Lo so, lo so… pareva pazzesco che l’alieno fosse giunto a Toronto. Certo, la città attira il turismo; ma si penserebbe che una creatura di un altro mondo punti sulle Nazioni Unite o forse su Washington. Klaatu non andò a Washington, nel film di Robert Wise, Ultimatum alla Terra?
Naturalmente si potrebbe anche ritenere pazzesco che il regista di West Side Story abbia fatto un buon film di fantascienza. In realtà, ora che ci penso, Wise ha fatto tre film di fantascienza, ciascuno meno appassionante del precedente.
Ho divagato. Mi accade spesso, negli ultimi tempi, e mi scuso. No, non sono i primi segni di demenza senile: ho cinquantaquattro anni appena, santo cielo. Ma a volte il dolore rende difficile concentrarsi.
Parlavo dell’alieno.
E del perché giunse a Toronto.
Ecco tutta la storia…
La navetta dell’alieno atterrò davanti all’ex planetario McLaughlin, che si trova proprio accanto al Royal Ontario Museum, dove lavoro io. Ho detto “ex” perché quel taccagno di Mike Harris, premier dell’Ontario, ha tagliato i finanziamenti per il planetario. Ha deciso che i ragazzi canadesi non devono sapere niente dello spazio: un vero progressista, Harris. Una volta chiuso, il planetario fu affittato per un’esposizione pubblicitaria di Star Trek, con una copia del classico ponte dell’astronave posta nella sala d’osservazione delle stelle. Per quanto mi piaccia Star Trek, non riesco a immaginare un peggiore commento alle priorità educative canadesi. In seguito quell’area era stata presa in affitto da varie imprese del settore privato, ma in quel momento era deserta.
Forse era ragionevole che un alieno visitasse un planetario, ma in realtà quella creatura voleva proprio andare al museo. Un bene, in fin dei conti: pensate alla brutta figura che avrebbe fatto il Canada se l’ambasciatore extraterrestre, stabilito il primo contatto sul nostro territorio, avesse bussato alla porta e non avesse trovato nessuno in casa. Il planetario, con la bianca cupola che lo fa assomigliare a un gigantesco igloo, sorge di parecchio rientrato rispetto alla via, quindi ha davanti un vasto spiazzo di cemento… perfetto, per l’atterraggio di una piccola navetta spaziale.
Non ho assistito di persona all’atterraggio, anche se ero proprio nell’edificio accanto. Ma tre turisti e un mio concittadino hanno registrato su videocassetta l’avvenimento e le televisioni lo hanno trasmesso in tutto il mondo per parecchi giorni. La navetta era a forma di cuneo, sottile come la fetta di torta che prende chi finge di stare a dieta. Tutta nera, non aveva sistemi di scarico visibili ed era scesa silenziosamente dal cielo.
Era lunga forse trenta piedi. (Sì, lo so, in Canada si usa il sistema metrico decimale, ma io sono nato nel 1946: non credo che quelli della mia generazione, anche se scienziati come me, si siano facilmente adattati alla novità; cercherò di correggermi.) Lo scafo della navetta, anziché essere coperto di automatismi assortiti, come ogni nave spaziale di ogni film da Guerre stellari in poi, era completamente liscio. Appena la navetta si posò al suolo, nella fiancata si aprì un portello. Rettangolare, più largo che alto. Scivolò in su… immediato indizio che l’occupante quasi certamente non era umano: gli esseri umani fanno di rado portelli di quel tipo, considerando quant’è vulnerabile la testa.
Dopo qualche secondo uscì l’alieno. Pareva un gigantesco ragno bruno-dorato; aveva corpo sferico, delle dimensioni di un grosso pallone da spiaggia, e arti che sporgevano da tutte le parti.
Davanti al planetario, una Ford Taurus tamponò una Mercedes marrone: i rispettivi guidatori erano rimasti a bocca aperta davanti allo spettacolo. C’erano diversi passanti, che parvero stupefatti, più che atterriti, anche se alcuni si precipitarono giù per le scale della stazione della metropolitana, che ha due uscite davanti al planetario.
Il ragno gigante percorse la breve distanza che lo separava dal museo; il planetario era una sezione del rom e perciò i due edifici erano collegati da un camminamento soprelevato all’altezza del primo piano, mentre al livello stradale erano separati da un vicolo. Il museo fu costruito nel 1914, molto tempo prima che si cominciasse a parlare di problemi d’accessibilità. Nove larghi gradini portano alle sei porte a vetri principali; solo molto più tardi è stata aggiunta una rampa per disabili. L’alieno si fermò un momento, come per decidere quale via d’accesso prendere. Scelse la scalinata: le ringhiere della rampa erano un po’ troppo vicine per consentirgli un comodo passaggio, visto quanto sporgevano i suoi arti.
In cima alla scalinata, rimase di nuovo perplesso. Probabilmente viveva in un tipico mondo fantascientifico, pieno di porte che si aprono da sole. Adesso aveva di fronte la fila di porte a vetri; per aprirle, bisogna tirare, usando le maniglie tubolari, ma l’alieno pareva non capirlo. Subito dopo il suo arrivo, però, un ragazzo uscì dal museo e sulle prime non si rese conto di che cosa accadeva; poi, nel vedere l’extraterrestre, lanciò un grido di stupore. L’alieno, con calma, bloccò con un arto il battente aperto (adoperava sei arti per camminare e due, adiacenti, come braccia) e riuscì a entrare nel vestibolo. Si trovò davanti, a breve distanza, una seconda serie di porte a vetri: una intercapedine simile alle camere d’equilibrio, che permetteva un certo controllo sulla temperatura interna del museo. Capito ormai il funzionamento delle porte terrestri, l’alieno aprì una di quelle interne ed entrò nella Rotonda, l’ampio atrio ottagonale del museo caratteristico del rom, tanto che la rivista trimestrale riservata agli operatori del museo era chiamata “Rotonda” in suo onore.
Sul lato sinistro della Rotonda c’era la sala d’esposizione Garfield Weston, usata per mostre speciali; al momento ospitava la mostra di fossili del Burgess Shale, alla cui organizzazione avevo collaborato. Le due migliori raccolte mondiali di scisti fossiliferi si trovavano al rom e allo Smithsonian Institute; i due musei però di norma non le esponevano al pubblico. Avevo combinato di metterle insieme temporaneamente per esibirle prima qui, poi a Washington.
L’ala del museo a destra della Rotonda era stata un tempo la nostra rimpianta sala Geologia, ma ora ospitava negozi di articoli da regalo e una gastronomia Druxy… uno dei tanti sacrifici fatti dal rom, sotto la direzione di Christine Dorati, per divenire un’“attrazione”.
L’alieno comunque andò rapidamente in fondo alla Rotonda, tra il banco delle ammissioni e quello di assistenza per i soci. Non ho visto di persona neppure questa parte, ma la scena fu registrata da una telecamera della sicurezza; per fortuna, perché altrimenti nessuno ci avrebbe creduto. L’alieno arrivò, camminando di sghembo, davanti all’agente della sicurezza in blazer blu (Raghubir, un sikh brizzolato e affabile, da una vita alle dipendenze del rom) e disse in perfetto inglese: — Mi scusi, vorrei vedere un paleontologo.
