Adikor Huld osservò con attenzione il robot minerario che Dern gli aveva procurato. Era un aggeggio dall'aria triste: un semplice assemblaggio di ruote dentate, pulegge e pinze automatiche, vagamente somigliante a un pino tozzo e spoglio. Sul metallo, qua e là, si vedevano chiaramente tracce di bruciato. In effetti, circa quattro mesi prima nella miniera era scoppiato un incendio. Alcuni dei componenti si erano fusi, altre parti erano rimaste danneggiate, e nell'insieme la macchina appariva annerita e fuligginosa. Dern gli aveva detto che quell'unità doveva essere demolita, quindi nessuno avrebbe indagato se fosse scomparsa.
Non fu semplice capirne il funzionamento. I robot dotati di intelligenze artificiali erano molto costosi. Quell'esemplare era azionato da un telecomando, ma i segnali radio avrebbero potuto interferire con i registri quantistici, annullando il tentativo di Adikor di riprodurre l'esperimento che aveva causato la scomparsa di Ponter. Per questo Dern aveva deciso di legare un cavo di fibra ottica al dorso del robot e collegarlo a una piccola scatola di comando, sistemata su una consolle nella sala di controllo del laboratorio. Posizionarono il robot sulla sommità del registro 69, in modo da evitarne le vibrazioni, come già aveva fatto Ponter, usando due joystick per manovrarne le mani.
«Tutto a posto?» si sincerò Adikor.
Dern annuì.
Entrambi guardarono Jasmel, che assisteva all'esperimento. «Pronti?»
«Pronti.»
«Dieci» cominciò il conto alla rovescia Adikor, in piedi accanto alla sua unità di controllo. Gridava forte i numeri, come aveva fatto la prima volta, anche se nella sala dei registri non c'era nessuno che potesse sentirlo.
«Nove.» Sperava disperatamente che l'esperimento riuscisse: per Ponter, ma anche per lui.
«Otto. Sette. Sei.»
Lanciò un'occhiata a Dern.
«Cinque. Quattro. Tre.»
Fece un sorriso di incoraggiamento a Jasmel.
«Due. Uno. Zero.»
«Ehi!» urlò Dern.
La scatola di comando cadde dalla consolle, sbatté sul pavimento e prese a scivolare, come se qualcuno avesse improvvisamente tirato con forza il cavo di fibra ottica a cui era legata.
Adikor sentì una forte ventata irrompere nella sala, ma non così violenta da fargli avvertire il contraccolpo nelle orecchie, non essendosi verificata una significativa variazione di pressione. Era come se ci fosse stato un semplice ricambio d'aria…
«Non ci posso credere» disse Jasmel, ma il vento coprì le sue parole.
Dern si fiondò per bloccare la scatola di controllo, fermando il cavo con un piede, mentre Adikor si precipitava verso l'apertura che affacciava sul piano sotterraneo dove si trovavano i registri, per controllare cosa fosse successo.
Il robot era scomparso, ma…
…ma il cavo a cui era fissato era completamente teso lungo il pavimento, dalla porta della sala di controllo a…
Scompariva accanto alla colonnina del registro 69, come nel buco di un muro invisibile, nell'aria fine.
I tre si guardarono, smarriti. Si precipitarono verso il monitor, che avrebbe dovuto mostrare quello che stava riprendendo la telecamera del robot. Ma lo schermo era vuoto, un quadrato nero.
Jasmel fu la prima a parlare: «Il robot si è disintegrato. Proprio come mio padre.»
«Chissà» disse Dern. «Potrebbe darsi che i segnali video non riescano ad attraversare quel… qualunque cosa sia quel buco lì.»
«Potrebbe anche essere che sia finito in un posto completamente buio» ipotizzò Adikor.
«Che… che dobbiamo fare?» chiese la ragazza.
Dern scrollò lievemente le spalle tondeggianti.
«Proviamo a tirare il cavo» propose Adikor. «Vediamo se torna qualcosa da… quel posto lì.» Scese nella sala dei registri, raccolse delicatamente il cavo, che a pochi passi da lui scompariva nel nulla, e cominciò a tirare piano, con tutte e due le mani.
Subito dopo sopraggiunse Jasmel, che lo aiutò a tirare.
Il cavo veniva su senza resistenza, ma tirando Adikor aveva l'impressione che alla sua estremità, da qualche parte al di là del buco, fosse attaccato un peso, come se il robot oscillasse sull'orlo di un precipizio.
