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Il dooslarm basadlarm di Adikor Huld era stato interrotto per la cena, ma anche perché il giudice Sard voleva dargli la possibilità di calmarsi, recuperare il controllo e consultarsi con qualcuno riguardo al modo di limitare i danni che poteva procurargli l'accesso d'ira che lo aveva colto.

Quando ricominciò il dibattimento, Adikor prese di nuovo posto sulla panca destinata agli accusati.

Chi era stato quel genio, si chiese, che aveva avuto l'idea di far sedere l'accusato in modo che l'accusatore potesse girargli liberamente intorno? Probabilmente Jasmel lo sapeva. Dopo tutto studiava storia, e procedimenti di quel genere erano stati codificati in un lontano passato.

Bolbay percorse la sala a grandi passi, si sistemò al centro e fece la sua prima richiesta: «A questo punto, chiedo di recarci al Centro dell'archivio degli alibi.»

Sard lanciò un'occhiata all'orologio incastrato nel soffitto, evidentemente considerando quanto tempo avrebbe richiesto la cosa, quindi disse: «Abbiamo già accertato che l'archivio degli alibi dello scienziato Huld non ci è di nessun aiuto per scoprire il motivo della scomparsa di Ponter Boddit.» Quindi, guardando Bolbay con un certo cipiglio, aggiunse in un tono che non ammetteva repliche: «Sono sicura che lo scienziato Huld e la sua difesa saranno d'accordo che non c'è alcun bisogno di verificarlo.»

Bolbay annuì ossequiosamente. «Certamente, Vostro Onore. Ma non si tratta del cubo contenente le registrazioni degli alibi dello scienziato Huld. In realtà, vorrei che si visionasse quello di Ponter Boddit.»

«Neanche quello ci dirà qualcosa sulla scomparsa» ribatté Sard che cominciava a esasperarsi «e per la medesima ragione: tutta quella roccia ha impedito la trasmissione dei segnali.»

«Verissimo, Vostro Onore» rispose prontamente Bolbay. «Ma non si tratta della scomparsa dello scienziato Boddit. Piuttosto, vorrei mostrarvi quanto accadde duecentocinquantaquattro mesi fa.»

«Duecentocinquantaquattro!» esclamò il giudice. «E come potrebbero essere pertinenti al dibattimento cose accadute così tanto tempo fa?»

«Se accoglierà la mia richiesta credo che potrà verificare quanto lo siano.»

Riflettendo sulla strana richiesta di Bolbay, Adikor si tamburellava il pollice dritto contro la fronte. Duecentocinquantaquattro mesi erano più di diciannove anni. A quel tempo conosceva già Ponter; erano entrambi dei 145, e si erano iscritti all'Accademia nello stesso anno. Ma quale fatto accaduto allora poteva…

Si ritrovò in piedi senza volerlo. «Vostro Onore, mi oppongo a questa richiesta.»

Sard lo squadrò. «Opporsi?» disse sbigottita. «E con quali motivazioni? Bolbay non ha proposto di aprire il suo archivio degli alibi, ma quello dello scienziato Boddit. E poiché è lui a essere scomparso, l'apertura del suo archivio è qualcosa che Bolbay, in qualità di tabant dei suoi parenti stretti, ha il diritto di richiedere.»

Adikor si maledisse. Se solo avesse tenuto chiusa quella boccaccia, con ogni probabilità Sard avrebbe rigettato la richiesta. Adesso era troppo curiosa di sapere cosa voleva tenere nascosto.

«Molto bene» concluse il giudice prendendo la sua decisione. Guardò verso la folla degli spettatori e ordinò: «Voi aspettate qui finché non avrò accertato che le immagini possano essere divulgate.» Quindi spostò lo sguardo verso i diretti interessati e aggiunse: «I familiari dello scienziato Boddit, lo scienziato Huld e la sua difesa possono unirsi a noi, sempre che non si tratti di Esibizionisti.» E in ultimo, rivolta all'accusa: «Va bene, Bolbay. Mi auguro che la sua richiesta sia effettivamente pertinente.»