Raghubir sgranò gli occhi, ma si riprese in fretta. Più tardi disse d’avere pensato a uno scherzo. A Toronto girano molti film e, per chissà quale motivo, una quantità enorme di serie televisive di fantascienza, comprese, negli anni, cose come Gene Roddenberry’s Earth: Final Conflict, Ray Bradbury Theater e la rinata Twilight Zone. Raghubir pensò che fosse una comparsa in costume o un aggeggio scenico animato. — Che tipo di paleontologo? — disse, impassibile, per stare allo scherzo.
Il corpo sferico della creatura ballonzolò. — Un paleontologo piacevole, immagino — rispose l’alieno.
Nel video si vede il vecchio Raghubir tentare, senza riuscirci appieno di tenere a freno un sorriso. — Volevo dire, vuole un invertebrato o un vertebrato?
— Non tutti i vostri paleontologi sono umani? — domandò l’alieno. Parlava in modo curioso, ma ci arriveremo. — Ci sarebbero quindi anche i non vertebrati?
Lo giuro, è tutto nel video.
— Sono tutti umani, naturalmente — disse Raghubir. Intanto si era radunata una piccola folla di visitatori e un altro gruppo, per quanto non inquadrato, di sicuro guardava dalla galleria interna del piano superiore la scena che si svolgeva sul lucido pavimento di marmo della Rotonda. — Alcuni però si specializzano in fossili di vertebrati e altri di invertebrati.
— Oh — disse l’alieno. — Una distinzione artificiosa, a mio parere. Uno qualsiasi andrà bene.
Raghubir prese il telefono e compose il numero del mio interno. Su nel Centro Amministrativo, nascosto dietro l’orripilante nuova Galleria Inco Limited di Scienze Terrestri (la quintessenza del modo in cui Christine vede il rom) risposi all’apparecchio. — Jericho.
— Dottor Jericho — disse Raghubir, con la sua particolare inflessione — c’è qui un tale che desidera vederla.
Rivolgersi a un paleontologo non è come chiedere un incontro con un alto dirigente, certo, e preferiremmo che si prendesse un appuntamento, ma siamo dipendenti pubblici, lavoriamo per quelli che pagano le tasse. Tuttavia… — Chi è?—domandai.
Raghubir esitò. — Penso sia meglio che venga a vedere di persona, dottor Jericho.
Bene, il cranio di Troodonte che Phil Curie ci aveva spedito dal museo Tyrrell aveva aspettato pazientemente settanta milioni di anni; poteva aspettare ancora qualche minuto. — Arrivo — dissi. Lasciai l’ufficio e scesi, passando davanti alla Galleria Inco… Dio, quanto la odio, con gli insultanti murales a fumetti, il gigantesco vulcano finto e il pavimento che vibra… e attraversai la Galleria Currelly, entrai nella Rotonda e…
Oddio.
Oh, Cristo!
Rimasi impietrito.
Forse Raghubir non riconosceva la differenza fra la carne vera e un costume di gomma, ma io sì. La creatura ferma accanto al banco d’ammissione era un’autentica entità biologica. Non ne avevo il minimo dubbio. Era una forma di vita…
Avevo studiato la vita sulla Terra fin dalle origini, nel cuore del precambriano. Avevo visto spesso fossili che rappresentavano nuove specie o nuovi generi, ma non avevo mai visto alcun animale di grandi dimensioni che rappresentasse un phylum del tutto nuovo.
Fino a quel momento.
La creatura era indubbiamente una forma di vita e, altrettanto indubbiamente, non si era mai evoluta sulla Terra.
Ho già detto che pareva un grosso ragno; così l’avevano descritta quelli che per primi l’avevano vista, dal marciapiede. Ma era molto più complessa di un ragno. Malgrado la superficiale somiglianza con gli aracnidi, l’alieno aveva chiaramente uno scheletro interno. Gli arti erano coperti di pelle piena di bolle, che rivestiva la muscolatura rigonfia: non erano certo le sottili zampe dell’esoscheletro di un artropode.
Ogni moderno vertebrato terrestre ha quattro arti (oppure, come nel caso dei serpenti e dei cetacei, si è evoluto da una creatura che li aveva) e ogni arto termina in non più di cinque dita. Gli antenati di quella creatura erano chiaramente sorti in un altro oceano, su un altro pianeta: l’alieno aveva otto arti, disposti radialmente intorno al corpo centrale, e due degli otto servivano da mani e terminavano in sei dita a tripla articolazione.
Sentivo il cuore battere forte e avevo difficoltà a respirare.
Un alieno!
E senza dubbio un alieno intelligente! Il corpo sferico della creatura era nascosto da un indumento, quella che pareva una lunga striscia di stoffa azzurro vivo, avvolta varie volte intorno al tronco, passando fra un arto e l’altro per lasciarli sporgere. I lembi dell’indumento erano chiusi, fra le braccia, da un disco adorno di pietre preziose. Non mi è mai piaciuto portare la cravatta, ma so fare il nodo e ci riesco anche senza guardarmi allo specchio (meglio così, di questi tempi): nell’indossare ogni mattina quel suo indumento, probabilmente l’alieno trovava le stesse difficoltà che ho io ad annodarmi la cravatta.
Dai lembi di stoffa sporgevano anche due sottili tentacoli che terminavano in quelli che forse erano occhi: due globi iridescenti ricoperti di un rivestimento duro, cristallino. Quei due peduncoli ondeggiavano lentamente avanti e indietro, si avvicinavano e poi si allontanavano molto l’uno dall’altro. Mi domandai quale fosse la profondità di percezione di quella creatura: non c’era distanza fissa, tra i suoi due globi oculari.
L’alieno non parve minimamente allarmato dalla mia presenza o da quella delle altre persone nella Rotonda, anche se faceva ballonzolare un poco il tronco, in quello che mi augurai non fosse ostentazione di possesso territoriale. A dire il vero, era un movimento quasi ipnotico: lentamente il tronco si sollevava e si abbassava, mentre le sei zampe si flettevano e si rilassavano e i peduncoli oculari si avvicinavano e si allontanavano. Ancora non avevo visto il video della conversazione fra l’alieno e Raghubir; pensai che forse si trattava di un tentativo di comunicare, un linguaggio di movimenti del corpo. Forse, mi dissi, avrei dovuto flettere le ginocchia e addirittura (trucco imparato al campeggio estivo una quarantina d’anni prima) incrociare e disincrociare gli occhi. Ma le telecamere della sicurezza ci inquadravano: se la mia ipotesi era sbagliata, avrei fatto la figura dell’idiota nei notiziari di tutto il mondo. Eppure dovevo fare qualche tentativo. Alzai la destra, palma in fuori, in un amichevole gesto di saluto.
L’alieno copiò subito il mio gesto: piegò un braccio in uno dei due punti d’articolazione e allargò le sei dita all’estremità. E poi accadde una cosa incredibile. Una fessura verticale si aprì nel segmento superiore delle due gambe più vicine a me e dalla fessura di sinistra provenne la sillaba “sal” e da quella di destra, in tono lievemente più basso, la sillaba “ve”.
