Ognuno degli uomini presenti nella sala riunioni aveva quattro preoccupazioni. A dire il vero, in quel momento tre su sette pensavano esclusivamente alla cena: erano le diciannove e trenta di un giovedì. Gli altri quattro pensavano alla cena e anche agli impegni programmati per la serata (uno, l’avvocato, era in preda a una fantasia sessuale, e con la sinistra teneva viva l’erezione sotto i calzoni); con tutto il distacco possibile, pensavano anche al motivo di quella riunione. Erano stanchi di discutere, e l’argomento che si stava trattando era estremamente doloroso. I sabotatori. Non volevano pensare ai sabotatori (qualcuno sosteneva che si trattasse di un uomo solo, ma era impossibile che il semplice proprietario di un club fosse responsabile di un tentativo di strage, dell’omicidio di diversi vigilantes e della manipolazione di ologrammi che aveva interrotto l’“operazione concerto rock”; a parte un’altra mezza dozzina di fatti inspiegabili, compreso il massacro di uomini e vigilantes causato dall’assurda esplosione di tubature e lampioni) perché le implicazioni della cosa li spaventavano. Fino a poco tempo prima, tutto filava alla perfezione… Quindi, la discussione era passata dalle considerazioni retoriche ai battibecchi, alle ripicche petulanti, ai borbottii vaghi, per concludersi con un coro di sospiri e scrollate di spalle. Il problema, in mancanza di dati ulteriori, non aveva soluzione: bisognava accantonarlo.
Rufe Roscoe non era, naturalmente, soddisfatto dei risultati della riunione. Gli pareva di avvertire una singolare mancanza di decisione. I suoi collaboratori erano vaghi, indifferenti. Bastardi vigliacchi. Forse, rifletté, non dovevano più riunirsi in quella stanza con l’aria condizionata, lassù in alto, perfettamente al sicuro in un palazzo antisismico. Era una specie di grembo materno con vista panoramica; troppo comodo, forse. Ventotto anni fa, quando lui aveva iniziato la carriera, le riunioni si tenevano in stanze miserabili, piene del puzzo di sudore e di fumo, coi rumori del tavolo da bigliardo e della roulette che giungevano dalla stanza adiacente; quell’ambiente insicuro era servito, sempre, a ricordare a tutti che avrebbero potuto salire più in alto, essere meno esposti, ed era stata quella la molla che li aveva spinti. Proprio in una stanza di quel genere lui aveva lanciato il piano dell’imbroglio dei computer, il piano che gli aveva fatto guadagnare il primo milione di dollari.
Lì, invece? Pareti dalle tinte delicate, la musichetta che usciva da un altoparlante nascosto, uno svolazzare di nubi oltre le finestre dai vetri polarizzati… Tutti gli uomini riuniti lì, dal primo all’ultimo, si lasciavano cullare da quella gabbia compiacente, erano convinti della propria invulnerabilità, sguazzavano nella certezza che lì nessuno potesse attaccarli (e nessuno si preoccupava dei due individui mascherati che erano penetrati in una stanza identica a quella, sullo stesso piano, e avevano ucciso l’uomo venuto dall’est: erano state prese nuove misure, misure estremamente complicate, e un fatto simile non avrebbe mai potuto ripetersi). Erano sicuri.
La porta della sala riunioni, chiusa a chiave, schizzò via dai cardini e si abbatté sulla minuscola schiena orientale di Fred Golagong, spezzandola in tre punti e uccidendo all’istante Golagong.
Nonostante il panico, Rufe Roscoe pensò: “È quello che ci voleva per questi bastardi vigliacchi…”. Mentre l’uomo apparso sulla soglia (e anche se Roscoe non lo aveva mai incontrato di persona, non era uno sconosciuto: era la figura familiare uscita da un sogno bizzarro e ricorrente) correva avanti, con l’energia e la velocità di una macchina, a fracassare il tavolo. Colpi di pistola esplosero da tre direzioni diverse, uno dal corridoio esterno, e si udirono grida terrorizzate di uomini. Uno solo di quegli strilli era razionale, ed era quello di Rufe Roscoe: — Che cavolo di fine hanno fatto tutte le nostre guardie e i nostri sistemi di allarme? — Il che fu l’ultima cosa che disse in quel particolare ciclo esistenziale, dato che l’uomo con gli occhiali da sole e le braccia massicce come ponti levatoi lo uccise, pochi secondi dopo, con un solo colpo.
