Non avevo dormito bene, quella notte, e neppure la notte precedente: cominciavo a sentire la stanchezza, immagino. Avevo tentato di accettare con stoicismo la mia situazione, di fare l’indifferente. Quel giorno però…
Era l’ora dorata, quella fra l’inizio del lavoro e l’apertura del museo al pubblico, fra le 9 e le 10 di mattina. Esaminavo con Hollus i fossili dell’esposizione speciale Burgess Shale: Opabinia e Sanctacarìs e Wiwaxia e Anomalocaris e Hallucigenia, forme di vita così bizzarre da sfidare una facile classificazione.
E i fossili mi richiamarono alla mente il libro di Stephen Jay Gould sulla fauna del Burgess, La vita meravigliosa.
E quel libro mi richiamò alla mente il film al quale Gould alludeva, il classico di Jimmy Stewart, il favorito nel periodo natalizio.
E quello mi spinse a pensare quanto valore attribuissi alla mia vita… la mia reale, effettiva esistenza in carne e ossa.
— Hollus — dissi, incerto, a voce bassa.
I peduncoli oculari dell’alieno esaminavano il gruppo di cinque occhi dell’Opabiniat così diversa da qualsiasi altra forma di vita nel passato della Terra. Hollus li ruotò per guardarmi.
— Hollus — dissi — so che la vostra razza è molto più progredita della nostra.
Restò immobile.
— Di sicuro sapete cose che noi ignoriamo.
— Vero.
— Io… Hai conosciuto mia moglie Susan. Hai conosciuto Ricky.
Hollus congiunse i globi oculari. — Hai una bella famiglia.
— Non… non voglio lasciarli, Hollus. Non voglio che Ricky cresca senza padre. Non voglio che Susan resti sola.
— È una sfortuna — convenne il Forhilnor.
— Deve esserci qualcosa che potete fare… qualcosa per salvarmi.
— Mi spiace, Tom. Mi spiace davvero. Come ho detto a tuo figlio, non c’è niente.
— Va bene, va bene, so come funziona. Vi hanno ordinato di non interferire, giusto? Avete la proibizione di introdurre cambiamenti. Lo capisco, però…
— Non abbiamo nessuna direttiva del genere, davvero. Ti aiuterei, se potessi.
— Ma di sicuro avete scoperto come curare il cancro! Con tutte le vostre conoscenze sul dna e sul funzionamento della vita… sapete senza dubbio come curare un male semplice come il cancro.
— Il cancro affligge anche il mio popolo. Te l’ho già detto.
— E i Wreed? I Wreed lo sapranno!
— Anche loro ne sono colpiti. Il cancro è… come dire… un fatto di vita.
— Per favore. Per favore.
— Non posso fare niente.
— Devi! — Mi accorsi del tono stridulo della mia voce: non mi piaceva, ma non riuscivo a fermarmi. — Devi fare qualcosa!
— Mi spiace, mi spiace davvero.
A un tratto mi ritrovai a gridare, la mia voce echeggiò contro le bacheche di vetro dell’esposizione. — Maledizione, Hollus. Io ti aiuterei, se potessi. Perché non vuoi aiutarmi?
Hollus rimase in silenzio.
— Ho una moglie. Ho un figlio.
— Lo so.
— Allora aiutami, maledizione! Aiutami! Non voglio morire!
— Neanche io voglio che tu muoia. Sei mio amico.
— Tu non sei amico mio! — gridai. — Se fossi amico mio, mi aiuteresti.
Mi aspettai che svanisse, che spegnesse l’ologramma, che mi lasciasse da solo con gli antichi resti dell’esplosione cambriana. Invece rimase con me; aspettò con calma che mi passasse la crisi nervosa e che smettessi di piangere.
Hollus era andato via verso le 4.20 del pomeriggio, ma io mi fermai fino a tardi a lavorare in ufficio. Mi vergognavo di me e della mia disgustosa scenata.
La fine era in arrivo, lo sapevo da mesi.
Perché non potevo mostrare più coraggio? Perché non potevo affrontarla con più dignità?
