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Era buio fitto.

La ventottenne Louise Benoit, ricercatrice di Montreal dai folti capelli castani raccolti, secondo le regole, in una retina, vegliava nelle tenebre dell'angusta sala di controllo, sepolta due chilometri sotto la superficie terrestre, o 'un miglio e un quarto,' come le capitava di spiegare con un accento che i visitatori americani trovavano affascinante.

La sala di controllo era situata accanto alla piattaforma collocata nell'ampia caverna buia nella quale era stato costruito anche l'Osservatorio di neutrini di Sudbury. Sospesa al centro della cavità si trovava la sfera di acrilico più grande del mondo, dodici metri di diametro, che conteneva mille e cento tonnellate di acqua pesante fornita dalla società per l'energia atomica del Canada. Il globo trasparente era avvolto da una rete geodetica di montanti di acciaio inossidabile che sostenevano 9.600 tubi fotomoltiplicatori, ognuno dei quali terminava con una parabola riflettente rivolta verso il centro della sfera. Tutto questo — l'acqua pesante, il globo di acrilico che la conteneva e la struttura geodetica che lo avvolgeva — era raccolto in una cavità a forma di botte alta dieci piani, scavata nella norite. La gigantesca caverna era riempita sin quasi alla sommità di acqua normale, purissima.

Louise sapeva bene che i due chilometri di roccia dello scudo canadese che separavano la caverna dalla superficie servivano a proteggere l'acqua pesante dall'azione dei raggi cosmici, mentre lo strato di acqua normale assorbiva le radiazioni naturali emanate dalle piccole quantità di uranio e di torio presenti nella roccia circostante, evitandone così il contatto con l'acqua pesante. In realtà, a parte i neutrini, particelle subatomiche infinitesimali che Louise stava studiando, nulla poteva penetrare sino all'acqua pesante. Ogni secondo trilioni di neutrini piombavano sulla terra, e di fatto soltanto un neutrino poteva passare attraverso un blocco di piombo dello spessore di un anno-luce e avere solo il cinquanta per cento di possibilità di entrare in collisione con qualcosa.

Eppure, poiché il sole emana un'enorme quantità di neutrini, potevano verificarsi sporadiche collisioni, e in tal caso l'acqua pesante era un bersaglio ideale. Infatti ogni nucleo di idrogeno di acqua pesante contiene un protone (il costituente ordinario di un nucleo d'idrogeno) e un neutrone. Quando un neutrino entra in collisione con un neutrone questo decade, rilasciando a sua volta un protone, un elettrone e un lampo di luce che può essere rilevato dai tubi fotomoltiplicatori.

Quando scattò l'allarme del sistema preposto alla localizzazione dei neutrini, le brune sopracciglia arcuate di Louise non si mossero. Sebbene questa fosse la cosa più elettrizzante che potesse accadere laggiù, l'evento si verificava almeno una dozzina di volte al giorno, per cui la giovane ricercatrice non alzò gli occhi dalla rivista che stava leggendo. Ma quando l'allarme suonò di nuovo, e poi ancora, stabilizzandosi infine in un suono solido, breve e acuto come il bip dell'ecocardiogramma di un moribondo, Louise si alzò dal tavolo di lavoro e si avvicinò al quadro di controllo, su cui era stata posta una foto di Stephen Hawking, che qualche anno prima, nel 1998, aveva visitato l'Osservatorio in occasione della sua inaugurazione. Louise batté leggermente le dita sulle casse del sistema di allarme per accertarsi che non si fosse verificato qualche guasto, ma il lamentoso segnale continuò a risuonare.

Da un altro ambiente dell'enorme complesso sotterraneo, Paul Kiriyama, uno studente magrissimo, irruppe nella sala di controllo. Con Louise nei paraggi, Paul si trovava sempre in grande imbarazzo, ma questa volta non gli mancarono le parole: «Che diavolo succede?» Sul quadro dei comandi tutte le lucette della griglia di novantotto per novantotto diodi fotoemittenti, che indicavano i tubi fotomoltiplicatori, erano illuminate.