Sard, Bolbay e Adikor, insieme a Jasmel e Megameg che si tenevano per mano, si incamminarono lungo l'ampio corridoio ricoperto di muschio che portava al padiglione dove erano conservati gli archivi degli alibi. Durante il tragitto, Bolbay non resisté alla tentazione di lanciare una frecciata ad Adikor: «Non hai trovato nessuno che ti difenda, eh?»

Per una volta, Adikor decise di tenere la bocca chiusa.


Non erano molti quelli ancora in vita che fossero nati prima dell'adozione dei Companion: qualcuno della generazione 140 e i pochissimi della 139. Per tutti gli altri, i Companion erano un organo acquisito sin dalla nascita, quando venivano impiantati. Tra breve, in tutto il mondo sarebbero cominciate le celebrazioni per il millesimo mese dall'avvento dell'Era degli alibi.

Anche a Saldak c'erano decine di migliaia di persone nate e già decedute da quando era stato impiantato il primo Companion nel braccio del suo creatore, Lonwis Trob. Il colossale padiglione che conteneva l'archivio degli alibi, contiguo all'edificio dove si riuniva il Consiglio dei Grigi, era diviso in due ali: quella che sorgeva a sud era stata costruita a ridosso di una massa rocciosa molto antica, e poiché sarebbe stato estremamente difficoltoso ampliarla, era stata destinata a raccogliere i cubi degli alibi dei cittadini in vita, il cui numero si manteneva costante; l'ala edificata a settentrione, non più grande dell'altra ma che all'occorrenza si sarebbe potuta ampliare, conteneva i cubi degli alibi dei deceduti.

Adikor si chiese in quale delle due ali fosse conservato il cubo di Ponter. Tecnicamente, il giudice ancora non ne aveva decretato la morte, quindi si augurò che si trovasse nella zona riservata ai vivi: se fosse già stato portato nell'altra ala, temeva di perdere il controllo.

Non era la prima volta che si recava in quel posto. L'ala che sorgeva a settentrione, quella dei morti, era composta da sale separate da arcate, una per ogni generazione. La prima, molto piccola, conteneva un solo cubo, quello di Walder Shar, l'unico membro della generazione 131 ad essere ancora in vita quando erano stati introdotti i Companion. Le successive quattro sale erano progressivamente più grandi, e vi erano stati immagazzinati i cubi delle generazioni 132, 133, 134 e 135, ognuna dieci anni più giovane della precedente. A partire dalla generazione 136, tutte le sale avevano la stessa ampiezza, anche se quelle delle generazioni successive alla 144, i cui nati erano quasi tutti in vita, contenevano pochissimi cubi.

L'ala meridionale aveva invece una sola sala, dove trovavano posto trentamila contenitori nei quali erano sistemati i cubi degli alibi. Sebbene inizialmente tutto il materiale fosse tenuto in ordine, con il succedersi di nuove generazioni, ognuna delle quali suddivisa per sesso, l'ordine era andato perduto. Se era semplice ordinare i neonati in gruppi di nascita omogenei, gli adulti morivano a età differenti, per questo i cubi delle generazioni successive erano stati inseriti nei contenitori vuoti senza un ordine logico. E poiché i cubi erano più di venticinquemila — la popolazione di Saldak — era impossibile effettuare una ricerca senza un elenco alfabetico. Il giudice Sard si presentò alla Custode degli alibi, una donna corpulenta della generazione 143.

«Buongiorno, signor giudice» salutò l'impiegata, seduta dietro un tavolo a forma di rene su una sedia che sembrava una sella.

«Buongiorno» rispose Sard. «Ho bisogno di accedere all'archivio degli alibi di Ponter Boddit, un fisico della generazione 145.»

La donna annuì e bofonchiò qualcosa a un computer, il cui schermo quadrato mostrò immediatamente una serie di numeri. «Venga con me» disse; Sard e il resto della compagnia seguirono la donna.

Malgrado la mole, la custode aveva un passo agile. Li condusse attraverso una serie di corridoi, sulle cui pareti erano allineate delle nicchie, ognuna contenente un cubo degli alibi, un blocco di granito ricostituito grande quanto una testa umana. «Eccolo qua» disse la donna. «Contenitore numero 16.321: Ponter Boddit.»

Il giudice annuì, quindi mise il polso rugoso sul contenitore, con il Companion in direzione del baluginante occhio blu al centro del cubo. «Io, giudice Komel Sard, con il presente atto dispongo l'apertura del contenitore dell'alibi numero 16.321, necessaria alle indagini in corso. Registrazione dell'ora di apertura.»