C’erano sette uomini da uccidere, ma occorse solo un minuto e mezzo.
La Spazzata era iniziata, e San Francisco stava facendo la sua parte.
Le otto di sera a Phoenix, Arizona. Una serata calda.
Phoenix è una città dove le imprese edilizie scavano di continuo quelle cicatrici del tessuto urbano che gli uomini chiamano cantieri. Costruzione e distruzione, persone che fanno discorsi commossi per commemorare il ciclo eterno di morte e rinascita. Si costruisce il nuovo sulle ceneri del vecchio e via dicendo, le ceneri da cui, presumibilmente, risorge la Fenice.
E, come un assurdo uccello meccanico che alzasse la testa, il robodemolitore sollevò la gru, fece ruotare lentamente la sfera da dieci tonnellate che pendeva dal cavo, proprio come un uccello dal collo molto lungo che spostasse la testa per guardarsi attorno. La macchina aveva nidificato tra le rovine di un edificio colossale, in un buco pieno a metà di calcinacci dalla forma irregolare e travi spezzate.
Nel cantiere deserto, l’edificio, demolito per tre quarti, lasciava a nudo i locali di uno degli ultimi palazzi del Diciannovesimo secolo rimasti in città. Era stato un palazzo meraviglioso, orgoglio della città: un teatro completo di angeli che reggevano le cornici delle finestre e grondaie artistiche, ornamentali. Un palazzo solido, costruito perché la buona pietra e il buon legno durassero in eterno, e avrebbe potuto sopravvivere per un altro secolo, non fosse stato per la cupidigia di un certo imprenditore edilizio… L’architetto che aveva ideato il vecchio edificio, nel 1891 si era arricciato, tutto orgoglioso, i baffi robusti davanti alla stesura definitiva del progetto. Non aveva mai previsto, e nemmeno immaginato, quel giorno, il giorno che il frutto del suo ingegno sarebbe giaciuto distrutto ai piedi di una macchina insensibile, l’assassino.
Ma, come se l’assassino avesse compreso improvvisamente quale patrimonio storico aveva distrutto, come se fosse deciso a vendicare il delitto di cui era stato arma inconsapevole, accese gli occhi elettronici e le luci e trasportò via le sue innumerevoli tonnellate di metallo dal luogo della distruzione, avventurandosi in una stradina laterale poco affollata.
Il demolitore si era risvegliato senza l’aiuto del suo programmatore, e senza istruzioni dal programmatore seguì un percorso ben preciso fra il labirinto di strade secondarie, intasando il traffico, e facendo scattare cinque diversi tipi di allarmi.
Tutti fuggivano davanti alla macchina; nessuno si fermava a discutere l’impossibile.
La destinazione del demolitore distava appena sei isolati: un palazzo nuovissimo, costruito su sei piani esagonali, con vertebre trasparenti fra un piano e l’altro che contenevano scale mobili e ascensori. Era un edificio composto quasi esclusivamente di plastivetro polarizzato e travi di cromalluminio; autosufficiente, sempre illuminato da luci soavi, fiero della propria modernità. Al primo piano di quella struttura superba, tre uomini e due donne stavano discutendo animatamente.
Uno dei cinque, Lou Paglione, continuava a colpire il piano del tavolo col palmo della mano, a sottolineare le sue parole. — Non me ne frega un accidente… — slap! — se quello pensa di essere il capoccia di tutto l’emisfero occidentale… — slap! — Deve sempre fare le cose… — slap! — secondo le… — slap! — procedure stabilite! — slap!
Rialzò la testa, infilò le mani nelle tasche dei calzoni di tweed, compiaciuto di essere al centro dell’attenzione. Probabilmente era l’individuo di aspetto più banale presente nella stanza (spalle strette, pancetta, cranio calvo, occhiali con le lenti spesse, insomma l’aria da professorucolo di scuola media), eppure tutti gli altri visi si girarono verso di lui, in rispettosa attesa.