Rimasi a bocca aperta; dopo un istante, lasciai ricadere la mano.
L’alieno continuò a ballonzolare e a muovere avanti e indietro i peduncoli oculari. Riprovò: dalla gamba sinistra provenne “bon” e dalla destra “jour”.
Era un’ipotesi ragionevole: la maggior parte dei cartelli del museo sono in due lingue, inglese e francese. Scossi leggermente la testa, incredulo, poi cominciai ad aprire bocca (e non ho idea di che cosa stessi per dire) ma la chiusi subito, non appena l’alieno parlò di nuovo. Le sillabe rimbalzarono dalla bocca sinistra e dalla bocca destra, come una pallina in una partita di ping-pong: “Auf “Wie” “der” “sehen”.
E a un tratto ritrovai la voce: — In realtà, auf Wiedersehen significa “arrivederci”, non “salve”.
— Oh — disse l’alieno. Alzò due arti in quella che poteva essere una scrollata di spalle, poi continuò col rimbalzo di sillabe da una bocca all’altra: — Il tedesco non è la mia lingua principale.
Rimasi troppo sorpreso per sorridere, ma mi rilassai (un poco, almeno) anche se il cuore continuava a battermi all’impazzata. — Sei un alieno — dissi. Dieci anni di studi universitari, pensai, per avere la laurea in Banalità Comparate…
— Esatto — confermarono le gambe-bocche. Le voci parevano maschili, ma solo quella della bocca di destra aveva un vero tono di basso. — Perché poi usare termini generici? Appartengo alla razza forhilnor e mi chiamo Hollus.
— Uh, piacere di conoscerti.
Gli occhi ondeggiarono avanti e indietro, in attesa.
— Ah, scusa. Appartengo alla razza umana.
— Lo so. Homo sapiens, come direbbero i vostri scienziati. Ma il tuo nome personale…
— Jericho. Thomas Jericho.
— È consentito abbreviare Thomas in Tom?
Rimasi stupito. — Come mai sai tante cose sui nomi della razza umana? E, diavolo, come fai a conoscere l’inglese?
— Studio il vostro mondo. Per questo sono qui.
— Sei un esploratore?
I peduncoli oculari si avvicinarono e rimasero ravvicinati. — Non esattamente — fu la risposta.
— Cosa, allora? Non… non sarai un invasore, vero?
I peduncoli oculari si incresparono in un movimento a S. Forse l’equivalente di una risata?
— No — disse Hollus. Allargò le braccia. — Chiedo scusa, ma voi possedete ben poco che io o i miei associati possiamo desiderare. — Esitò, come se riflettesse. Poi mosse la mano in un gesto, come per indicare di girarmi. — Naturalmente, se vuoi, posso farti una sonda anale…
Dalla piccola folla radunata nel vestibolo provenne un ansito. Tentai di inarcare le sopracciglia che non ho più.
I peduncoli oculari si incresparono di nuovo. — Scusami… scherzavo. Voi umani avete davvero pazzesche mitologie sulle visite di extraterrestri. Onestamente, non farò del male a voi… né al vostro bestiame, se è per questo.
— Grazie. Ah, hai detto di non essere un esploratore.
— Infatti.
— E nemmeno un invasore.
— No.
— Allora cosa sei? Un turista?
— Tutt’altro. Sono uno scienziato.
— E volevi parlare con me?
— Non sei un paleontologo?
Annuii. Poi mi resi conto che poteva non capire il significato del cenno e spiegai: — Sì. Paleontologo specializzato in dinosauri, per la precisione. I Teropodi sono il mio campo.
— Allora, sì, voglio parlare con te.
— Perché?
— Non c’è un posto dove parlare in privato? — disse Hollus, con un movimento dei peduncoli oculari che includeva tutti coloro che si erano radunati intorno a noi.
— Ah, sì, certo — risposi. Ero sbalordito, mentre lo guidavo nel museo. Un alieno, un autentico alieno. Sorprendente, davvero sorprendente!
Oltrepassammo le scalinate gemelle, ciascuna delle quali girava intorno a un enorme totem, quello dei Nisga a destra, che arriva a ottanta piedi… scusate, venticinque metri… dal basamento al lucernario del terzo piano, e l’altro degli Haida, più basso, sulla sinistra. Entrammo nella Galleria Currelly, con le semplificate bacheche orientative, tutto fumo e niente arrosto. Era un fine settimana d’aprile, il museo non era affollato e per fortuna non incrociammo gruppi di studenti durante il tragitto fino al Centro amministrativo. Tuttavia i visitatori e le guardie della sicurezza si girarono a fissarci e alcuni emisero esclamazioni al nostro passaggio.
Il Royal Ontario Museum fu aperto quasi novant’anni fa. E il più grande museo del Canada e uno dei pochi musei interdisciplinari del mondo. Come proclamano le incisioni su calcare poste ai lati dell’ingresso, il nostro compito è preservare “la testimonianza della Natura nel corso d’innumerevoli epoche” e “le arti dell’uomo nel corso degli anni”. Il rom ha gallerie dedicate alla paleontologia, all’ornitologia, alla mammalogia, all’erpetologia, all’arte tessile, all’egittologia, all’archeologia grecoromana, ai manufatti cinesi, all’arte bizantina e ad altro. L’edificio ha mantenuto a lungo l’originale pianta a H,ma nel 1982 i due spazi vuoti sono stati riempiti con sei piani di nuove gallerie a nord e con i nove piani del Centro amministrativo a sud. Sezioni di muro che un tempo davano sull’esterno adesso si trovano all’interno e l’ornata pietra in stile vittoriano dell’edificio originale ora è a ridosso della semplice pietra gialla delle aggiunte più recenti: poteva risultare un gran pasticcio, ma in realtà l’insieme è molto bello.
Mi tremavano le mani per l’emozione, quando arrivammo agli ascensori e salimmo al dipartimento di paleobiologia; in origine il rom aveva dipartimenti di paleontologia divisi per invertebrati e vertebrati, ma i tagli alle spese praticati da Mike Harris ci hanno costretto a riunirli. I dinosauri portano al rom più visitatori di quanto non facciano i trilobiti, perciò Jonesy, il curatore anziano del dipartimento invertebrati, ora lavora alle mie dipendenze.
Per fortuna, quando uscimmo dall’ascensore, nel corridoio non c’era nessuno. Condussi rapidamente Hollus nel mio ufficio, chiusi la porta e mi sedetti alla scrivania: anche se ormai m’era passato lo spavento, non mi sentivo molto fermo sulle gambe.
Hollus vide sulla scrivania il cranio di Troodonte, Si avvicinò e lo prese con delicatezza per accostarlo ai peduncoli oculari, che smisero di ondeggiare e si concentrarono sull’oggetto. Mentre lui esaminava il cranio, diedi un’altra buona occhiata all’alieno.