«Forse qualcuno ha acceso per sbaglio le luci nella caverna» ipotizzò Louise senza crederci troppo.

Finalmente il bip prolungato cessò. Paul pigiò un paio di pulsanti, attivando cinque monitor collegati ad altrettante telecamere subacquee poste all'interno della camera di rilevamento. Gli schermi erano rettangoli neri perfetti. «Be', se le luci sono state accese, adesso sono spente. Mi chiedo cosa…»

«Una supernova!» gridò Louise battendo le dita affusolate delle mani. «Dobbiamo chiedere priorità assoluta all'ufficio centrale dei telegrammi.» Anche se l'osservatorio era stato costruito con l'intento di studiare i neutrini provenienti dal sole, era possibile localizzare anche dei neutrini provenienti da altre fonti.

Paul annuì, sedette davanti a un computer e si collegò al sito dell'Ufficio dei telegrammi. Louise sapeva che ogni evento andava comunque segnalato, anche se non si aveva la certezza della sua esatta natura.

Un nuova serie di bip risuonò dal pannello di controllo. Louise guardò il quadro dei comandi: centinaia di piccole luci illuminavano la griglia. Strano, pensò. Il sistema dovrebbe rilevare una supernova come una fonte direzionale…

«Forse c'è qualche problema nel sistema di rilevamento» ipotizzò Paul, che evidentemente era giunto alle stesse conclusioni. «O magari è saltata una delle connessioni ai fotomoltiplicatori e le altre chiudono il circuito.»

Ad un tratto s'udì un cigolio stridente, proveniente dalla porta che dava sulla piattaforma posta al di sopra della gigantesca camera di rilevamento. «Forse dovremmo accendere le luci» disse Louise. Quella specie di gemito continuava a riverberarsi nell'aria, come una bestia che brancola nel buio.

«E se si trattasse davvero di una supernova?» si chiese Paul. «Il rilevatore magnetico non funziona con le luci accese, e…»

Si udì un forte schiocco, simile al colpo secco di una pallina colpita da un giocatore di hockey. «Accendi la luce!»

Paul sollevò il coperchio posto a protezione dell'interruttore e lo azionò. Le immagini sui monitor tremolarono per un istante prima di stabilizzarsi e mostrare…

«Mon dieu!» esclamò Louise.

«C'è qualcosa nella vasca dell'acqua pesante!» disse Paul. «Ma come…»

«Lo vedi?» gli chiese Louise. «Si muove e… mio Dio, è un uomo!»

Nell'aria risuonava sempre quel gemito stridente, finché…

Lo videro nei monitor e lo sentirono al di là del muro.

Improvvisamente le giunture dell'enorme sfera acrilica cedettero. «Maledizione!» imprecò Louise, rendendosi immediatamente conto che l'acqua pesante si sarebbe mescolata con quella normale all'interno della caverna a forma di botte. Il cuore le batteva come un martello pneumatico. Per una frazione di secondo non seppe se a preoccuparla fosse più la distruzione del rilevatore o l'uomo che stava annegando lì dentro.

«Forza!» disse Paul correndo verso la porta che dava sulla piattaforma. Le telecamere, collegate ai videoregistratori, avrebbero filmato tutto.

«Aspetta» lo fermò Louise, che si precipitò nella sala di controllo, afferrò un ricevitore e digitò un numero interno preso da una lista appesa al muro.

Dopo due squilli rispose una voce dall'accento giamaicano. «Il dottor Montego? Sono Louise Benoit, dall'Osservatorio di Sudbury. Un uomo sta annegando nella camera di rilevamento.»

«Un uomo sta annegando?» fece eco Montego. «Ma come è finito lì dentro?»

«Non lo sappiamo. Faccia presto!»

«Vengo subito.» Louise riattaccò e si precipitò verso la stessa porta blu superata poco prima da Paul, che nel frattempo si era richiusa. Conosceva a memoria la scritta:


CHIUDERE LA PORTA
ATTENZIONE! CAVI AD ALTA TENSIONE
VIETATO INTRODURRE APPARECCHIATURE
ELETTRONICHE NON AUTORIZZATE
CONTROLLO QUALITÀ DELL'ARIA
ACCESSO VIETATO AL PERSONALE NON AUTORIZZATO

Afferrò la maniglia, apri la porta e si ritrovò sull'ampia piattaforma di metallo.