— Il punto — disse Paglione grattandosi un orecchio — è che a voi potrà sembrare una cosa da niente, ma per me è un fatto enorme. Il signor Rufe Roscoe prende accordi per comunicare, dopo ogni riunione, con tutti i comitati direttivi cittadini. Dice che vuole trasmettere le loro ultime decisioni. Con quelli di noi che sono più vicini come fuso orario dice che parlerà direttamente. Okay! Dà queste istruzioni del cazzo con grande eleganza, con una classe che impedisce di mettersi a discutere… Okay, lasciamo perdere, però lo sa Dio se anche noi non abbiamo le nostre scadenze da rispettare… E poi se ne frega delle sue istruzioni… — Paglione agitò le mani in direzione dello schermo spento. Lo schermo serviva anche da tavolo, e attorno vi erano seduti i cinque direttori dell’Alba Ovest s.p.a., sigla fasulla dietro cui si nascondeva la malavita di Phoenix interessata all’operazione computer.
Una donna (occhi azzurri, cinici; viso da nobile viziata; parrucca bionda a mo’ di serpente arrotolato) si leccò le labbra sottilissime e ribatté: — Sarà meglio ricordarci, Lou, che Rufe Roscoe ha sempre fatto ciò che prometteva. È la prima volta… ed era anche una riunione importante. Non è da lui passarci sopra. E poi c’è il fatto che non riceviamo nessuna risposta dal suo palazzo. Insomma, dovrebbe esserci almeno qualcuno al centralino; invece, neanche quello.
Paglione fece una smorfia, annuì in direzione dello schermo azzurro-grigio. — Quindi, secondo te è andato storto qualcosa. — Ci sono diversi modi di dire è andato storto qualcosa: Paglione lo disse come per intendere: Li hanno attaccati.
— Sono corse voci su certi fatti pazzeschi — azzardò un uomo giovane. — Io, uh, non ci ho creduto; non credo mai alle voci. Però adesso non mi sembrano più così pazzesche… Sto cominciando…
Un suono strangolato gli uscì dalla gola. Il giovanotto fissava il rettangolo buio della finestra alle spalle di Paglione. Paglione si girò a guardare. — Cosa? — disse.
Il vetro della finestra era predisposto per la semiopacità, ma una cosa abbastanza grossa, abbastanza vicina, si sarebbe sempre intravista in silhouette.
— È solo un’ombra — commentò acidamente la donna, distogliendo gli occhi dalla finestra.
Ma Paglione continuò a guardare. La silhouette si ingrandiva di secondo in secondo. Era una forma mostruosa, un gigante scheletrico con un enorme pugno rotondo. Il giovanotto si alzò bruscamente, raggiunse la finestra, programmò il vetro per la trasparenza assoluta.
Paglione non sarebbe diventato il boss locale se non avesse, spesso e volentieri, dato retta al suo istinto. Quindi, non vide nemmeno il demolitore che si scagliava verso la finestra: stava già correndo in corridoio, verso l’ascensore.
Ma il giovanotto e gli altri lo videro, e ciascuno ebbe il tempo di lanciare un urlo.
La macchina era troppo imprevedibile e troppo vicina (e troppo grande) perché la riconoscessero in quell’istante, anche se si stagliava perfettamente contro lo scintillio notturno delle luci della città. Per le quattro persone che restarono nella stanza, era solo lo strumento gigantesco e oscenamente metallico che portava la morte. Prima che avessero il tempo di tirare il fiato per un secondo giro di urla, la stanza esplose: frammenti enormi di vetro e cromalluminio, di sangue e di carne a brandelli, piovvero sulla moquette azzurro cielo dell’ufficio a pianterreno.
Paglione stava scendendo al volo la scala mobile (che, essendo notte, era ferma; ma lui divorava quattro scalini alla volta). Arrivato a pianterreno, schizzò fuori dalle porte a vetro, arrivò nel parcheggio a piastrelle; poi inciampò e cadde quando il terreno sotto i suoi piedi tremò e spezzoni di assassini al silicone gli piovvero attorno. Nemmeno uno dei pezzi di vetro lo colpì in pieno. Paglione si rialzò, urlò qualcosa come: — Aaak, aughk! — e, isterico, fuggì.
Il demolitore stava abbattendo l’edificio con efficienza micidiale. La sua sfera magnetica dilaniava caparbiamente angoli, strutture portanti, squarciava il palazzo con strategia perfetta, quasi fosse in grado di pensare. Dalla sfera stessa uscivano microonde che si trasmettevano alle pareti più resistenti dell’edificio, che ammorbidivano le travature per il colpo successivo. Nel giro di un quarto d’ora, il palazzo che costava milioni di dollari, nato da quattro mesi, si era afflosciato, era precipitato come un castello di carte. L’intera città risuonò a quel crollo.