Il suo corpo misurava più o meno quanto il cerchio che avrei potuto fare con le braccia. Come ho già detto, era coperto da lunghe strisce di stoffa azzurra. Ma la pelle era visibile sulle sei gambe e sulle due braccia. Assomigliava a un rivestimento a bolle, ma le singole bolle erano di vario formato. Parevano piene d’aria e quindi potevano significare un sistema d’isolamento. Ciò implicava che Hollus fosse endotermico: sulla Terra i mammiferi e gli uccelli usano peli o piume per tenere aria a contatto della pelle, come isolante, ma possono rilasciarla per raffreddarsi, col sistema di drizzare il pelo o di arruffare le penne. Mi domandai come una pelle a bolle d’aria potesse essere usata per refrigerare; forse le bolle potevano sgonfiarsi.
— Un / teschio / affascinante — disse Hollus, alternando ora intere parole da una bocca all’altra. — Quanti/anni/ha?
— Circa settanta milioni — risposi.
— Proprio / il / genere / di / cosa / che / sono / venuto / a / vedere.
— Hai detto d’essere uno scienziato. Sei paleontologo come me?
— Solo in parte — rispose l’alieno. — Il mio campo originario è la cosmologia, ma in anni recenti ho spostato gli studi su materie più ampie. — Esitò qualche istante. — Come ormai probabilmente hai capito, con i miei colleghi ho osservato per un certo periodo la vostra Terra… quanto basta per imparare dalla televisione e dalla radio le vostre lingue principali e per fare uno studio delle vostre diverse culture. Un procedimento frustrante. Della vostra musica popolare e delle vostre tecniche di preparazione del cibo so molto di più di quanto m’interessi… anche se sono incuriosito dal Popeil Automatic Pasta Maker. Ho anche guardato tanti di quegli eventi sportivi da bastare per una vita. Ho trovato però grandi difficoltà nel reperire informazioni scientifiche: dedicate poco spazio a discussioni approfondite in quel campo. Ho l’impressione di conoscere una sproporzionata quantità di cose su certi argomenti specifici e proprio niente su altri, — Esitò. — Ci sono dati che semplicemente non riusciamo ad acquisire da soli, né dalle vostre trasmissioni né con le nostre visite in segreto sul vostro pianeta. Soprattutto per argomenti rari, come i fossili.
Cominciavo ad avere l’emicrania, per quella voce che rimbalzava da una bocca all’altra. — Perciò vuoi esaminare gli esemplari qui nel rom?
— Esatto — disse l’alieno. — Per noi è stato facile studiare la flora e la fauna contemporanee, senza rivelare la nostra presenza; ma, come sai, i fossili ben conservati sono rari. Il modo migliore per soddisfare la nostra curiosità sull’evoluzione della vita su questo pianeta ci è sembrato quello dì chiedere il permesso di esaminare una collezione di fossili. Inutile reinventare la leva, per così dire.
Ero ancora sbalordito, ma non vedevo motivo di non collaborare. — Certo, puoi esaminare quanto vuoi i nostri esemplari; abbiamo di continuo visite di studiosi. Ti interessa un periodo particolare?
— Sì — rispose l’alieno. — Sono incuriosito dalle estinzioni di massa come svolta decisiva nell’evoluzione della vita. Cosa mi puoi dire in proposito?
Mi strinsi nelle spalle: era un argomento vastissimo. — Siamo a conoscenza di cinque estinzioni di massa nella storia della Terra — risposi. — La prima avvenne alla fine del periodo ordoviciano, forse 440 milioni di anni fa. La seconda, nel tardo devoniano, circa 365 milioni di anni fa. La terza, di gran lunga la maggiore, al termine del permiano, 225 milioni di anni fa.
Hollus mosse i peduncoli in modo tale che per un attimo i globi oculari si toccarono con un debole clic prodotto dal contatto del rivestimento cristallino. — Precisa / meglio / questa / terza / estinzione.
— In quel periodo scomparve forse il 96% delle specie marine e si estinsero i tre quarti delle famiglie di vertebrati terresti. Abbiamo avuto un’altra estinzione di massa nel tardo triassico, circa 210 milioni di anni fa. In quel caso abbiamo perduto un quarto delle famiglie, compresi tutti i labirintodonti; forse fu un evento cruciale per i dinosauri, creature come quella di cui reggi il cranio, che stavano per avere il predominio.
— Sì — disse Hollus. — Continua.
— Be’, 65 milioni di anni fa si verificò la più nota estinzione di massa, al termine del cretaceo. — Indicai di nuovo il cranio di Troodonte. — Proprio allora scomparvero dinosauri, pterosauri, mosasauri, ammoniti e altre specie.
— Questa creatura era piuttosto piccola — disse Hollus, sollevando il cranio.
— Già. Dal muso alla punta della coda, non più di cinque piedi. Un metro e mezzo.
— La sua famiglia ne comprendeva di più grossi?
— Oh, sì. I più grossi animali terrestri mai vissuti, in realtà. Morirono tutti in quell’estinzione, agevolando il predominio della mia specie, la classe dei mammiferi.
— In / cre / di / bi / le — dissero le bocche di Hollus. A volte l’alieno alternava intere parole, a volte solo sillabe.
— Perché?
— Come avete calcolato le date delle estinzioni? — disse Hollus, senza badare alla mia domanda.
— Ipotizziamo che tutto l’uranio sulla Terra si sia formato nello stesso periodo in cui si formò il pianeta, quindi misuriamo il rapporto dell’uranio-238 a fronte del prodotto del decadimento, piombo-206, e dell’uranio235 a fronte del piombo-207. Questo ci dice che il nostro pianeta ha 4,5 miliardi di anni. Allora…
— Bene — disse una bocca. — Bene — confermò l’altra. — Le date da voi calcolate dovrebbero essere precise. — Esitò. — Non mi hai ancora domandato da dove provengo.
Mi sentii un idiota. Hollus aveva ragione: probabilmente quella era la prima domanda che avrei dovuto fare. — Scusami — dissi. — Da dove provieni?
— Dal terzo pianeta di una stella che voi chiamate Beta Hydri.
Avevo frequentato un paio di corsi di astronomia mentre prendevo la laurea di primo grado in geologia e avevo studiato latino e greco… utili strumenti per un paleontologo. Hydri è il genitivo di Hydrus, il piccolo serpente d’acqua, una debole costellazione nei pressi del polo sud celeste. E Beta ovviamente è la seconda lettera dell’alfabeto greco: quindi Beta Hydri è la seconda stella in ordine di luminosità di quella costellazione, vista dalla Terra.
— E quanto dista da noi? — domandai.
— Ventiquattro dei vostri anni luce — rispose Hollus. — Ma non siamo giunti direttamente qui. Ormai viaggiamo da tempo e abbiamo già visitato altri sette sistemi solari. In totale abbiamo percorso finora 103 anni luce.
Annuii, ancora stupefatto; poi, accortomi d’avere ripetuto il cenno, spiegai: — Quando muovo su e giù la testa in questo modo, voglio significare: Sono d’accordo, sì, vai avanti.