L'occhio divenne giallo. Il giudice si fece da parte, e l'archivista puntò il suo Companion: «Io, Mabla Dabdalb, Custode degli alibi, con il presente atto concordo con la richiesta di apertura del contenitore numero 16.321, necessaria alle indagini in corso. Registrazione dell'ora di apertura.» L'occhio divenne rosso ed emise un segnale.

«Ecco fatto, signor giudice. Può usare il proiettore della stanza numero dodici.»

«Grazie» disse Sard, che insieme al suo seguito si diresse nella stanza loro assegnata.

La sala era un ampio quadrato, con una fila di sedili a forma di sella allineati lungo una parete, su cui presero posto tutti a eccezione di Bolbay, che si avvicinò alla consolle di controllo incastrata nel muro. Era possibile accedere agli archivi degli alibi solo da quell'edificio; e, a protezione di eventuali visioni degli alibi non autorizzate, il padiglione dove erano sistemati gli archivi era completamente isolato dalla rete di informazioni planetaria, né esistevano linee di telecomunicazione con l'esterno. Anche se era scomodo recarsi di persona a visionare le proprie registrazioni, tale isolamento era reputato una tutela adeguata.

Bolbay esaminò il gruppetto che aveva radunato, e cominciò: «Molto bene. Adesso vedremo i fatti accaduti il 146/128/11.»

Adikor annuì rassegnato. Non ricordava quello che era accaduto l'undicesimo giorno, ma la centoventottesima luna dalla nascita della generazione 146 suonava bene.

La stanza piombò nel buio, e dall'alto si materializzò una sfera appena visibile, simile a una bolla di sapone. Evidentemente Bolbay non era soddisfatta della sua grandezza: Adikor la sentì smanettare sul pannello dei comandi, aumentando gradualmente il diametro. Al suo interno comparvero tre sfere più piccole, ognuna di un colore lievemente diverso. Ognuna delle tre sfere si scisse in tre ulteriori sfere, e così via, come l'immagine accelerata di una cellula sconosciuta in un processo di mitosi. La superficie delle sfere più grandi veniva via via occupata da quella delle sfere più piccole, che assumevano sempre nuovi colori, finché il processo ebbe termine e nella prima sfera prese forma l'immagine, simile a una scultura tridimensionale composta di perline, di un giovane in piedi in una stanza a pressione positiva, adibita allo studio nell'Accademia delle scienze.

Adikor annuì; la registrazione era stata effettuata molto prima che fossero sviluppate le nuove risoluzioni fotografiche, ma tutto sommato la qualità dell'immagine era accettabile.

Bolbay continuava ad armeggiare sul pannello di controllo. La bolla ruotava in modo che tutti i presenti nella stanza potessero vedere il viso della persona inquadrata: si trattava di Ponter Boddit. Adikor aveva dimenticato com'era il suo volto da giovane. Si girò verso Jasmel, che gli sedeva accanto. La ragazza aveva gli occhi spalancati, colmi di meraviglia. Forse la colpiva il fatto che in quel tempo suo padre avesse più o meno la sua età; in effetti, quando erano state girate quelle immagini Klast era già incinta di lei.

«Ovviamente si tratta di Ponter Boddit» disse Bolbay. «Qui aveva circa la metà degli anni che avrebbe se fosse ancora vivo.» E aggiunse subito, per evitare un ennesimo rimprovero dal giudice: «Adesso andrò avanti velocemente…»

Le immagini di Ponter seduto, in piedi, che passeggiava in una stanza, consultava degli appunti, si grattava contro un palo, scorsero velocissime. Poi la porta si aprì — la pressione positiva della stanza era costruita in modo da non lasciar filtrare gli ormoni, che avrebbero potuto disturbare lo studio — e il giovane Adikor Huld fece il suo ingresso nella stanza.

«Fermi l'immagine» ordinò il giudice Sard. Quindi, rivolto ad Adikor: «Scienziato Huld, conferma che si tratta di lei?»

