34

Buio assoluto.

E calore, che mi lambiva da tutti i lati.

L’inferno? Era…

No, naturalmente. Avevo un mal di testa spaventoso, ma cominciavo a ragionare.

Un forte scatto metallico e poi…

E poi il coperchio dell’unità d’ibernazione scivolò da parte. La bara oblunga, fatta per i Wreed, era a filo del pavimento; Hollus, a gambe divaricate, agganciata con i sei piedi a delle staffe per non andare alla deriva, piegò le gambe frontali e abbassò i peduncoli oculari per guardarmi.

— È ora di alzarsi, amico mio — disse.

Sapevo che cosa si pensa che uno debba dire in una situazione come quella: avevo visto Khan Noonien Singh. — Quanto tempo? — domandai.

— Più di quattro secoli — rispose Hollus. — Siamo nell’anno 2432 della Terra.

“Così, semplicemente” pensai. “Quattrocento anni volati via senza che me ne sia reso conto. Così, semplicemente.”

Erano stati saggi a installare le camere d’ibernazione fuori delle centrifughe; non credo che sarei riuscito a reggermi da solo. Hollus mi tese la destra e io allungai la sinistra ad afferrarla e il semplice cerchietto d’oro nell’anulare mi parve immutato, malgrado il freddo e il tempo. Hollus mi aiutò a uscire dalla bara di ceramica nera; poi si staccò dalle staffe e restammo librati.

— La nave ha smesso di decelerare — disse la Forhilnor. — Abbiamo quasi raggiunto ciò che resta di Betelgeuse.

Ero nudo; per qualche ragione provai imbarazzo a farmi vedere da Hollus in quello stato. Ma i vestiti mi aspettavano; mi vestii in fretta… una camicia blu e un paio di morbidi calzoni color cachi, veterani di molti scavi.

Avevo difficoltà a mettere a fuoco la vista e sentivo la bocca secca. Di sicuro Hollus l’aveva previsto: teneva pronto per me un contenitore trasparente pieno di acqua a temperatura ambiente. I Forhilnor non raffreddavano mai l’acqua, ma in quel momento quella mi andava benissimo… l’ultima cosa di cui avevo bisogno era una bevanda fredda.

— Non dovrei fare un controllo? — domandai, quando terminai di spremermi in bocca l’acqua.

— No — disse Hollus. — È tutto automatico. Sei stato tenuto sotto osservazione continua. Stai… — Si interruppe e sono sicuro che stesse per dire che stavo bene, ma sapevamo tutt’e due che non era vero. — Stai come stavi prima dell’animazione sospesa.

— Mi fa male la testa.

Hollus mosse le membra in un modo bizzarro; dopo un istante capii che le fletteva come avrebbe fatto per ballonzolare, se non ci fossimo trovati in assenza di gravità. — Per un paio di giorni avrai vari dolori. È naturale.

— Chissà com’è la Terra — dissi.

Hollus rivolse una frase melodiosa al più vicino monitor a parete. Dopo alcuni istanti comparve un’immagine ingrandita: un disco giallo, della grandezza di un quarto di dollaro tenuto a braccio teso. — Il tuo sole — disse Hollus, Poi indicò un oggetto più opaco, circa un sesto del diametro del sole. — E quello è Giove, che da qui mostra una faccia gibbosa. A questa distanza, è difficile risolvere la Terra in luce visibile, ma se guardi un’immagine radio, la Terra risplende più del sole, con le sue numerose frequenze.

— Ancora? — dissi. — Trasmettiamo ancora per radio, dopo tutto questo tempo? — Era magnifico: significava che…

Hollus rimase in silenzio per qualche istante, forse sorpresa che non capissi. — Non so — disse poi. — La Terra è a 429 anni luce da noi; la luce che ci giunge adesso mostra come era il tuo sistema solare al tempo della nostra partenza.

Annuii tristemente. Certo. Sentii il cuore battere forte e la vista mi si confuse maggiormente. All’inizio pensai che qualcosa nella rianimazione fosse andato storto, ma non si trattava di quello.