— Lo so — disse Hollus. Accostò i globi oculari, producendo un clic. — Questo mio gesto ha lo stesso significato. — Rimase per qualche attimo in silenzio. — Ho già visitato nove sistemi stellari, ma il vostro è soltanto il terzo pianeta sul quale esiste vita intelligente. Il primo, è ovvio, è il mio e l’altro è il secondo pianeta di Delta Pavonis, una stella a circa venti anni luce dalla Terra, ma a soli 9,3 dal mio pianeta.
Delta Pavonis è la quarta stella in ordine di luminosità della costellazione Pavo, il Pavone. Mi pareva di ricordare che, come Hydrus, fosse visibile solo dall’emisfero meridionale.
— Anche nella storia del mio pianeta si sono verificate cinque grandi estinzioni di massa — riprese Hollus. — Il nostro anno è più lungo del vostro; esprimendo le date in anni terrestri, avvennero all’incirca 440, 365, 225, 210 e 65 milioni di anni fa.
Restai a bocca aperta.
— Anche Delta Pavonis II ha subito cinque estinzioni di massa — continuò Hollus. — L’anno di quel pianeta è un po’ più breve del vostro, ma facendo la conversione, anche quelle si sono verificate all’incirca 440, 365, 225, 210 e 65 milioni di anni fa.
Mi girava la testa. Trovavo già difficile parlare con un alieno; ma ascoltarne le assurdità era troppo. — Non può essere giusto — replicai. — Sappiamo che le estinzioni erano collegate a fenomeni locali. Quella al termine del permiano fu verosimilmente causata da una glaciazione da polo a polo; e quella al termine del cretaceo pare collegata all’impatto con un corpo celeste proveniente dalla cintura di asteroidi di questo stesso sistema solare.
— Anche noi imputavamo a fenomeni locali le estinzioni avvenute sul nostro pianeta. E i Wreed, così chiamiamo la razza intelligente di Delta Pavonis II, avevano spiegazioni che parevano collegate unicamente a circostanze locali. È stata una sorpresa scoprire che le date delle estinzioni di massa sui due pianeti corrispondevano. La somiglianza di un paio di date poteva essere una coincidenza, ma pare impossibile che tutte le estinzioni siano avvenute negli stessi periodi. Può darsi però che le nostre precedenti spiegazioni delle cause fossero inesatte o incomplete.
— Così siete venuti qui per determinare se la storia della Terra coincide con la vostra?
— In parte — disse Hollus. — E pare che coincida.
Scossi la testa.— Proprio non capisco come sia possibile.
Hollus depose con delicatezza sulla scrivania il cranio di Troodonte. Era abituato a trattare con cura i reperti fossili, lo si capiva subito. — Inizialmente la nostra incredulità è stata pari alla tua — disse. — Sul mio mondo e su quello dei Wreed, però, non c’è solo concomitanza di date. Sono simili anche gli effetti sulla biosfera. La maggiore estinzione di massa su tutti e tre i pianeti è stata la terza, quella che qui segna la fine del permiano. Da ciò che mi hai detto, pare che sui tre pianeti in quel periodo sia stata eliminata quasi tutta la biodiversità.
“Poi, l’evento che voi assegnate al tardo giurassico portò una sola classe di animali a dominare le nicchie ecologiche superiori. Qui furono le creature che chiamate dinosauri; sul mio pianeta, si trattò dei grandi pentapodi esotermici.
“L’ultima estinzione di massa, quella che per voi avvenne alla fine del cretaceo, pare abbia portato alla scomparsa di quella specie e alla comparsa della classe ora dominante. Sulla Terra sono stati i mammiferi a soppiantare i dinosauri. Su Beta Hydri III, gli octopodi endotermici come me hanno assunto la centralità nei confronti dei pentapodi. Su Delta Pavonis II, forme vivipare hanno occupato nicchie ecologiche un tempo dominate da ovipari.”
Tacque per qualche istante. — Almeno — concluse poi — così pare, basandosi su ciò che mi hai appena detto. Ma vorrei esaminare i vostri fossili per stabilire fino a che punto sia accurata la mia esposizione.
Scossi la testa, meravigliato. — Non riesco a immaginare un motivo per cui la storia dell’evoluzione debba essere simile su vari pianeti.
— Un motivo è evidente — disse Hollus. Si spostò di lato di qualche passo: forse era stanco di sostenere il proprio peso, anche se non riuscivo proprio a immaginare quale sorta di sedia potesse solitamente usare. — Così è stato perché così Dio ha voluto.
Non so spiegarmelo, ma rimasi sorpreso nell’udire un alieno parlare in quel modo. Quasi tutti gli scienziati che conosco sono atei o non parlano di religione… e Hollus era uno scienziato.
— Sì, è una spiegazione — mormorai.
— La più assennata. Gli esseri umani non hanno un criterio di verifica secondo il quale la spiegazione più semplice è sempre quella preferibile?
— Lo chiamiamo “Rasoio di Occam”.
— La spiegazione che fu la volontà di Dio postula una sola causa per tutte le estinzioni di massa; ciò la rende preferibile.
— Be’, sì, immagino, se… — Maledizione, mi sarei dovuto limitare a mostrarmi educato, annuire e sorridere, come faccio quando un fanatico religioso mi si avvicina, nella galleria Dinosauri, e mi domanda come c’entrano Noè e il diluvio universale; ma qualcosa dovevo pur dire! — Se si crede in Dio.
Hollus spostò i peduncoli oculari a quella che pareva la massima distanza, come se mi guardasse dai due lati nello stesso tempo. — Sei il paleontologo più anziano di questo istituto? — domandò.
— Sì, sono il direttore del dipartimento.
— Non c’è nessun paleontologo con maggiore esperienza?
Corrugai la fronte. — Be’, c’è Jonesy, il direttore anziano del reparto invertebrati. In età potrebbe rivaleggiare con alcuni suoi esemplari.
— Forse dovrei parlare con lui.
— Se vuoi. Cosa c’è che non va?
— Dalla vostra televisione so che in questa parte del pianeta c’è molta ambivalenza nei riguardi di Dio, almeno fra il pubblico normale; sono sorpreso però nel sentire che uno della tua posizione non è personalmente convinto dell’esistenza del Creatore.
— Allora Jonesy non è la persona che fa per te. È direttore del csicop.
— Sky Cop?
— Comitato per le Indagini Scientifiche sulle Rivendicazioni del Paranormale. Decisamente non crede in Dio.
— Sono sbalordito — disse Hollus e distolse gli occhi da me, esaminando i poster alle pareti del mio ufficio, un Gurche, uno Czerkas e due Kish.
— Tendiamo a considerare la religione una faccenda personale — dissi in tono gentile. — La natura stessa della fede implica la mancanza di fatti reali che diano la certezza.
— Non parlo di questioni di fede — disse Hollus, tornando a guardare me. — Piuttosto, di veri e propri fatti scientifici. Che il nostro universo sia stato creato risulta evidente a chiunque abbia intelligenza e informazioni sufficienti.