Uno dei molti pompieri che osservavano, stupefatti, dagli automezzi fermi lì davanti, fischiò piano tra sé e sé. L’uomo al suo fianco sorrise di una soddisfazione strana, sognante. — È come un sogno che ho fatto l’altra notte — disse. — Buffo…
— Sì, l’ho sognato anch’io.
L’autopompa, parte di una minuscola folla di veicoli d’emergenza accorsi alla segnalazione della presenza di un demolitore impazzito, era parcheggiata distante dagli altri; motori e luci erano spente, non c’era autista. Ma, senza autista, il veicolo partì e si spostò al centro della strada, sorprendendo i pompieri che si trovavano sulla piattaforma. Si lanciò verso la figura di un uomo che correva sul marciapiedi. Un uomo piccolo, quasi calvo, col cranio lucido inondato di sudore. L’uomo si guardò alle spalle e disse: — Aaak, aughk! — mentre l’autopompa lo travolgeva. Poi, il boss Paglione rese l’anima, e il demolitore smise di demolire e l’autopompa si fermò e una parte particolare della supermente collettiva di Phoenix ripiombò nel sonno.
Diverse centinaia di migliaia di persone, addormentate o in stato di semitrance davanti al televisore, emisero grugniti di soddisfazione. Non sarebbero mai state in grado di spiegare perché erano talmente orgogliose di sé; non sapevano cosa avessero fatto. Ma l’orgoglio c’era, un nido di parassiti era stato distrutto. Phoenix aveva fatto la sua parte.
E a Chicago… E a Sacramento… E a Portland, Seattle, Boise…
…A Manhattan, un gruppo di uomini dall’espressione cupa si stava recando a una riunione su una limousine blindata. La blindatura servì a ben poco quando la macchina, inspiegabilmente, decise di seguire un percorso di testa sua, lanciandosi nel tunnel Lincoln (cioè in una direzione assolutamente sbagliata) a centotrenta chilometri l’ora, mentre i comandi si rifiutavano di rispondere all’autista, terrorizzato. Fu appena fuori dal tunnel, in una zona più ampia, meno affollata, che si scontrarono frontalmente con un’altra limousine.
In seguito, uno spettatore descrisse l’incidente come “spettacolare”.
La seconda limousine, che a sua volta correva fortissimo e di testa propria, conteneva quattro uomini estremamente importanti di Boston, venuti lì per incontrare gli individui con cui si scontrarono. L’incontro fu consumato nel senso più profondo della parola.
…A Houston c’era una torre. Era più alta dell’Ago Spaziale di Seattle, ma in effetti era stata costruita a imitazione dell’Ago Spaziale. Non era molto diversa: semplicemente più alta, più snella, con più vetro, più moderna, cioè edificata in modo nettamente peggiore. Come l’Ago Spaziale, la cupola sporgeva per offrire una panoramica dell’incredibile profilo di Houston e del Golfo del Messico, compiendo tutto il giro in quarantacinque minuti. Quella sera il ristorante non ruotava. Era chiuso. Ed era deserto, fatta eccezione per i sette uomini e le due donne che sedevano a un tavolo, che bevevano e litigavano, che indicavano di continuo il terminale spento vicino al distributore dello zucchero. Il gruppetto dei nove non sapeva di essere solo: nessuno si era ancora accorto che tutte le guardie e il barista se n’erano andati (così come Roscoe e Paglione non avevano scoperto che i loro uomini erano stati fatti allontanare; erano rimasti solo quelli indiscutibilmente colpevoli). Era stata la città a convincerli ad andarsene.
Uno dei nove di Houston alzò una mano per chiedere silenzio e disse al barista, in tono petulante: — Jude, Cristo santissimo, ma perché mai hai messo in moto il ristorante? Mi viene il mal di mare quando questo maledetto aggeggio gira!
Gli altri, sorpresi, alzarono gli occhi verso le luci della città e scoprirono che, ah sì, il ristorante girava sul serio.
Non ci fu risposta da Jude.
— Ehi! — urlò una donna, aggrottando le sopracciglia. — Ehi… — questa volta piano. — Ehi, che merda succede? — E questo perché aveva cercato di alzarsi ed era caduta: il ristorante aveva accelerato di colpo, facendole perdere l’equilibrio. La donna non riuscì mai a rimettersi in piedi. In pochi secondi, le luci della città diventarono scie di meteoriti, poi una striscia compatta di luce. Ormai all’accelerazione di gravità uno, la cupola della torre ruotava più in fretta di quanto non potessero farla ruotare i suoi motori. Andava sempre più in fretta.