Ero scosso; non avevo pensato a come mi sarei sentito.

Ero ancora vivo.

Socchiusi gli occhi e fissai il piccolo disco giallo, poi abbassai lo sguardo sulla fede d’oro. Sì, ero ancora vivo. La mia amata Susan però non c’era più. Di sicuro.

Mi domandai che vita aveva avuto, dopo la mia partenza. Mi augurai che fosse stata felice.

E Ricky? Mio figlio, il mio fantastico figlio?

Be’, c’era quel medico che avevo sentito alla crv, quello che aveva detto che era già nato il primo essere umano che sarebbe vissuto per sempre. Forse Ricky era ancora vivo… e aveva 438 anni.

Le probabilità però erano scarse, pensai. Era molto più facile che Ricky fosse cresciuto per diventare l’uomo che era destinato a diventare, che avesse lavorato e amato e ora…

E ora non c’era più.

Mio figlio. Quasi certamente ero vissuto più di lui. Un padre in teoria non dovrebbe sopravvivere al figlio.

Sentii le lacrime agli occhi, lacrime che erano congelate nemmeno un’ora fa, lacrime che in assenza di gravità formavano una sorta di pozza vicino ai condotti lacrimali. Le asciugai.

Hollus conosceva il significato delle lacrime per gli uomini, ma non mi domandò perché piangessi. Anche i suoi figli, Pealdon e Kassold, erano di sicuro ormai morti. Rimase pazientemente librata accanto a me.

Mi domandai se Ricky avesse lasciato figli e nipoti e pronipoti; mi sconvolgeva pensare che ormai potevo avere facilmente una quindicina di generazioni di discendenti. Forse il nome Jericho circolava ancora…

E mi domandai se il Royal Ontario Museum esisteva ancora, se avevano riaperto il planetario o se in realtà il volo spaziale a buon mercato per tutti aveva infine, giustamente, reso ridondante quella istituzione.

Mi domandai se esisteva ancora il Canada, quel grande paese che tanto amavo.

Più di tutto, ovviamente, mi domandai se la razza umana esisteva ancora, se l’Uomo aveva scansato il veleno in fondo all’equazione di Drake, se aveva evitato di farsi saltare in aria da solo. Quando ero partito, avevamo armi nucleari da più di cinquant’anni; chissà se in un periodo otto volte superiore avevamo resistito alla tentazione di usarle.

O forse…

Era la scelta dei nativi di Epsilon Indi. E di quelli di Tau Ceti. E di Mu Cassiopeae A. E di Età Cassiopeae A. E anche di Sigma Draconis.

Perfino degli amorali esseri di Groombridge 1618, gli arroganti bastardi che avevano fatto saltare Betelgeuse.

Tutti quanti, se avevo ragione, erano trascesi in un regno delle macchine, in un mondo virtuale, in un paradiso generato da computer.

E a quest’ora, con altri quattro secoli di progressi tecnologici, senza dubbio l’Homo sapiens era in grado di fare la stessa cosa.

Forse l’Uomo l’aveva fatta. Forse l’aveva fatta.

Guardai Hollus, librata a mezz’aria: la reale Hollus, non il suo simulacro. La mia amica, in carne e ossa.

Forse l’Uomo aveva perfino preso l’imbeccata dai nativi di Mu Cassiopeae A, aveva fatto esplodere la Luna, aveva dato alla Terra anelli che rivaleggiavano con quelli di Saturno; certo, la nostra luna è relativamente più piccola di quella di Mu Cassiopeae e perciò contribuisce meno al sommovimento del nostro mantello terrestre. Eppure… forse adesso c’era un segnale d’avvertimento in qualche parte geologicamente stabile della Terra.

Ero andato di nuovo alla deriva, troppo lontano da una parete: avevo la tendenza a non badarci. Hollus manovrò in modo da venirmi vicino e prendermi per mano.