Era tempo di sistemare tutto. Lo sapevo.
Da trent’anni non rivolgevo più la parola a Gordon Small. Da ragazzi eravamo amici, abitavamo nella stessa via a Scarborough, ma all’università avevamo litigato. Gordon si era messo in testa che gli avevo fatto un torto orribile; io mi ero messo in testa che lui mi aveva fatto un torto orribile. Per una decina d’anni, dopo la nostra grande lite, avevo pensato a lui almeno una volta al mese. Ero ancora furibondo per ciò che mi aveva fatto e la notte, a letto, passavo in rassegna tutti i modi per fargliela pagare.
Nella mia vita, naturalmente, c’erano diverse altre questioni in sospeso… relazioni di ogni genere che avrei dovuto concludere o accomodare. Alcune non le avrei mai risolte, lo sapevo.
Per esempio, c’era Nicole, la ragazza alla quale avevo tirato il bidone la sera del nostro ballo studentesco. Non ero mai riuscito a dirle il motivo… mio padre si era ubriacato e aveva buttato mia madre giù dalle scale e io avevo trascorso con lei quella notte, al pronto soccorso di Scarborough. Come avrei potuto dire una cosa del genere a Nicole? Col senno di poi, certo, avrei potuto dirle che mia madre era caduta dalle scale e che avevo dovuto portarla in ospedale, ma Nicole era la mia ragazza, forse avrebbe voluto fare visita a mia madre, e allora le avevo mentito, avevo trovato la scusa di un guasto alla macchina, e poi ero rimasto impigliato in quella bugia, non ero mai riuscito a spiegarle che cos’era accaduto realmente.
Poi c’era Bjorn Amundsen, che all’università mi aveva chiesto in prestito cento dollari e non me li aveva mai restituiti. Sapevo che era povero; sapevo che non riceveva aiuti dai genitori, al contrario di me; sapevo che non aveva ottenuto una borsa di studio. Aveva bisogno più di me di quei cento dollari, anzi, avrebbe continuato ad averne sempre bisogno e non sarebbe mai riuscito a restituirli. Una volta, stupidamente, avevo fatto un commento sui rischi che con lui si correvano. E lui aveva preso a evitarmi, piuttosto che ammettere di non poter pagare il debito. Ho sempre pensato che l’amicizia non ha prezzo, ma in quel caso l’aveva: cento miserabili dollari. Mi sarebbe piaciuto chiedere scusa a Bjorn, ma non sapevo che fine avesse fatto.
E c’era Paul Kurusu, uno studente giapponese al quale una volta, al liceo, in un accesso d’ira, avevo rivolto un insulto razzista. Mi aveva guardato, ferito: aveva ricevuto altre volte simili insulti, ma non da chi considerava un amico. Avevo sempre voluto dirgli quanto fossi dispiaciuto, ma come si fa a parlarne trent’anni dopo?
Con Gordon Small però dovevo fare pace. Non potevo… non potevo scendere nella fossa senza risolvere quella faccenda. Gordon si era trasferito a Boston nei primi anni Ottanta. Chiamai il servizio abbonati. C’erano tre Gordon Small nell’elenco, ma solo uno aveva il secondo nome che iniziava per P… Philip, appunto, ricordai.
Mi segnai il numero, chiesi la linea esterna, composi il mio codice per le interurbane e poi il numero di Gordon. Una giovane voce femminile rispose: — Pronto?
— Potrei parlare con Gordon Small per favore?
— Un momento — disse la voce. Poi chiamò: — Nonno!
Nonno, pensai. Gordon era già nonno, a 54 anni. E lo chiamavo dopo tutto quel tempo. Stavo per mettere giù la cornetta, quando mi giunse un: “Pronto?”.
Due sillabe in tutto, ma riconobbi subito la voce. E fui sommerso da un diluvio di ricordi.
— Gord — dissi — sono Tom Jericho.
Seguì un istante di silenzio, per la sorpresa; poi un gelido: — Ah!