«Quanto sono resistenti i connettori del cavo?» chiese lanciando un'occhiata fugace a Dern, che nel frattempo lo aveva raggiunto.
«Sono degli spinotti bedonk standard.»
«Cederanno?»
«Solo se tiri con forza. I connettori sono fissati a dei piccoli ganci di metallo.»
Adikor e Jasmel continuarono a tirare su facendo attenzione a non dare strattoni.
«E i ganci li hai chiusi?»
«Non… non ne sono sicuro» balbettò Dern. «Credo di sì.»
Avevano già recuperato almeno tre metri di cavo, quando…
«Guarda!» esclamò Jasmel.
La tozza sagoma del robot affiorava da… be', non sapevano da cosa, ma adesso era visibile la base, come se in qualche modo stesse passando attraverso un buco a mezz'aria che la sezionava trasversalmente in due parti.
Dern attraversò di corsa la sala, i risvolti dei pantaloni fruscianti sul pavimento levigato. Si protese ad afferrare uno dei bracci affusolati del robot che fuoriusciva dal varco oscuro. Fece appena in tempo, perché il connettore del cavo cedette, facendo cadere all'indietro Adikor e Jasmel. Si rimisero subito in piedi, mentre Dern recuperava il robot da… dall'altra parte.
Si precipitarono verso Dern, seduto sul pavimento con il robot rovesciato accanto. A una prima occhiata non sembrava più danneggiato di prima; ma Dern si guardava allibito la mano sinistra.
«Tutto bene?» gli chiese Adikor.
«La mano…»
«Che c'è? Una frattura?»
Dern alzò lo sguardo. «No, sta bene. Sta bene, ma… quando ho afferrato il robot… quando il cavo ha ceduto e il robot è caduto all'indietro la mia mano è finita dall'altra parte. L'ho vista scomparire attraverso… non so che cosa.»
Jasmel gli prese la mano e la studiò con attenzione. «Sembra che non ci sia niente di strano. Ti fa male?»
«Non sento niente. Ma è stato come se me l'avessero tagliata, proprio sotto le dita, la cesura era incredibilmente dritta e liscia, ma non sanguinava, e anche se era tagliata in due continuavo a muovere le dita mentre la tiravo su.»
Jasmel rabbrividì.
«Sei sicuro di star bene?» gli chiese Adikor.
Dern annuì.
Adikor si avvicinò cauto verso il luogo dove poco prima c'era l'apertura. Si chinò e tastò tutta la zona; qualunque varco si fosse aperto, adesso si era richiuso.
«Cosa è successo?» chiese Jasmel.
«Mah, proprio non lo so» rispose Adikor. «Possiamo trovare una lampadina, un fanale, qualcosa da applicare al robot?» chiese a Dern.
«Certo. Posso prenderla da un casco di protezione. Ne avete qualcuno in più?»
«Li trovi su una mensola nel cucinino.»
Dern annuì; poi alzò la mano e la fece ruotare attorno al polso, come se la vedesse per la prima volta. «Pazzesco» disse tra sé. Scosse la testa per reagire e andò a prendere la lampadina.
«Adesso sappiamo quello che è successo» disse Jasmel appena rimasero soli. «Mio padre è andato a finire dall'altra parte, qualunque cosa sia. Ecco perché non si trova il corpo.»
«Non è al livello della nostra superficie. Deve essere caduto da qualche parte giù e …»
Jasmel inarcò il sopracciglio. «E potrebbe essersi rotto l'osso del collo. Quindi… quindi quello che potremmo vedere…»
Adikor annuì. «Sì, potremmo vedere il suo cadavere. Anch'io ci ho pensato, mi dispiace, ma… a dire il vero, credevo che fosse annegato in una vasca piena di acqua pesante.» Rifletté un po', quindi si avvicinò al robot e verificò che fosse completamente asciutto. «Quando Ponter è finito dall'altra parte c'era una riserva di acqua pesante, e… gristle!»
«Che c'è?»
«Forse siamo venuti in contatto con un altro universo, non quello in cui è finito Ponter.»
Jasmel fu scossa da un tremito.
Adikor rimise in piedi il robot e verificò che il connettore non fosse danneggiato. Jasmel, a passi lenti e a capo chino, recuperò il cavo di fibra ottica, e lo diede a Adikor che lo fissò nei morsetti.