Non ero offeso, ma sorpreso di sicuro; in precedenza avevo udito commenti simili solo dai cosiddetti scienziati creazionisti. — Troverai parecchie persone religiose, qui al rom — dissi. — Per esempio, Raghubir, che hai già incontrato nel vestibolo. Neppure lui, però, direbbe che l’esistenza di Dio è un fatto scientifico.
— Allora tocca a me educarti su questo argomento — disse Hollus.
Sai che gioia, pensai. — Se lo ritieni necessario…
— Lo ritengo necessario, se sarai tu ad aiutarmi nel mio lavoro. La mia non è opinione minoritaria; l’esistenza di Dio è parte fondamentale della scienza sia di Beta Hydri sia di Delta Pavonis.
— Molti ritengono che simili problemi siano al di là della sfera della scienza.
Hollus mi guardò di nuovo come se non avessi superato chissà quale prova. — Niente è al di là della sfera scientifica — dichiarò con fermezza. In realtà condividevo quella posizione, ma quasi subito ci trovammo su posizioni contrastanti. — La meta primaria della scienza moderna — continuò Hollus — è scoprire perché Dio si è comportato come si è comportato e determinare i suoi metodi. Noi non crediamo che si limiti a muovere la mano e a desiderare che le cose esistano. Viviamo in un universo con leggi fisiche e lui, per portare a termine i suoi scopi, ha usato senza dubbio procedimenti fisici quantificabili. Se in realtà ha guidato l’evoluzione su almeno tre pianeti, allora dobbiamo chiederci come abbia fatto. E perché. Cosa cerca di realizzare? Dobbiamo…
In quel momento la porta del mio ufficio si spalancò e comparve la testa dai capelli candidi di un’immusonita Christine Dorati, direttrice e presidentessa del museo. — Che diavolo è quell’affare? — disse Christine, puntando su Hollus il dito magro come uno stecco.
Alla domanda di Christine Dorati rimasi di sasso. Era accaduto tutto troppo in fretta, non avevo avuto tempo di riflettere davvero sull’importanza dell’evento. Era entrato nel museo il primo autentico visitatore extraterrestre e io, invece di informare le autorità (o anche solo il mio capo, Christine) me ne stavo lì con quella creatura a indulgere in una di quelle chiacchierate fra soli uomini tipiche degli studenti universitari a tarda sera.
Prima che potessi rispondere, Hollus si girò verso la dottoressa Dorati, facendo ruotare il corpo sferico mediante lo spostamento del peso da una all’altra delle sei gambe, in senso antiorario.
— Salve — disse. — Mi / chiamo / Hol / lus. — Le due sillabe del nome si sovrapposero leggermente: una bocca iniziò prima che l’altra avesse terminato.
Christine era adesso amministratrice a tempo pieno. Anni prima, quando faceva ancora ricerche sul campo, si occupava di tessili e quindi forse non si rese subito conto dell’origine non terrestre di Hollus. — È uno scherzo? — disse.
— Niente / affatto — replicò Hollus, nella sua bizzarra voce stereofonica. — Sono / un… — Spostò i peduncoli oculari per un attimo nella mia direzione, quasi a far capire che ripeteva una mia citazione fatta poco prima.
— Mi / consideri / uno/ studioso / in / visita.
— In visita da dove? — domandò Christine.
— Beta Hydri — rispose Hollus.
— E dove sarebbe? — domandò Christine. Aveva una larga bocca da cavallo e doveva fare uno sforzo per richiudere le labbra sopra i denti.
— È un’altra stella — intervenni. — Hollus, lei è Christine Dorati, direttrice del rom.
— Un’altra stella? — ripeté Christine, anticipando la risposta di Hollus.—Andiamo, Tom! La sicurezza mi ha chiamato per dire che c’era chissà quale carnevalata e…
— Non ha visto la mia astronave? — domandò Hollus.
— Astronave? — ripetemmo insieme Christine e io.
— Sono atterrato davanti all’edificio col tetto a cupola.
Christine entrò nella stanza, passò davanti a Hollus e premette il pulsante interfonico del mio Nortel da tavolo. Poi compose sulla tastiera il numero di un interno.
— Gunther? — disse. Gunther era l’agente della sicurezza all’ingresso del personale, posto a fianco del vicolo fra il museo e il planetario. — Parla Dorati. Mi faccia un favore: esca e mi dica che cosa vede davanti al planetario.
— L’astronave? — disse Gunther dal viva voce. — L’ho già vista. Adesso è circondata dalla folla.
Christine riattaccò senza neppure salutare. Guardò l’alieno. Non poteva non vedere che il tronco si espandeva e si contraeva nella respirazione.
— Cosa…, ah, cosa vuole? — domandò.
— Faccio delle ricerche paleontologiche — rispose Hollus. Notai con sorpresa che la parola paleontologiche (di che riempire la bocca anche a un essere umano) non fu suddivisa fra i due orifizi orali: ancora non avevo capito quali regole imponessero il passaggio da una bocca all’altra.
— Devo riferire a qualcuno questa storia — disse Christine, quasi tra sé. — Notificarla alle autorità.
— Qual è l’autorità appropriata in un caso come questo? — domandai.
Christine parve sorpresa che avessi udito. — La polizia? L’rcmp? Il ministero degli Esteri? Non so. Peccato che abbiano chiuso il planetario: forse lì qualcuno avrebbe saputo a chi rivolgersi. Ah, potrei chiedere a Chen. — Donald Chen era l’astronomo del ROM.
— Informi pure chi vuole — disse Hollus — ma per favore non dia troppo rilievo alla mia presenza. Interferirebbe col sito lavoro.
— Al momento lei è il solo alieno sulla Terra? — domandò Christine. — O altri della sua specie visitano altre nazioni?
— Attualmente sono l’unico sul pianeta — disse Hollus. — Vari altri però scenderanno giù fra breve. La nave madre, ora in orbita geosincrona, ha un equipaggio di 34 individui.
— Geosincrona su quale punto? — domandò Christine. — Toronto?
— Le orbite geosincrone devono passare sull’equatore — dissi. — Non possono passare su Toronto.
Hollus girò verso di me i peduncoli oculari: forse ero cresciuto nella sua stima. — Esatto — confermò. — Questo posto era la nostra prima meta, perciò la nave è in orbita lungo la stessa linea di longitudine. La nazione direttamente sotto la nave mi pare si chiami Ecuador.
— Trentaquattro alieni — disse Christine, come se cercasse di digerire l’idea.
— Esatto — replicò Hollus. — Metà sono Forhilnor come me e metà sono Wreed.
Mi sentii percorrere da un brivido: esaminare una forma di vita di un diverso ecosistema era già stupefacente, ma esaminare forme di vita di due diversi ecosistemi sarebbe stato sbalorditivo! In anni precedenti, quando stavo bene, avevo tenuto all’università di Toronto un corso sull’evoluzione, ma tutte le nostre conoscenze del funzionamento evolutivo si basano su un solo campione. Se avessimo potuto…
— Non so proprio chi chiamare — ripeté Christine. — Diavolo, non so neppure chi mi crederebbe, se lo raccontassi!
In quel momento squillò il mio telefono. Presi il ricevitore. Era Indira Salaam, l’assistente di Christine. Passai a quest’ultima il ricevitore.