Adikor era mortificato nel vedersi in quelle condizioni; aveva dimenticato che per un breve periodo della sua vita aveva tagliato la barba. Ah, fosse stata quella l'unica follia della sua gioventù! «Sì, Vostro Onore,» rispose a voce bassa «sono io.»

«Bene» prese atto Sard. «Procediamo.»

L'immagine nella bolla ricominciò ad andare avanti a grande velocità. Adikor si muoveva nella stanza, come lo stesso Ponter, la cui immagine rimaneva sempre al centro della sfera.

I due giovani davano l'impressione di conversare amabilmente…

Poi un po' meno…

Bolbay mise il nastro a velocità normale.

Ponter e Adikor stavano litigando.

E poi…

… poi…

… poi…

Adikor avrebbe voluto chiudere gli occhi: il ricordo di quel fatto era stampato a fuoco dentro di lui, ma non aveva mai visto la scena da un'altra prospettiva, né l'espressione del suo volto…

Così guardò.

Si vide serrare i pugni…

… il braccio che andava indietro, i bicipiti che si indurivano…

… il braccio che scattava in avanti…

… Ponter che abbassava la testa appena in tempo…

… il pugno che colpiva la mascella…

… la mascella che s'inclinava da un lato…

… Ponter che barcollava all'indietro, e il sangue schizzargli dalla bocca…

… Ponter che sputava un dente.

Bolbay bloccò di nuovo l'immagine. Be', almeno lo aveva fatto sul primo piano di Adikor, che in quel momento mostrava un'espressione di grande rimorso, persino scioccata. Sì, adesso si era chinato per aiutare Ponter ad alzarsi. Si stava chiaramente scusando per l'accaduto, che naturalmente avrebbe potuto… uccidere Ponter Boddit, sfondandogli il cranio con quel pugno sferrato con tutta la forza di cui disponeva.

Megameg piangeva. Jasmel si era allontanata da Adikor. Il giudice Sard scuoteva lentamente il capo, incredula. E Bolbay…

Bolbay si stagliava davanti, le braccia incrociate sul petto.

«Allora, Adikor» lo avvertì «devo mostrare la scena con tutto l'audio, o ci risparmierai del tempo raccontandoci il motivo del litigio?»

Adikor era disgustato. «Quello che hai fatto non è corretto» disse a voce bassa. «Non è leale. Sono stato in cura per imparare a controllare quegli scatti violenti: regolazione dei livelli dei neurotrasmettitori; lo scultore della mia personalità lo potrà confermare. È stata l'unica volta nella mia vita che ho aggredito qualcuno.»

«Non hai risposto alla mia domanda» lo incalzò Bolbay. «Perché avete litigato?»

Adikor non rispose, limitandosi a scuotere lentamente il capo.

«Allora, scienziato Huld?» lo esortò il giudice.

«Per una cosa insignificante» rispose Adikor, lo sguardo basso sul pavimento ricoperto di muschio. «Si trattava…» respirò a fondo, poi, lentamente, raccontò tutto: «Si trattava di una discussione filosofica, sulla fisica quantistica. C'erano tante interpretazioni sui fenomeni dei quanti, ma Ponter difendeva una tesi sbagliata, come lui stesso sapeva benissimo. Io… so che mi stava solo stuzzicando, ma…»

«Ma non lo potevi sopportare» concluse Bolbay per lui. «Hai perso la testa per una futile discussione scientifica: per così poco hai colpito Ponter rischiando di ucciderlo, se solo lo avessi preso qualche centimetro più su.»

«Non è vero» si difese Adikor rivolgendosi al giudice. «Ponter mi ha perdonato, e non ha mai sporto denuncia. E senza denuncia non esiste crimine.» Quindi aggiunse in tono implorante: «È la legge.»

«Abbiamo visto tutti stamattina come Adikor riesca a controllarsi» ironizzò Bolbay. «E adesso avete visto come avesse già tentato di uccidere Ponter Boddit. Quella volta aveva fallito, e io ritengo che ci siano tutti gli elementi per supporre che in ultimo sia riuscito nell'intento, giù nel laboratorio, nascosto sotto le viscere della terra.» Fece una pausa ad effetto, quindi si rivolse a Sard. «Io credo» disse con voce soddisfatta «che la ricostruzione dei fatti sia sufficiente a disporre la trasmissione del procedimento al tribunale giudicante.»

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