Dern tornò con due lampade elettriche, provviste di batterie, e un rotolo di nastro adesivo con cui fissò le lampade sugli occhi del robot.
Lo riposizionarono esattamente come prima, sulla sommità del registro 69, e risalirono nella sala di controllo. Adikor prese degli scatoloni da imballaggio e vi montò sopra, per poter contemporaneamente operare alla consolle e guardare alle sue spalle il registro 69.
Ancora una volta cominciò il conto alla rovescia: «Dieci. Nove. Otto. Sette. Sei. Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno. Zero.»
Questa volta vide tutto. Il varco si aprì come un cerchio di fuoco blu che si dilatava. Sentì di nuovo la folata d'aria irrompere nella stanza, e il robot, come sull'orlo di un precipizio, vacillò e scomparve nel nulla.
Si volsero all'unisono a guardare il monitor. Ancora una volta sembrava che non arrivasse alcun segnale, ma poi i raggi di luce dovettero cogliere qualcosa — vetro o plastica — perché per un attimo percepirono un riflesso. Ma non videro altro; lo spazio dove il robot dondolava come un pendolo nel vuoto doveva essere immenso.
Poi le luci illuminarono qualcos'altro: sembravano dei tubi di metallo incrociati, ma l'immagine andava e veniva, probabilmente a causa dell'oscillazione del robot.
E improvvisamente un bagliore accecante, come se…
«Qualcuno deve aver acceso le luci» disse Jasmel.
Adesso era chiaro che il robot ruotava attorno al cavo. Dal monitor colsero delle apparizioni fuggevoli di mura rocciose, e…
«Cos'è quella?» fece Jasmel.
L'avevano appena intravista: una specie di scala sulla parete incurvata di un'ampia caverna, ai cui piedi c'era una figura minuta vestita di blu.
Il robot continuava a mulinare attorno al cavo; videro una griglia geodesica sul pavimento, e nei punti di intersezione c'era qualcosa a forma di fiore.
«Non ho mai visto niente di simile» disse Dern.
«È bellissima» osservò Jasmel.
Adikor trattenne il fiato. Tutto continuava a roteare: apparve di nuovo la scala, con due figure che scendevano e che poi scomparvero a causa di quell'esasperante rotazione.
Videro altre due fuggevoli apparizioni di quelle sagome vestite in blu con dei luminosi caschi gialli sulla testa. Avevano le spalle troppo minute per essere degli uomini; Adikor pensò che fossero donne, ma erano comunque troppo esili. Le teste, che avevano appena intravisto, sembravano non avere capelli, e…
L'immagine ebbe un ultimo sussulto, poi si stabilizzò: il robot aveva smesso di roteare. Una mano l'aveva afferrato. La videro in primo piano: una mano strana, fragile d'aspetto, con il pollice corto e una specie di cerchio di metallo attorno a un dito. Era chiaro che stava stringendo il robot, tenendolo fermo. Dern maneggiava freneticamente la scatola di controllo per inclinare la telecamera verso il basso, e quando ci riuscì videro per la prima volta con chiarezza il volto dell'essere che aveva afferrato il robot.
Dern restò senza fiato; Adikor sentì un colpo nello stomaco. Era una creatura spaventosa, deforme, con la mandibola inferiore che fuoriusciva come se l'osso avesse delle escrescenze.
L'essere ripugnante stava cercando di tirare giù il robot, che pendeva a poche decine di centimetri dal pavimento del vasto ambiente.
Il robot oscillò per un attimo, e le telecamere svelarono un'apertura alla base della sfera geodesica, come se fosse stata parzialmente smontata. Sul pavimento giacevano enormi pezzi ricurvi di vetro o di plastica trasparente, ammassati l'uno sull'altro; probabilmente era per questo che la luce del robot aveva mandato dei riflessi. Montati, avrebbero formato una sfera gigantesca.
Adesso vedevano a intermittenza tre di quegli strani esseri, tutti deformi, due dei quali senza peluria sul viso. Uno di loro stava indicando il robot, il braccio simile a un ramoscello.
Jasmel mise le mani sui fianchi, e muovendo lievemente il capo avanti e indietro chiese: «Che cosa sono?»
Adikor scosse la testa sbalordito.
«Sono una specie di scimpanzé?» ipotizzò la ragazza.
«No, non credo siano scimpanzé o babbuini» disse Dern.
«Infatti,» convenne Adikor «anche se sono magri come loro. Ma non hanno i peli. Sembrano più simili a noi che alle scimmie.»