— Sì — disse Christine nel microfono. — No, resto qui. Puoi accompagnarli su? Bene. Ciao. — Mi restituì il ricevitore. — I più bravi di Toronto stanno salendo.
— I più bravi di Toronto? — domandò Hollus.
— La polizia — dissi, rimettendo a posto il ricevitore.
Hollus rimase in silenzio. Christine mi guardò. — Qualcuno ha chiesto l’intervento per l’atterraggio dell’astronave e per il suo pilota alieno che è entrato nel museo.
Quasi subito giunsero due agenti in uniforme, accompagnati da Indira. Si bloccarono sulla soglia, a bocca aperta. Un agente era magro come un chiodo, l’altro molto tarchiato: la versione gracile e la versione robusta dell’Homo praetorius, a fianco a fianco, lì nel mio ufficio.
— Deve essere un falso — disse il magro all’altro.
— Perché tutti continuano a pensare a un falso? — disse Hollus. — Voi umani a quanto pare avete una grande capacità di ignorare l’evidenza. — Puntò su di me i peduncoli oculari.
— Chi di voi è il direttore del museo? — domandò il poliziotto tarchiato.
— Io — rispose Christine. — Christine Dorati.
— Bene, signora, secondo lei cosa dovremmo fare? Christine si strinse nelle spalle. — L’astronave intralcia il traffico?
— No — rispose il poliziotto. — Si trova sullo spiazzo del planetario, però…
— Sì?
— Be’, si dovrebbe fare rapporto.
— Concordo — disse Christina. — A chi?
Il telefono sulla scrivania squillò di nuovo. Era l’assistente di Indira… non hanno i soldi per tenere aperto il planetario, ma l’assistente ha l’assistente. — Ciao, Perry — dissi. — Te la passo subito.
— Sì? — disse Indira. — Capisco. Uhm, aspetta un attimo. — Si rivolse a Christine. — Ci sono quelli di city-tv. Vogliono vedere l’alieno. — La city-tv è una stazione locale nota per le “notizie in faccia”; il suo slogan è semplicemente “Dappertutto!”
Christine si girò verso i due poliziotti per capire se avevano intenzione di obiettare. I due si scambiarono uno sguardo e una scrollata di spalle. — Quassù non possiamo far salire altra gente — disse Christine. — Nell’ufficio di Tom non ci stanno. — Si rivolse a Hollus. — Le dispiace scendere di nuovo nella Rotonda?
Hollus ballonzolò, non credo per mostrare d’essere d’accordo. — Sono ansioso di continuare le mie ricerche — dichiarò.
— Prima o poi deve parlare a qualcuno — notò Christine. — Tanto vale farlo subito.
— Va bene — disse Hollus, in tono di grande riluttanza.
Il poliziotto tarchiato parlò nel microfono agganciato alla spallina dell’uniforme, rivolgendosi presumibilmente a qualcuno della stazione di polizia. Intanto uscimmo tutti nel corridoio e ci avviammo all’ascensore. Scendemmo in due gruppi: Hollus, Christine e io nel primo, Indira e i due agenti nel secondo. Aspettammo gli altri a pianterreno, poi passammo nell’atrio a cupola del museo.
city-tv chiama i suoi tecnici (tutti giovani, tutti alla moda) “videografi”. Uno di loro ci aspettava, infatti, al pari di una piccola folla di spettatori rimasti in previsione del ritorno dell’alieno. Il videografo, un canadese con i capelli legati a coda di cavallo, venne subito avanti. Christine, da politicante, cercò di entrare nel campo della telecamera, ma il tecnico voleva solo riprendere Hollus da tutte le angolature possibili.
Notai che uno dei due poliziotti teneva la mano sulla fondina; immagino che il loro superiore avesse dato ordine di proteggere l’alieno a tutti i costi.
Alla fine Hollus esaurì la pazienza. — Così / basta / e / avanza — disse al tecnico della city-tv.
Che l’alieno parlasse inglese stupì la folla; molti erano giunti dopo che Hollus e io avevamo parlato nell’atrio. All’improvviso il videografo cominciò a subissare di domande l’alieno: — Da dove venite? Qual è la vostra missione? Quanto tempo avete impiegato ad arrivare qui?
Hollus cercò di rispondere meglio che poteva (non nominò mai Dio) ma dopo qualche minuto due uomini in completo blu scuro, un bianco e un nero, entrarono nel mio campo visivo. Osservarono brevemente l’alieno, poi il bianco mosse un passo avanti e disse: — Mi scusi. — Aveva l’inflessione del Quebec.
Evidentemente Hollus non udì. Continuò a rispondere alle domande del videografo.
— Mi scusi — ripeté il bianco, a voce molto più alta.
Hollus si spostò. — Sono spiacente — disse. — Voleva passare?
— No — disse il bianco — volevo parlare con lei. Siamo del csis, il servizio di sicurezza canadese. Vorrei che venisse con noi.
— Dove?
— In un luogo più sicuro, dove potrà parlare alle persone giuste. — Esitò. — Esiste un protocollo per simili eventi, anche se ci sono voluti alcuni minuti per trovarlo. Il primo ministro è già andato all’aeroporto di Ottawa e stiamo per informare il presidente degli Stati Uniti.
— No, mi spiace — disse Hollus. Girò i peduncoli oculari sull’atrio ottagonale e su tutti i presenti, prima di riportarli sui due agenti federali. — Sono venuto qui a fare ricerche paleontologiche. Sarò lieto di salutare il vostro primo ministro, naturalmente, se si farà vedere qui, ma ho rivelato la mia presenza per una sola ragione, ossia per parlare al qui presente dottor Jericho. — Mi indicò e il videografo si spostò per riprendermi. Mi sentii piuttosto montato, lo confesso.
— Spiacente, signore — disse il franco-canadese del csis — ma dobbiamo proprio fare come le ho spiegato.
— Lei non ascolta — disse Hollus. — Mi rifiuto di andare via. Sono qui per un’importante ricerca e voglio proseguirla.
I due agenti del csis si guardarono. Alla fine il nero disse: — Senta, lei in teoria dovrebbe dire: “Portatemi dal vostro capo”. In teoria dovrebbe chiedere d’incontrare le autorità.
— Perché? — domandò Hollus.
I due agenti si guardarono di nuovo. — Perché? — ripeté il bianco. — Perché è questa, la procedura!
L’alieno spostò su di lui i peduncoli oculari. — Sospetto di avere più esperienza di voi in questo campo.
Il bianco estrasse una piccola pistola. — Devo proprio insistere — dichiarò.
I due poliziotti vennero avanti. — Vediamo i documenti — disse quello tarchiato.
Il nero del csis lo accontentò. Non ho idea di come sia fatto un tesserino d’identità del csis, ma il poliziotto parve soddisfatto e arretrò.
— Ora, per favore — disse il nero — venga con noi.
— Sono sicurissimo che non userà quell’arma — replicò Hollus — perciò faccio a modo mio.
— Abbiamo ordini — disse il bianco.