Almeno Gordon non aveva sbattuto giù la cornetta. Forse pensava che fosse morto qualcuno… un amico comune, una persona che avesse per tutt’e due tanta importanza da indurmi a lasciar perdere i nostri dissapori per informarlo sul funerale, uno del nostro vecchio gruppo, del nostro vecchio quartiere.
Gordon però non disse altro, solo “Ah!”. E attese che parlassi.
Ora lui si trovava negli Stati Uniti e io conoscevo bene i media americani: comparso un alieno negli Stati Uniti (il Forhilnor che si aggirava per il palazzo di giustizia a San Francisco o l’altro che visitava l’ospedale psichiatrico di Charleston) non si sarebbe parlato di quelli fuori degli usa; se Gordon sapeva di Hollus e di me, non lo lasciò capire.
Mi ero preparato le parole, ma il suo tono, la sua freddezza, la sua ostilità, mi bloccarono la lingua. Alla fine dissi d’un fiato: — Sono spiacente.
Poteva interpretarlo in molti modi: spiacente per il disturbo, spiacente per avere interrotto ciò che faceva in quel momento, spiacente per la morte di un vecchio amico… oppure per ciò che volevo significare io: spiacente per l’accaduto, per il cuneo che avevamo inserito fra noi in tutti quegli anni. Ma Gordon non mi facilitò il compito. — Per che cosa? — disse.
Sospirai, forse rumorosamente. — Gordon, eravamo amici.
— Finché non mi hai tradito, sì.
Ecco come sarebbe andata, allora. Niente reciprocità, niente sensazione che ciascuno avesse fatto torto all’altro. Tutta colpa mia, solo mia.
Mi sentii ribollire; per un momento avrei voluto inveire, dirgli come mi ero sentito per ciò che lui aveva fatto, dirgli quanto avevo pianto, pianto davvero, di rabbia e di frustrazione e di sofferenza, dopo che la nostra amicizia si era disintegrata.
Chiusi gli occhi un istante per calmarmi. Avevo telefonato per chiudere quella storia, non per riattizzare una vecchia lite. Sentii una fitta al petto, come sempre quando ero sotto tensione. — Sono spiacente — ripetei. — Ho patito, Gordon. Anno dopo anno. Non avrei mai dovuto fare ciò che ho fatto allora.
— Su questo non ci piove, maledizione.
Non potevo però prendermi tutta la colpa, avevo ancora un certo orgoglio. — Mi auguravo che fosse possibile scusarci l’uno con l’altro.
Gordon scantonò subito. — Perché telefoni? Dopo tutti questi anni?
Non volevo dirgli la verità: “Be’, Gord, il fatto è che fra breve sarò morto…” No. Non potevo dirglielo così bruscamente.
— Volevo sistemare alcune vecchie faccende.
—È un po’tardi.
No, pensai, sarà tardi l’anno prossimo; ma finché siamo vivi, non è mai troppo tardi.
— Era tua nipote, quella che ha risposto? — domandai.
— Sì.
— Ho un figlio di sei anni. Si chiama Ricky, Richard Blaine Jericho. — Lasciai che il nome restasse sospeso in aria. Anche Gordon era un grande appassionato di Casablanca; forse quel nome l’avrebbe ammorbidito, pensai. Se gli avevo strappato un sorriso, però, non potevo vederlo per telefono.
Lui rimase in silenzio, così domandai: — Tu come te la passi, Gord?
— Bene. Sposato da trentadue anni, due figli e tre nipotini. — Aspettai un invito, un semplice: “E tu?”, che però non venne.
— Bene, volevo dirti solo questo. Che sono spiacente e rimpiango che sia andata in quel modo. — Era troppo aggiungere: “Vorrei che fossimo ancora amici”, perciò non lo dissi. Invece dissi: — Mi auguro che il resto della tua vita sia magnifico, Gord.
— Grazie — disse. E poi, dopo una pausa che pareva interminabile: — Anche per te.
Mi si sarebbe rotta la voce, se fossi rimasto ancora al telefono. — Grazie — dissi. E poi: — Addio.
— Addio, Tom.
E la linea divenne muta.