«Peccato che indossino quegli strani copricapi. Mi chiedo a cosa servano» disse Dern.
«Forse per protezione» suggerì Adikor.
«Be', se così fosse non sembrano molto utili» commentò Dern. «Se dovesse cadergli qualcosa sulla testa, sarebbe il collo e non le spalle a sopportarne il peso.»
«Non c'è traccia di mio padre» disse tristemente Jasmel.
Rimasero in silenzio per un po'. poi la ragazza aggiunse: «Lo sapete a chi assomigliano? Agli esseri umani primitivi, come quei fossili conservati nel palazzo di galdarb.»
Quelle parole fecero letteralmente vacillare Adikor, che mosse un paio di passi indietro. Prese una sedia, la girò e vi si accasciò.
«Sono dei Gliksin» annunciò, ricordando la parola. Gliksin era la regione dove erano stati rinvenuti i fossili di quei primati, gli unici che non presentavano la fronte sporgente e che avevano quelle ridicole prominenze che partivano dalla mandibola inferiore.
Era possibile che il loro esperimento li avesse portati ad oltrepassare i confini del mondo, accedendo a un universo che si era separato dal loro molto prima dell'invenzione del computer quantistico? No, non era possibile. Adikor scosse il capo. Una simile eventualità era semplicemente pazzesca. D'altra parte, i Gliksin erano estinti da… forse da mezzo milione di mesi, ma di questo non era sicuro. Si passò la mano sulla fronte, sempre più perplesso. L'unico suono nella stanza era il ronzio dei filtri dell'aria; il solo odore, il sudore e i feromoni.
«Ma è una cosa enorme» sussurrò Dern. «Gigantesca.»
Adikor annuì lentamente. «Un'altra versione della Terra. Un'altra versione di umanità.»
«Sta parlando!» esclamò Jasmel all'improvviso indicando una delle figure sullo schermo. «Alza il volume.»
Dern lo alzò. «È un vero e proprio linguaggio» disse Adikor scuotendo la testa sbalordito. «Avevo letto da qualche parte che i Gliksin non erano in grado di parlare perché avevano la lingua troppo corta.»
Ascoltarono in silenzio, anche se le parole non avevano senso.
«È così strano» disse Jasmel. «Non ho mai sentito una cosa simile.»
Il Gliksin in primo piano aveva smesso di tirare giù il robot, essendosi reso conto che il cavo a cui era attaccato era terminato. Si allontanò per far posto ad altri Gliksin. Adikor non si era subito reso conto che c'erano anche delle femmine, anch'esse senza peli sul viso, anche se aveva notato qualche maschio con la barba. Sembravano più piccole, e in alcune, sotto i panni che indossavano, si notavano le mammelle.
Jasmel si voltò a guardare il pavimento della sala dei registri. «Il varco non si è richiuso. Chissà per quanto rimarrà aperto.»
Adikor si stava chiedendo la stessa cosa. La prova che avrebbe salvato lui, il figlio Dab e sua sorella Kelon era lì davanti: un mondo alternativo! Doveva filmarlo, ma Daklar Bolbay avrebbe sicuramente sostenuto che quelle immagini erano false, una sofisticata elaborazione digitale. Dopo tutto, avrebbe detto, Adikor disponeva dei computer più all'avanguardia di tutto il pianeta.
Ma se il robot avesse portato qualcosa da quel mondo, una qualsiasi cosa! Un oggetto lavorato, o forse…
I Gliksin erano in tumulto. Sembrava trattarsi di una caverna a forma di botte, alta forse quìndici volte un individuo di statura imponente, direttamente ricavata dalla roccia.
«Devono essere un gruppo numeroso, eh?» disse Jasmel. «Ci sono esemplari dal colore della pelle diverso, e… guarda quella femmina lì! Ha i capelli arancioni, come un orangutango!»
«Guarda, uno di loro sta scappando» disse Dern indicandolo.
«Già» fece Adikor. «Mi chiedo dove stia andando.»
«Ponter! Ponter!»
L'uomo alzò lo sguardo. Era seduto a un tavolo nel refettorio dell'università Laurenziana, insieme a due ricercatori del dipartimento di fisica. Mentre mangiavano, stavano annotando una mappa dei più grandi centri di fisica del mondo, dal CERN all'Osservatorio vaticano, dal Fermilab al giapponese Super Kamiokande, l'altro grande rilevatore di neutrini, che di recente era rimasto danneggiato a causa di un incidente. A qualche metro di distanza, un centinaio di studenti seguivano la scena affascinati.
