che una macchina sgraziata destinata a produrre morte, così la musica, studiata nelle sue varie componenti, si rivelava composta di un’infinità di parti perfettamente studiate e fuse l’una con l’altra. Una grande macchina musicale.
L’ampio Auditorium, costruito per ospitare fino a 55.000 persone, era dominato dall’immensa pista da ballo, in quel momento affollata sin quasi alle pareti su cui si affacciavano le poltrone della galleria. Attorno ai bordi della pista da ballo c’era un margine, molto ristretto, tenuto libero per l’eventualità di un incendio e sorvegliato da dozzine di guardiani e buttafuori. Qua e là scoppiavano risse, venivano lanciate bottiglie, esplodevano bombe lacrimogene, sicché il locale aveva più che mai l’aria di un campo di battaglia.
Sotto la galleria si aprivano tre cancelli che portavano agli ingressi principali. Dai cancelli entrò di corsa un drappello di uomini tutti vestiti con blue jeans e camicie azzurre, coi tratti del viso deformati da calze di nylon. Alcuni erano armati di pistole, altri di manichette “I vigilantes” comprese Cole, stupefatto. Lo spettacolo gli aveva fatto quasi dimenticare lo scopo per cui era lì.
Si voltò a guardare lo spazio libero attorno alla pista da ballo. I guardiani se n’erano andati tutti all’improvviso, come obbedendo a un segnale convenuto.
Urla e movimenti frenetici ai margini della folla indicava i punti in cui i vigilantes si stavano aprendo il cammino. Cole vide scoccare le scintille dai manganelli elettrici.
Catz, cautamente, lo prese per mano e lo guidò verso la fascia esterna di pubblico, verso i vigi. Ma furono costretti a lottare contro una corrente troppo forte: la folla, come un’ameba distolta dal sonno, si spostava in avanti, si allontanava dalla minaccia che aveva alle spalle, correva verso il palco e le uscite laterali.
Gli spettatori in prima fila, schiacciati contro il palco, balzarono freneticamente su, ed erano troppo numerosi perché gli inservienti riuscissero a fermarli. La band, ignorando gli angosciari e i punk che si accalcavano tutt’attorno, che correvano sul palco, si mise a suonare, come per scherzo, un pezzo di Aaron Dunbar, L’iperattivo:
Dio è morto e io voglio il suo posto
Sarò il padre divino del cosmico avamposto!
Tutti
Sono schiavi del piacere
Tutti
Sono spinti a possedere
E l’unico modo per sfuggire alla povertà
È fare dell’universo una sacra proprietà…
Dio è morto e io voglio il suo posto…
I vigi sparavano a casaccio sulla folla, quel tanto che bastava per farla diventare una mandria impazzita, per spingerla verso il palco…
— Stanno cercando di far schiacciare la band dalla folla! — urlò Catz, incredula.
Il gruppo continuava a suonare, e i visi dei musicisti erano cupi. La musica era sospesa su di loro come un mostro invisibile. Blue Drinker non smetteva di agitarsi, con movenze sempre più folli. Sembrava che si divertisse un mondo nel caos creato dai suoi nemici.
Catz e Cole si ripararono dietro un pilastro di cemento. La folla ondeggiava di continuo da destra a sinistra. Chi cadeva veniva calpestato.
I vigi misero in funzione le manichette e avanzarono verso il nucleo della folla terrorizzata.
Sul soffitto, l’immagine olografica stava cambiando…
Si abbassò, scese dalle travi metalliche del soffitto fin sopra gli spettatori. Giunse così vicina che, nonostante il panico, nessuno poté ignorarla.
Adesso l’immagine era quella di un vigilante, con la schiena decorata da stelle rosse, azzurre e bianche, che stava strangolando Blue Drinker…
“Questa è opera di Città” pensò all’improvviso Cole.
I vigi alzarono la testa, esitanti, stringendo in mano manganelli o pistole o manichette o corpi contundenti.
La folla rallentò il ritmo della fuga, guardò in su per scrutare l’immagine proiettata sul soffitto: adesso era un enorme ritratto tridimensionale di Lance Galveston, il capo del sindacato criminale. Lo riconobbero quasi tutti. E Blue Drinker, sul palco, scoppiò in una risata e fece segno alla band di continuare. La grande macchina dell’heavy-metal rock non si fermò.
Le manichette dei vigilantes avevano smesso di spruzzare schiuma. I vigi che le avevano usate abbassarono gli occhi, le guardarono, confusi.