— Non ne dubito. E di sicuro i vostri superiori capiranno, se non siete stati in grado di eseguirli. — Indicò il videografo, che si agitava per cambiare cassetta. — La registrazione proverà che avete insistito, che io ho declinato l’invito e che la faccenda si è conclusa qui.
— Non è il modo di trattare un ospite! — gridò una donna tra la folla. Parevano in molti a pensarla così: altri protestarono sullo stesso tono.
— Vogliamo solo proteggere l’alieno — disse il bianco del csis.
— Col cavolo — replicò un visitatore del museo. — Ho visto gli X-Files. Se uscite di qui con lui, nessuno lo vedrà più.
— Lasciatelo in pace! — aggiunse un tipo anziano che parlava con inflessione europea.
I due agenti guardarono il videografo e il nero indicò al bianco una telecamera della sicurezza del museo. Senza dubbio avrebbero voluto che non ci fossero registrazioni d i quella scena.
— Con le maniere gentili — disse Hollus — non prevarrete.
— Be’, però non avrà niente da obiettare alla presenza di un nostro osservatore — disse il nero. — Qualcuno che garantisca che non le accada niente di male.
— Su questo non ho motivi di preoccupazione — disse Hollus.
Intervenne Christine. — Sono presidente e direttore del museo — dichiarò ai due del csis. Poi si rivolse a Hollus. — Senza dubbio si rende conto che ci piacerebbe avere una registrazione, una cronistoria, della sua visita qui. Se non le dispiace, faremo in modo che lei e il dottor Jericho siate accompagnati da almeno un operatore televisivo. — Il tizio della city-tv venne avanti, ben lieto di offrirsi volontario.
— Cero che mi dispiace! — disse Hollus. — Dottoressa Dorati, sul mio pianeta solo i criminali sono soggetti a osservazione costante; lei acconsentirebbe a che la tenessero d’occhio per tutto il giorno mentre lavora?
— Be’, veramente…
— Nemmeno io — disse Hollus. — Vi sono grato per l’ospitalità, ma… lei, lì. — Indicò il videografo. — Lei è il rappresentante di una stazione televisiva; mi consenta di fare una supplica. — Tacque per un secondo, mentre l’operatore regolava la telecamera. — Sono alla ricerca di accesso senza restrizioni a un’estesa raccolta di fossili — riprese, parlando a voce alta. — In cambio, condividerò informazioni raccolte dal mio popolo, quando lo riterrò opportuno ed equo. Se c’è un altro museo che mi offre ciò che cerco, sarò felice di presentarmi lì, anziché qui. Semplicemente…
— No! — disse Christine, precipitandosi avanti. — No, non sarà necessario. Naturalmente collaboreremo in tutti i modi possibili.
Hollus distolse dalla telecamera i peduncoli oculari. — Allora posso fare i miei studi a condizioni per me accettabili?
— Sì — dichiarò Christine. — Sì, qualsiasi cosa desideri.
— Il governo canadese pretenderà ancora… — iniziò il bianco del csis.
— Posso facilmente andare negli Stati Uniti — disse Hollus. — O in Europa o in Cina o in…
— Lasciategli fare ciò che vuole! — gridò un visitatore di mezz’età.
— Non intendo minacciare — disse Hollus, guardando prima un agente federale, poi l’altro — ma non m’interessa affatto diventare una celebrità né farmi mettere alle strette da documentaristi o da agenti della sicurezza.
— Onestamente, non abbiamo libertà nei nostri ordini — disse il bianco. — Lei deve semplicemente venire con noi.
I peduncoli oculari si inarcarono all’indietro, tanto che i globi guardarono il mosaico nel soffitto a cupola della Rotonda, composto da più di un milione di tessere di vetro veneziano; forse era l’equivalente forhilnor del roteare gli occhi. Le parole “Che tutti gli uomini possano conoscere la Sua opera”, una citazione dal Libro di Giobbe, erano disposte in un quadrato all’apice della cupola.
Dopo un momento i peduncoli si puntarono di nuovo in avanti e si fissarono uno sull’agente bianco, uno sull’agente nero. — Sentite — disse Hollus — ho passato più di un anno a studiare dall’orbita la vostra cultura. Non sono tanto sciocco da scendere sul pianeta in una forma che mi renderebbe vulnerabile. — Frugò in una piega della stoffa avvolta intorno al tronco (in un lampo anche l’altro agente del csis impugnò la pistola) ed estrasse un oggetto poliedrico delle dimensioni di una pallina da golf. Poi si mosse lateralmente nella mia direzione e mi diede l’oggetto. Lo presi: era più pesante di quanto non sembrasse.
— Quel congegno è un proiettore d’ologramma — disse Hollus. — Ha appena registrato le biometrie del dottor Jericho e funzionerà solo in suo possesso; anzi, posso fare in modo che si autodistrugga in maniera molto spettacolare, se qualcun altro lo maneggia; perciò vi consiglio di non tentare di portarglielo via. Inoltre il proiettore funzionerà soltanto nei posti da me approvati, come l’interno di questo museo. — Tacque per qualche istante. — Sono qui in forma di ologramma — riprese. — In realtà mi trovo ancora nella navetta d’atterraggio, davanti all’edificio accanto a questo; sono sceso sul pianeta solo per sovrintendere alla consegna del proiettore ora in mano al dottor Jericho. Quel proiettore usa olografia e campi di forza micromanipolati per dare l’impressione che io sia qui e per consentirmi di maneggiare oggetti. — L’alieno, o la sua immagine, si immobilizzò per alcuni secondi, come se il vero Hollus fosse impegnato a fare altro. — Ecco fatto — disse poi. — La mia navetta ritorna in orbita, col vero me stesso a bordo. — Alcuni corsero fuori per dare un’occhiata alla navetta che si allontanava. — Non potete fare niente per costringermi e non potete procurarmi danni fisici. Non voglio essere scortese, ma il contatto fra la razza umana e il mio popolo avverrà alle nostre condizioni, non alle vostre.
Il poliedro in mano mia emise un bip bitonale: la proiezione di Hollus tremolò per un secondo e svanì.
— Lei dovrà consegnarci quell’aggeggio, ovviamente — disse il bianco del csis.
Sentii l’adrenalina riversarsi nelle vene. — Mi spiace — dissi — ma avete visto che Hollus l’ha consegnato a me direttamente. Non credo che abbiate diritti su di esso.
— Ma è un manufatto alieno — disse il nero del csis.
— E allora? — replicai.
— Be’, insomma, dovrebbe essere in mano alle autorità.
— Lavoro anch’io per il governo — dichiarai in tono di sfida.
— Volevo dire, in mani sicure.
— Perché?
— Ah, be’, perché sì.
Non accetto “perché sì” come argomentazione nemmeno da mio figlio, che ha sei anni. — Non posso consegnarcelo — dichiarai. — Hollus ha detto che esploderebbe, l’avete sentito anche voi. Hollus è stato molto chiaro su come andrà la faccenda… e voi, signori, non vi avete parte. Perciò — guardai il bianco, quello che parlava con inflessione francese — vi dico adieu.