Cominciarono tutti a urlare, ma la torre (vorrei poter dire che era di un bel colore avorio, ma non lo era; peccato, avrebbe dovuto esserlo) era troppo alta sulla città perché le urla (e poi gli strilli di panico e poi i gemiti e poi i rantoli e poi niente) si potessero udire in basso, giungessero alle orecchie della popolazione che dormiva.
È sorprendente quello che una buona forza centrifuga può fare alla carne umana. Un’altra prova del fatto che l’insieme di ossa e muscoli non è poi solido come sembra…
…E a Miami… A Biloxi, Atlanta, Los Angeles, San Diego, Detroit…
— Metà della nazione è spaventata — disse Cole a se stesso — e l’altra metà è stupefatta.
— Già. C’è stato il boom delle conversioni religiose — rispose Cole. Perché Cole non stava parlando con se stesso metaforicamente. Aveva di nuovo incontrato se stesso, il se stesso disincarnato che giungeva da un’altra convergenza temporale; si erano fermati a chiacchierare a un nesso probabilistico.
Ognuno dei due sapeva cosa avrebbe detto l’altro, prima che l’altro parlasse, naturalmente. Eppure, era necessario dirlo, e ascoltare. Era una specie di liturgia.
Un Cole stava andando a vedere la propria nascita. L’altro stava andando a guardare il suo primo incontro con Catz Wailen; stava giusto tornando dall’aver visto la propria nascita (e, mentre andava a vederla, aveva incontrato se stesso che tornava dall’averla vista; è secondo questa logica che vengono concepiti i disegni dei tappeti orientali). Erano fermi sul marciapiedi davanti al club Anestesia, che era stato chiuso. Attorno a loro, la città entrava e usciva dallo stato di trasparenza, correnti temporali si incrociavano e dividevano; le persone che camminavano sui marciapiedi sembravano scie luminose proiettate da uno stroboscopio. I due Cole erano solidi, almeno l’uno agli occhi dell’altro.
— Parlando da Cole a Cole — disse uno dei due, protendendosi in avanti — la neutralità della nostra posizione non ti… non ci infastidisce?
— A volte. È vero che a livello somatico avverto pochissimo di questo piano. Se mi pizzico, sento male; ma se batto la mano sul terreno, per me è solo fanghiglia, anche se per loro è cemento. Per cui, uh, questo implica l’esistenza di un livello che io… che noi possiamo raggiungere e probabilmente raggiungeremo, un livello da cui possiamo interagire con l’ambiente in senso fisico, più pieno.
— Andremo a finire lì — convenne l’altro Cole, grattandosi il ventre nudo. Poi fece una smorfia. — Nessuno di noi due porta vestiti… Però ricordo di aver incontrato me stesso quella volta che dovevo liberare Catz dai vigilantes di Oakland, e queir… uh… io era vestito…
— Oh, in un’altra sequenza temporale relativa tu, io, decidemmo di vestirci. Capisci, i vestiti che indossavi di solito erano talmente vicini al tuo corpo che sono rimasti metapsichicamente impregnati dalle, hum, vibrazioni caratteristiche di ciò che tu e io siamo… È così che i sensitivi riescono, per esempio, a capire dove sono le persone scomparse, a ritrovarle toccando un loro indumento… C’è di mezzo l’assorbimento di elettroni con uno spin caratteristico dei campi elettrici dell’individuo… In ogni modo, possiamo indossare i vestiti che portavamo in vita, nell’altra vita, e saranno trasferiti anche loro sul nostro piano.
— Lo sapevo già — disse l’altro Cole. — Non so perché te l’ho chiesto.
Risero.
Si trovavano in un corridoio temporale la cui prospettiva mostrava il mondo attorno a loro a una velocità di frequenza superiore al normale; per questo, a indicare il passaggio dei pedoni sulle strade, c’erano quegli strani tubi a forma di uomo. Se si fossero trasferiti in un corridoio temporale con una ciclicità di eventi più lenta, avrebbero visto il mondo come lo vedevano altri uomini, un passo umano alla volta, per quanto confuso, refrattario, pluristratificato.