In un angolo c'era una botola che dava nella camera di rilevamento, sigillata dopo che i lavori erano stati ultimati. Con sua grande sorpresa, constatò che i quaranta bulloni che serravano la porta erano intatti, e… non c'era altro modo per entrare lì dentro…

Le mura intorno alla piattaforma erano ricoperte da lamine di plastica verde scuro che la isolavano dai frammenti rocciosi. Alcune postazioni di computer erano allineate lungo le pareti, altre erano sistemate su delle mensole. Il soffitto era rinforzato con lunghe travi di acciaio, dalle quali pendevano decine di condotti e tubi di polipropilene. All'estremità opposta Paul stava rovistando freneticamente su una delle mensole, forse alla ricerca di una chiave adatta a smontare i bulloni.

Il metallo strideva come in preda a tormenti. Louise corse verso la botola, pur consapevole che senza attrezzi avrebbe potuto fare ben poco per aprirla. Un tuffo al cuore: i bulloni schizzarono via come impazziti, producendo un fragore simile a una raffica di mitragliatrice. La botola rinculò con violenza sui cardini, spalancandosi con un rimbombo fragoroso. Louise tentò di spostarsi dalla traiettoria, ma fu colpita da un getto di acqua gelida che la inzuppò tutta.

La sommità della camera di rilevamento si riempì all'istante di azoto, e il getto d'acqua si affievolì subito. Louise si avvicinò all'apertura e guardò di sotto, trattenendo il respiro. L'interno era illuminato dai riflettori accesi da Paul. L'acqua era chiarissima: si vedeva il fondo, trenta metri più sotto. Dato che l'indice di rifrazione dell'acrilico è quasi identico a quello dell'acqua, la visuale non era chiara, tanto che Louise riusciva appena a distinguere l'enorme sezione concava della sfera. Le parti della struttura che adesso erano separate, ancorate al tetto con cavi di fibra sintetica, e questo aveva impedito che affondassero sul fondo della struttura geodetica. La piccola apertura della botola consentiva una prospettiva limitata, e Louise non riusciva a scorgere l'uomo che stava affogando.

«Merde!» Le luci all'interno della camera di rilevamento si erano improvvisamente spente. «Paul!» gridò. «Che stai facendo?»

A causa del rumore dei sistemi dell'aria condizionata e dello sciabordio dell'acqua presente nell'enorme caverna, la voce di Paul, proveniente adesso dalla sala di controllo, era appena percettibile. «Se quell'uomo è ancora vivo» gridò di rimando «vedrà le luci della piattaforma attraverso la botola.»

Louise annuì. In effetti, l'unica cosa che un essere umano avrebbe potuto vedere da lì sotto, nell'immenso soffitto buio, era la luce che filtrava da un'apertura quadrata larga un metro.

Un attimo dopo Paul le era accanto. Louise si voltò a guardarlo, poi tornò a scrutare giù nella botola. Ancora nessun segno dell'uomo. «Uno di noi dovrebbe scendere laggiù» disse.

Paul sgranò gli occhi a mandorla. «Ma… l'acqua pesante…»

«Non c'è altro da fare» incalzò. «Tu sai nuotare?»

Paul era in evidente imbarazzo. La ragazza sapeva bene che l'ultima cosa che avrebbe voluto era fare una figuraccia con lei, ma… «Appena» rispose Paul abbassando lo sguardo.

Era già ridicolo stare sepolti laggiù con quel tipo a sbavargli dietro tutto il tempo, mancava solo che dovesse spogliarsi davanti a lui. Ma non sarebbe stato facile nuotare con quella tuta d'ordinanza in nylon blu, sotto la quale, come tutti quelli che lavoravano lì, non aveva che la biancheria intima, dato che la temperatura era di 40.6 gradi. Bando alle ciance: si tolse le scarpe e aprì la lampo sul davanti della tuta; grazie a Dio quel giorno aveva indossato il reggiseno, anche se sarebbe stato meglio che non fosse di pizzo.