Mi augurai che l’Uomo non si fosse scaricato nei computer. Mi augurai che la razza fosse, be’, ancora umana… ancora calda e biologica e reale.

Non avevo modo di saperlo con certezza.

E l’entità era ancora lì ad aspettarci, dopo più di quattro secoli?

Sì.

Oh, forse non era rimasta sempre lì; forse aveva davvero calcolato quando saremmo giunti e si era allontanata a prendersi cura di altre cose nel frattempo. Mentre la Merelcas attraversava i 429 anni luce a velocità solo di un pelo inferiore a quella della luce stessa, il panorama era virato nell’ultravioletto, risultando quindi invisibile. Per gran parte di quel tempo l’entità poteva benissimo essere andata altrove.

E naturalmente forse non era davvero Dio, forse era solo una forma di vita estremamente progredita, una rappresentante di una razza antica, ma del tutto naturale. O forse era davvero una macchina, un massiccio sciame di entità frutto della nanotecnologia; non c’era motivo per cui una tecnologia progredita non potesse sembrare materia organica.

Ma dove si traccia la linea? Qualcosa… qualcuno… aveva deciso i parametri fondamentali per questo universo.

Qualcuno era intervenuto su almeno tre pianeti in un periodo di 375 milioni di anni, un tempo due milioni di volte più lungo del paio di secoli che le razze intelligenti parevano sopravvivere in forma corporea.

E ora qualcuno aveva salvato la Terra e Delta Pavonis II e Beta Hydri III dall’esplosione di una supergigante, assorbendo in un giro di istanti più energia di quella emessa da tutte le altre stelle della galassia, senza rimanerne distrutto.

Come si definisce Dio? Deve essere onnisciente? Onnipotente? Come dicono i Wreed, queste sono mere astrazioni, forse irraggiungibili. Deve essere definito, Dio, in un modo che lo ponga al di sopra della sfera della scienza?

Avevo sempre creduto che non ci fosse niente, al di là della sfera della scienza.

E ci credo ancora.

Dove si traccia la linea?

Proprio qui. Per me, la risposta era proprio qui.

Come si definisce Dio?

Così. Un Dio che potevo capire, almeno potenzialmente, era molto più interessante e importante di uno che sfidasse la comprensione.

Mi librai davanti a uno degli schermi a parete, con Hollus alla mia sinistra, altri sei Forhilnor accanto a lei, una fila di Wreed alla mia destra, E guardammo lui, l’entità. Risultò vasto circa 1,5 miliardi di chilometri… grosso modo il diametro dell’orbita di Giove. E di un nero così intenso che perfino il bagliore dello scarico di fusione della Merelcas, rimasto puntato da quella parte per due secoli di frenata, non vi si era riflesso.

L’entità continuò a eclissare Betelgeuse, o quel che ne restava, finché non fummo molto vicino. Allora rotolò via, movendo i sei arti come raggi di una ruota, lasciando scorgere l’ampia nebulosa che si era formata dietro di esso e al cui centro c’era la piccola pulsar, il cadavere di Betelgeuse.

Ma quella fu la sua unica reazione alla nostra presenza, almeno per quel che potevo dire. Rimpiansi di nuovo che non ci fossero veri oblò: forse, se ci avesse visto agitare il braccio, avrebbe risposto allo stesso modo, movendo in un arco lento e maestoso uno dei suoi enormi pseudopodi neri come ossidiana.

Roba da diventare pazzi: ero lì, a distanza di sputo da quello che poteva anche essere Dio, e lui pareva così indifferente nei miei riguardi come, be’, come quando dei tumori avevano cominciato a formarsi nei miei polmoni. Già una volta avevo tentato di parlare a Dio e non avevo ricevuto risposta, ma ora, maledizione, almeno la cortesia, se non altro, imponeva una risposta: avevamo fatto il viaggio più lungo che mai avessero fatto gli uomini o i Forhilnor o i Wreed.