Attorno a loro, diversi tubi stroboscopici a forma d’uomo si erano intersecati, si agitavano dando la sensazione di un’infinità di fili che si unissero a formare un nodo color carne… — Formano gruppi del genere a ogni angolo di strada, in ogni bar, per tutta la città. Stanno discutendo la meccanica della strage dei capimafia — disse Cole a Cole. — Probabilmente finiranno col pensare a un’organizzazione umana potentissima, dotata di una tecnologia sconosciuta, che ha ucciso tutti quanti alla maniera dei vigilantes. Penseranno alla vendetta di un milionario…
— Si è trattato di un’entità umana. Ma non di quella che la gente… crederà… E ora il déjà-vu: sì, è proprio questa la spiegazione che daranno.
— Qui, i déjà-vu non sono sensazioni vaghe. Sono enormi e massicci come un cartellone pubblicitario che ti piombi sulla testa. Onde furiose di acqua gelida.
— Sapevo che l’avresti detto.
— Sapevo che l’avresti detto.
All’unisono risero. Simultaneamente presero strade diverse.
Cole camminava, ridacchiando fra sé, a fianco del proprio corpo posseduto dalla città. La Città che gli stava accanto, reale contemporaneamente su vari piani, usava il corpo abbandonato da Cole come veicolo; ma Cole trovava difficile considerare quella manifestazione di Città come una versione di se stesso, come qualcosa che possedesse ciò che era stato Stu Cole. In parte era per gli occhiali da sole che affondavano in quello che era stato il suo cranio; in parte era per i tratti del viso, duri, spietati come il muso di una locomotiva lanciata in corsa. Città indossava un’uniforme di stoffa ruvida, color cachi, e un cappello floscio. I pantaloni erano stracciati per i muri che aveva abbattuto, per i proiettili che aveva fermato. Cole indossava un comodo abito da passeggio, ed era a piedi nudi. Camminavano assieme per una strada scarsamente illuminata di San Rafael; nel buio, a Cole le cose sembravano quasi solide.
Riflettendo, si disse che non era risentito perché si erano appropriati del suo corpo. Era stato inevitabile; lui si era affidato completamente a Città. E Città non aveva responsabilità particolari. Non più di ogni altro abitante di San Francisco. Era semplicemente una manifestazione fisica delle frustrazioni inconsce che si formavano e deformavano nell’inconscio collettivo.
— Non capisco perché continuino a restare uniti, visto che i loro capi sono morti.
— Bisogno di sicurezza — rispose Città. — Il che è stupido. Non hanno il cervello di capire che i loro capi sono stati uccisi tutti in gruppo perché il fatto di essere uniti li rendeva bersagli più facili. Restano assieme perché pensano che ciò che ha ammazzato i capi vorrà ammazzare anche loro. Hanno ragione. Ma non sarebbe così se si dividessero; e invece, siccome formano un tutto unico, un nucleo cancerogeno, dovrò distruggerli. E lasciare che loro distruggano me…
— Oh? È proprio necessaria, quest’ultima parte?
Città annuì, impercettibilmente. — Come è già successo. Il sangue che feconda.
Cole disse, sognante: — Come quando ti hanno colpito con la macchina e il tuo sangue è corso sulla strada e la strada è esplosa per vendicarti… è un rito.
— Se vuoi. È necessario.
Si stava avvicinando qualcuno: una ragazzina che portava a spasso un terrier. La ragazza e il cane entravano e uscivano dalla trasparenza; i loro organi interni diventavano visibili per un attimo, i percorsi del sangue delineavano i loro corpi. Cole divideva il loro flusso temporale, li osservava in un solo posto per volta, passo dopo passo. Accanto ai due c’era un individuo solido: un uomo adulto, nudo, che piangeva. Un uomo che doveva essere sui trent’anni quando era morto, decise Cole. Superarono Cole e Città sulla destra; la ragazza spalancò gli occhi quando vide Città, ma non disse niente; il cane s’irrigidì, diede uno strattone al guinzaglio, si gettò da parte per allontanarsi il più possibile da Città. La ragazzina non vedeva Cole o l’uomo che aveva accanto. Probabilmente era suo padre, morto da poco. Era il primo spirito incarnato, a parte se stesso, che Cole incontrasse. Ma l’uomo si limitò a un cenno del capo in direzione di Cole, poi riportò gli occhi, tristissimi, sulla ragazzina. — Twyla — gemette. Lei non lo sentì, ma il cane rizzò le orecchie, si liberò, corse via col guinzaglio che strisciava sull’asfalto. La ragazzina si mise a rincorrere il cane, urlando; e il padre che le era invisibile, singhiozzando, la seguì al galoppo.