«Ponter!» gridò di nuovo Mary Vaughan, stremata, finendo quasi sul tavolo. «Vieni immediatamente!»
Ponter e i due fisici si alzarono dal tavolo. «Cosa succede?» chiese uno dei due.
Mary li ignorò. «Corri!» disse in un rantolo. «Corri.»
Gli prese la mano e cominciarono a correre. Mary aveva già il fiatone, perché dopo aver preso la telefonata dall'Osservatorio di Sudbury aveva fatto di corsa la strada dal laboratorio, situato in un altro edificio, fino al refettorio.
«Cosa succede?» chiese Ponter.
«Un varco! Un congegno — un robot o qualcosa del genere — è arrivato sino a noi. E il varco è ancora aperto!»
«Dove?»
«Giù nell'osservatorio dei neutrini.» Si portò le mani al petto ballonzolante. Sapeva che Ponter poteva correre molto più velocemente di lei. Senza rallentare, tirò fuori il borsellino, lo aprì e tirò fuori le chiavi della macchina, che offrì a Ponter. Ma l'uomo scosse lievemente la testa. Per un secondo, credette che con quel gesto volesse dirle: non vado senza di te. Ma la ragione era un'altra: Ponter Boddit non aveva mai guidato un'automobile. Continuarono a correre, lui avanti, lei dietro, ma aveva il passo lungo, era più riposato, e…
Si girò a guardarla: era inutile che arrivasse al parcheggio prima di lei. Si fermò, e così fece lei, fissandolo ansiosa.
«Posso?»
Non aveva la più pallida idea di quel che intendesse, ma annuì. Lui allungò le poderose braccia e la sollevò da terra. Gli si aggrappò al collo taurino, mentre Ponter riprendeva a correre, le gambe che spingevano come pistoni contro il pavimento piastrellato. Mary sentiva i muscoli gonfiarsi mentre andava come un treno. Ovunque, i presenti si fermavano a guardare lo spettacolo.
Arrivarono alla pista di bowling; Ponter dava fondo a tutte le sue energie, divorando la strada, il suono dei passi poderosi che risuonava nel corridoio vetrato. Sempre più veloci, passarono i chioschi, il Tim Hortons, e…
In quel momento uno studente entrava dalla porta; spalancò la bocca, ma tenne la porta aperta per farli passare.
Mary guardava dietro le spalle di Ponter; vedeva le zolle d'erba sollevarsi al loro passaggio. Serrò la stretta, reggendosi forte. Ponter conosceva bene la sua automobile; non avrebbe avuto difficoltà a scorgere la Neon rossa nel modesto parcheggio: uno dei vantaggi delle piccole università. Continuò a correre, e Mary sentì chiaramente il passaggio dall'erba all'asfalto del parcheggio.
Dopo qualche metro rallentò e l'adagiò a terra. Dopo quella pazza corsa le girava la testa, ma si costrinse a correre fino alla macchina, la chiavetta elettronica sguainata ad aprire le portiere. Si fiondarono dentro; infilò la chiave nel quadro di avviamento, schiacciò l'acceleratore a tavoletta e sgommarono via sulla strada, lasciandosi alle spalle l'università. Arrivarono a Sudbury in un battibaleno e imboccarono la strada per la miniera. Mary non era abituata a correre — non che fosse possibile, nel traffico di Toronto — ma stava percorrendo la strada sterrata a 120 chilometri all'ora.
Finalmente giunsero alla miniera, sfrecciando davanti al cartello della Inco e ai cancelli di sicurezza, sbandando sul viottolo serpeggiante che conduceva all'edificio dove erano situati gli ascensori. Frenò di botto e l'auto slittò, sollevando del pietrisco. Scesero di corsa, all'unisono.
Adesso Ponter non aveva più bisogno di aspettarla, e il tempo era fondamentale. Chi poteva dire quanto ancora sarebbe rimasto aperto il varco? O anche, chi poteva dire che fosse davvero aperto? La guardò, fece un balzo verso di lei, la strinse in un abbraccio e le disse: «Grazie, grazie di tutto.»
Mary gli si avvinghiò, più forte che poté, ma probabilmente niente in confronto a una donna Neandertal.
Poi lo lasciò andare.
E Ponter volò via.