Ma l’entità non fece alcun tentativo di comunicazione… almeno, nessuno che io o Zhu o Qaiser o addirittura Huhn riconoscessimo come tale. Neppure i Forhilnor parvero riuscire a contattarlo.

I Wreed però…

I Wreed, con la loro mentalità radicalmente diversa, col loro diverso modo di vedere, di pensare…

E con la loro incrollabile fede…

I Wreed parevano davvero in comunicazione telepatica con l’entità. Per anni avevano tentato di parlare a Dio e ora pareva che Dio parlasse a loro, in un modo che nessun altro poteva scorgere. I Wreed non avrebbero potuto esprimere ciò che era detto loro, proprio come non avrebbero potuto esprimere in maniera comprensibile le intuizioni sul significato della vita che davano loro pace; eppure iniziarono a costruire un congegno nella loro centrifuga.

Prima che fosse terminato, Lablok, il medico Forhilnor della Merelcas, capì di che cosa si trattava, basandosi sui principi generali di progettazione: un grande utero artificiale.

I Wreed presero campioni genetici del membro più anziano del loro gruppo, una femmina di nome K’t’ben, e del più anziano Forhilnor, un ingegnere di nome Geedas, e…

No, non miei, anche se rimpiansi che non l’avessero fatto: avrebbe portato completezza, conclusione.

No, presero il campione umano di Zhu, il vecchio contadino cinese.

Ci sono quarantasei cromosomi umani.

Ci sono trentadue cromosomi forhilnor.

Ci sono cinquantaquattro cromosomi wreed… anche se loro non li hanno mai contati.

I Wreed presero una cellula forhilnor ed estrassero dal nucleo tutto il dna. Poi con cura inserirono in quella cellula corredi diploidi di cromosomi di Geedas e di K’t’ben e di Zhu, cromosomi che si erano già divisi tante di quelle volte che i loro telomeri erano ridotti a niente. E quella cellula, contenente i 132 cromosomi di tre razze diverse, fu attentamente sistemata nell’utero artificiale e galleggiò in una vasca di liquido contenente basi di purina e di pirimidina.

Allora avvenne qualcosa di sorprendente… qualcosa che mi fece sobbalzare, che indusse Hollus a distanziare al massimo i peduncoli oculari. Ci fu un lampo di luce vividissima; i sensori della Merelcas rivelarono che un raggio di particelle era stato sparato dal centro esatto dell’entità ed era passato proprio attraverso l’utero artificiale.

Scrutando con uno scanner a ingrandimento l’interno dell’utero, si videro sorprendenti interazioni.

Cromosomi dei tre pianeti parvero cercarsi l’un l’altro, unendosi in lunghi fili. Alcuni consistevano di due cromosomi forhilnor uniti insieme e con un cromosoma wreed nella parte terminale; Hollus aveva parlato dell’equivalente forhilnor della sindrome di Down e di come cromosomi mancanti di telomere potevano unirsi portando a contatto le rispettive parti terminali, una capacità innata, a prima vista inutile, perfino dannosa; ma ora…

Altre catene consistevano di cromosomi umani posti in mezzo a cromosomi forhilnor e wreed. Alcune catene erano lunghe solo due cromosomi: in genere, uno umano e uno forhilnor. E sei cromosomi dei Wreed rimasero inalterati.

Era adesso evidente che le catene di dna avevano la capacità innata di fare molto di più, non semplicemente morire o formare tumori, una volta eliminati i loro telomeri. Anzi, i cromosomi privi di telomero erano pronti per l’ultimo passo lungamente atteso. E ora che forme di vita intelligenti di diversi mondi erano finalmente, con una piccola spinta, venute in esistenza insieme, quei cromosomi erano in grado di muovere quel passo.

Ora capii perché il cancro esisteva… perché Dio aveva bisogno di cellule che continuassero a dividersi anche dopo avere esaurito i telomeri. I tumori in forme di vita isolate erano semplicemente uno sfortunato effetto collaterale; come T’kna aveva detto, “Lo specifico spiegamento di realtà che includeva il cancro, presumibilmente indesiderabile, di sicuro conteneva anche qualcosa di molto desiderato”. E la cosa molto desiderata era questa: la capacità di legare cromosomi, di unire specie diverse, di concatenare forme di vita… il potenziale biochimico per creare qualcosa di nuovo, qualcosa di più.