«Riaccendi le luci» gli disse. Per lo meno il ragazzo obbedì subito. Prima ancora che fosse tornato, si era già calata nell'acqua gelida, mantenuta a una temperatura di 10 gradi per evitare la formazione di microrganismi e per ridurre il rumore prodotto dai tubi fotomoltiplicatori.

Vide il fondo sotto di sé, lontanissimo. Fu avvolta da un'ondata di panico, ed ebbe l'improvvisa sensazione di trovarsi… in un luogo remoto. Galleggiava supina, con la testa e le spalle ancora al di qua della botola, aspettando che la paura scemasse. Quando si sentì più calma tirò tre lunghi respiri, serrò la bocca e si immerse.

Adesso vedeva chiaramente, senza alcun fastidio agli occhi. Si guardò intorno, cercando di localizzare l'uomo, ma l'acqua era cosparsa di pezzetti di acrilico, e…

Eccolo.

Il corpo era emerso nello spazio — non più di quindici centimetri — tra la superficie dell'acqua e il tetto che separava la camera di rilevamento dalla piattaforma, normalmente pieno di azoto allo stato puro. Respirarne alcune boccate era fatale: il poveraccio doveva essere morto. Probabilmente aveva lottato per raggiungere la superficie, pensando di trovare l'aria, e invece era finito ucciso dal gas inalato: una ben triste ironia. Sicuramente dalla botola aperta era filtrata dell'aria respirabile, mescolandosi con l'azoto, ma forse era accaduto troppo tardi.

Louise spinse di nuovo la testa e le spalle al di qua della botola. Incrociò lo sguardo di Paul, che aspettava che gli dicesse qualcosa — qualsiasi cosa. Ma non c'era tempo da perdere. Incamerò più aria che poté e s'immerse di nuovo. Non c'era spazio sufficiente a tenere la testa fuori dall'acqua per via delle travi di metallo che fuoriuscivano dalla sommità. Il corpo dell'uomo era a circa dieci metri da lei. Batté forte i piedi, nuotando il più velocemente possibile, e…

Una macchia nell'acqua. Qualcosa di scuro.

Mon dieu!

Era sangue.

La testa dell'uomo era avvolta da una massa scura che ne occultava la vista. Il corpo era immobile; se era ancora vivo, aveva perduto i sensi.

Cacciò la testa fuori dall'acqua e respirò con cautela — ma adesso l'aria era respirabile -, quindi afferrò un braccio dell'uomo, facendone ruotare il corpo con il viso verso l'alto, in modo che potesse respirare. Ma non dava segni di vita.

Trascinarlo fu molto faticoso: il corpo robusto era completamente vestito, e gli abiti inzuppati lo appesantivano ancora di più. Non ebbe tempo di notare i particolari, vide solo che non indossava la tuta da lavoro né gli stivali di ordinanza. Non era un minatore che lavorava nella miniera di nickel, e anche se ne aveva appena scorto il viso — un bianco con la barba biondiccia — non doveva trattarsi nemmeno di qualcuno dello staff dell'osservatorio.

Ecco la botola. Vide la testa di Paul immersa, che la osservava trascinare il corpo. In situazioni del genere, prima di uscire dall'acqua avrebbe sollevato il corpo del ferito, ma attraverso quel pertugio poteva passare solo un corpo per volta, e comunque per issare un uomo così grosso aveva bisogno dell'aiuto di Paul.

Lasciò andare il braccio dell'uomo e infilò la testa nella botola, che Paul nel frattempo aveva lasciato libera. Respirò a fondo, esausta per lo sforzo, quindi poggiò le mani sul pavimento umido per tirarsi su. Paul si chinò ad aiutarla e una volta fuori si diedero da fare per recuperare il corpo che galleggiava mollemente alla deriva. Dopo qualche tentativo riuscirono a tirarlo su. Aveva una ferita ancora sanguinante su un lato della testa.