L’immagine di Lance Galveston girò su se stessa, fissò la folla. Era un vecchio col viso rugoso e gli occhi gialli. Le sue mani tremanti slacciarono la patta dei calzoni… e Galveston urinò sulla folla. Alle sue spalle, ologrammi di vigilantes ridevano e ammiccavano.
E la musica, col suo messaggio non verbale sempre più forte, sempre più marziale, eccitò ulteriormente il pubblico…
All’unisono, la folla si girò, e, spronata dai messaggi visivi di Città, attaccò. I vigilantes indietreggiarono, caddero, corsero verso le uscite in cerca di rifugio. Qualcuno si voltò, si mise a sparare all’impazzata; una, due, tre persone tra la folla precipitarono a terra, ma tutti gli altri continuarono ad avanzare, calpestarono chi era caduto, misero le mani su chi stava sparando, li abbatterono, li linciarono in un’orgia catartica. Una rabbia repressa troppo a lungo, il risentimento inconscio per ciò che i vigi rappresentavano, scoppiarono, si proiettarono all’esterno. A uno a uno, i vigilantes vennero catturati e massacrati…
Cole corse dietro a Catz. Superarono un archivolto, percorsero un corridoio, arrivarono all’uscita sud, furono all’aperto.
Il rombo del traffico sembrava solo un debole mormorio, inconsistente, dopo le ondate di suono che li avevano travolti.
Corsero fianco a fianco nel parcheggio, evitando le automobili che si lanciavano, isteriche, sulla strada. Catz distanziò Cole: la ragazza stava correndo verso un gruppo di vigilantes in fuga, a una cinquantina di metri di distanza. L’aria della sera devastò i polmoni di Cole; le sue orecchie gemevano ancora per l’amplificazione della band.
Raggiunse Catz. Il panorama di macchine immobili si trasformò in una serie di prospettive metalliche. Cole sbuffava, il viso era in fiamme per lo sforzo.
Davanti a loro, sull’altro lato di una vecchia Cadillac nera, tre uomini si stavano ammucchiando nella cabina di guida di un camioncino Datsun azzurro, col cassone coperto da un tettuccio bianco da camper. Un modello del ’79. I fari del camioncino si accesero, il motore partì.
Correndo a testa bassa, Catz si lanciò verso il cassone del veicolo. La portiera posteriore era aperta: probabilmente i vigi avevano portato con sé altra gente, che adesso abbandonavano. Catz non ebbe difficoltà a saltare a bordo. Cole, ormai senza fiato, la seguì debolmente, cominciò a scavalcare la sponda. Era metà dentro e metà fuori quando il camioncino ebbe un sussulto e partì, scaraventandolo quasi sull’asfalto. Ma Catz lo afferrò per il colletto e lo tirò su a strattoni. Cole sbatté violentemente la tibia contro un cric, si sbucciò la gamba, lanciò un urlo di rabbia. Il retro del camioncino era scuro, ma se gli uomini che stavano in cabina di guida si fossero girati, probabilmente avrebbero visto i due passeggeri clandestini.
Cole, avanzando su mani e ginocchia indolenzite, seguì Catz sul metallo freddo del cassone.
Si fermarono in un angolo sotto il finestrino posteriore della cabina di guida: lì potevano accucciarsi sui due lati del finestrino e non essere visti.
Non avevano nemmeno un’arma. Cole tastò con le mani fra le tenebre, e le sue dita si strinsero su una sbarra di metallo.
Svoltando di continuo con stridio di gomme, il camioncino correva veloce. Fu un viaggio breve, forse cinque minuti. Il cric risuonava beffardamente.
Il veicolo rallentò, il rumore del cric diminuì, il rombo del motore diventò un ronzio sommesso. Il camioncino infilò un sentiero e si fermò. Il motore si spense. Cole si irrigidì nell’attesa, strinse forte la sbarra di metallo, attento a non muoverla per non urtare accidentalmente qualcosa. Trattenne il fiato. “È una follia” pensò. “Catz è pazza.” Le portiere del veicolo sbatterono, e la testa di Cole, ancora appoggiata sotto la cabina di guida, fu percorsa da vibrazioni dolorose.
“Forse non guarderanno qui dietro” pensò.
Udì il suono di passi che si allontanavano dal camioncino e si rilassò leggermente, si sentì più al sicuro… Finché una figura scura apparve davanti a loro e puntò direttamente sul viso di Cole il raggio accecante di una torcia elettrica.