Cole provò un brivido di freddo. Per la prima volta dopo la propria morte si sentiva infelice. E, con quella sensazione, gli giunse il richiamo di un altro luogo. Quale?
— Hai intenzione di lasciarmi? — chiese Città. Nella sua voce c’era un punta di rimpianto.
— No — rispose Cole dopo un attimo. — Non ti lascerò mai. Mai, finché tu esisterai. Tra una quarantina di anni del loro tempo, la città sarà quasi morta. Il Tif e gli altri sistemi elettronici renderanno possibile il Villaggio Globale. Tutte le comunità saranno piccole, poche centinaia di persone, e prenderà forma un tipo diverso di mente collettiva. E allora tu non esisterai più, non avrai bisogno di me, e io andrò in quell’altro luogo. Adesso, in un certo senso, sono più libero. Viaggerò, dovrò andare a Chicago. Ma sarò sempre qui in un’altra linea temporale, e il primo, relativamente parlando, il primo Cole, che vivrà in sintonia con quella linea temporale, tornerà sempre da te.
Cole aveva parlato dolcemente, rassicurante. Città aveva ascoltato impassibile, continuando a camminare implacabilmente nella sera. Però aveva sentito, Lui e lei e loro, tutti coloro che erano Città, sapevano che fra loro camminava un amico invisibile.
Si fermarono di fronte a una casa stile ranch, col prato ben curato e illuminato: due pastori tedeschi, legati alla catena davanti al portico, ringhiarono. — Dev’essere questo il posto — disse Cole, secco. — Uh… Ti succederà qualcosa, qui?
— Sì. Questa è una parte della mia città. In cantina hanno un arsenale di esplosivi al plastico. Li farò detonare. Puoi entrare a goderti l’esplosione. È un’esperienza fantastica, far parte di un ciclone che non può farti male. Gloriosa.
— Tutte le esplosioni sono gloriose — convenne Cole. — Città… Perché adesso non emani musica?
— La disco? Non è più necessaria. All’inizio mi è servita per attirarti e legarti a me. Ipnosi.
— Vedo — disse Cole (anche se lo sapeva già, a un certo livello). — Ma la vera ragione per cui te l’ho chiesto…
— Vuoi la disco music? — chiese Città. — Sei un sentimentale.
— No. È solo che mi sembra giusto.
Città annuì e s’incamminò sul prato, spettrale e terribile alla luce delle lampade disseminate sull’erba. Irradiava una musica elettronica, estremamente ritmata. Cole, dalla sua nuova prospettiva, vedeva la musica. Le onde sonore s’intrecciavano a formare disegni cubisti che si adattavano perfettamente all’arrangiamento musicale.
Cole lo seguiva a qualche passo di distanza, camminando su piume e nubi.
I cani balzarono su Città non appena l’ebbero a portata di zanne. Un istante dopo, tutt’e due corsero indietro ululando. Perdevano sangue dai denti che si erano spezzati sulla pelle inattaccabile di Città.
La porta si spalancò, e un uomo con la pistola… morì, esattamente un secondo dopo aver sparato, quando Città penetrò col braccio il ventre dell’uomo, come se fosse fatto di cotone.
— Ehi, non riesco ad aprire la porta sul retro! — urlò qualcuno.
— Lascia stare — gridò qualcun altro. Cole seguì Città in casa: il soggiorno era in disordine, puzzava di sudore. Diversi uomini uscivano di corsa dalla stanza, le spalle girate verso loro due; si ammucchiavano quasi l’uno sull’altro sulla scala che scendeva in cantina.
— Quell’affare ha fatto a pezzi Billy! È un fottuto robot!
— Prendete quei maledetti esplosivi… State attenti!
— Inneschiamone qualcuno, poi usciamo dalla finestra della cantina…
— La finestra è chiusa! Non si rompe!
— Ehi, non girare quel…
Cole era a metà della scala quando la casa esplose. Cavalcò le onde d’urto e guardò le macerie che volavano via, che lo attraversavano senza fargli niente. Si chiese se fosse lui a passare attraverso loro, o loro attraverso lui.
Provò piacere nel guardare la cascata di cemento e legno e plastica e polvere e sangue. L’esplosione fu gloriosa.