Paul si chinò per praticargli la respirazione bocca a bocca, fermandosi di tanto in tanto con le guance arrossate a controllare se l'ampio torace ricominciasse a muoversi. Contemporaneamente, Louise gli tastava il polso, che non dava segni di… un momento! Ecco! C'era stato un battito.

Paul continuò a insufflare aria nel corpo, finché l'uomo cominciò a boccheggiare e a vomitare acqua. Il ragazzo distolse lo sguardo dal liquido che, fuoriuscendo, si mescolava al sangue e lo trascinava via.

Ma lo sconosciuto non aveva ancora ripreso conoscenza. Seminuda, completamente inzuppata e infreddolita, Louise cominciò a sentirsi a disagio. Si infilò a fatica la tuta e chiuse la lampo, sentendosi addosso lo sguardo di Paul.

Il dottor Montego non sarebbe arrivato subito: l'osservatorio si trovava due chilometri al di sotto della superficie, e l'ascensore più vicino era quello del pozzo numero 9, che distava più di un chilometro. Anche nel caso in cui la cabina si fosse trovata in superficie — e poteva non esserlo — sarebbero trascorsi ancora una ventina di minuti.

Pensando di svestire l'uomo per liberarlo dagli abiti bagnati, Louise si chinò su di lui ma… la camicia antracite non aveva bottoni né chiusura lampo. Non sembrava un pullover, anche se non aveva il collo e… ma eccoli, dei bottoncini nascosti sulla sommità delle larghe spalle. Cercò di sganciarli, senza riuscirci. Guardò i pantaloni verde oliva, forse più scuri del loro colore naturale perché impregnati d'acqua, ma di cinture nessuna traccia. C'era solo una fila di bottoncini e piccole pieghe attorno alla vita.

Louise si rese improvvisamente conto che l'uomo poteva aver subito dei danni a causa della pressione dell'acqua. La camera di rilevamento era profonda dieci metri: quanto era andato sotto e quanto velocemente era risalito in superficie? La pressione dell'aria a quella profondità era del 130 per cento in più rispetto alla norma, e la ragazza si chiese se questo modificasse anche la pressione dell'acqua: di certo l'uomo aveva bisogno di una maggiore quantità di ossigeno di quella necessaria in superficie.

Non si poteva far altro che aspettare. Adesso l'uomo respirava, e il polso si era stabilizzato. Per la prima volta osservò con attenzione il viso dello sconosciuto: ampio ma non piatto, con gli zigomi angolosi e il naso gigantesco grande quanto un pugno. Gli occhi larghi erano chiusi; la mandibola era ricoperta da una barba biondo scuro, e lisci capelli biondi nascondevano la fronte. Le caratteristiche fisionomiche ricordavano quelle delle razze dell'Europa orientale, ma con un colorito scandinavo piuttosto che olivastro.

«Come avrà fatto a entrare?» chiese Paul, seduto a gambe incrociate accanto al corpo che giaceva senza conoscenza. «Nessuno avrebbe potuto, e…»

Louise annuì. «E anche se fosse riuscito ad arrivare quaggiù, come ha fatto a entrare nella camera sigillata?» chiese a sua volta, accorgendosi, mentre scostava i capelli dalla fronte, di aver perso la retina. «Lo sai, l'acqua pesante non è più utilizzabile. Se sopravvive saranno cavoli suoi, con la causa che gli intenteranno.»

Scosse la testa senza volerlo. Chi era quell'uomo, ad ogni modo? Un nativo canadese fanatico? Un indiano che pensava che la miniera violasse qualche luogo sacro? Però aveva i capelli biondi, cosa rara per i nativi. E non poteva essere lo scherzo malriuscito di uno sbarbatello, perché quel tipo doveva avere almeno trentacinque anni. Forse era un terrorista, o un dimostrante che si batteva contro il nucleare, ma laggiù non si facevano esperimenti nucleari, anche se la società per l'energia atomica del Canada aveva fornito l'acqua pesante. Chiunque fosse, rifletté Louise, in caso di morte sarebbe stato il candidato favorito per il premio Darwin. Era un classico caso di un processo evolutivo in pieno corso di svolgimento: un tizio che faceva qualcosa di talmente stupido da costargli la vita.

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