Battezzai i cromosomi combinati: li chiamai ipersomi.

E gli ipersomi facevano ciò che fanno i normali cromosomi: si riproducevano, aprendosi nel senso della lunghezza, separandosi in due parti, aggiungendo le basi corrispondenti prelevate dal brodo nutritivo… una citosina accoppiata a ogni guanina; una timina per ogni adenina… per riempire le loro metà ora carenti.

Qualcosa di affascinante si verificò la prima volta che gli ipersomi si riprodussero: la catena divenne più corta! Grandi sequenze di dna della regione intragenica… ciarpame… caddero via durante il processo di copiatura. Anche se gli ipersomi contenevano il triplo di dna attivo rispetto ai normali cromosomi, formavano sequenze molto più compatte. Gli ipersomi non aumentavano il limite teorico di grandezza per cellule biologiche; anzi, stipavano più informazioni in meno spazio.

E naturalmente, quando gli ipersomi si riprodussero, la cellula che li conteneva si suddivise, creando due cellule figlie.

E poi queste cellule si divisero. Ancora e ancora.

Prima della parie centrale del cambriano, la vita aveva avuto un vincolo fondamentale imposto dal fatto che le cellule fertilizzate non potevano suddividersi più di dieci volte, limitando gravemente la complessità degli organismi risultanti.

Poi si verificò l’esplosione del cambriano e la vita di colpo divenne più evoluta.

C’erano però ancora dei limiti. Un feto poteva ingrossarsi solo fino a un certo punto: neonati umani e Forhilnor e Wreed rientravano tutti nell’ordine massimo di cinque chilogrammi. Neonati più grandi avrebbero richiesto canali di nascita enormemente più larghi; sì, corpi più grandi avrebbero potuto ospitare cervelli più grandi, ma gran parte della massa cerebrale aggiunta sarebbe servita solo a controllare il corpo più grande. Forse, solo forse, una balena era intelligente come l’uomo… ma non più intelligente. La vita aveva raggiunto, pareva, il conclusivo livello di complessità.

Invece il feto spinto da ipersomi continuò a diventare sempre più grande nell’utero artificiale. Ci eravamo aspettati che a un certo punto smettesse di crescere: oh, un Forhilnor poteva nascere con un cromosoma di doppia lunghezza; un bambino umano poteva sopravvivere per un certo tempo pur avendo tre cromosomi ventuno. Ma questa combinazione, questa folle miscela genetica, questo guazzabuglio, era certamente esagerato, spingeva troppo lontano i limiti del possibile. Molte gravidanze… wreed o forhilnor o umane… abortiscono spontaneamente allo stadio iniziale, quando qualcosa va male nello sviluppo dell’embrione, di solito ancora prima che la madre si renda conto d’essere incinta.

Il nostro feto però, il nostro impossibile triplo ibrido, non abortì.

In tutte e tre le specie, l’ontogenesi, ossia lo sviluppo del feto, pare ricapitolare la filogenesi, ossia la storia evolutiva di quell’organismo. Gli embrioni umani sviluppano e poi scartano branchie, coda e altri chiari echi del proprio passato evolutivo.

Anche quel feto attraversava degli stadi, mutava la propria morfologia. Ero incredulo… mi pareva di guardare l’esplosione cambriana svolgersi sotto i miei occhi, centinaia di piani corporei provati e scartati. Simmetria radiale, simmetria quadrilatera, simmetria bilaterale. Orifizi per la respirazione e branchie e polmoni e altre cose che nessuno di noi riconobbe. Code e appendici non meglio definite, occhi compositi e peduncoli oculari, corpi segmentati e corpi ininterrotti.

Nessuno aveva mai capito che cosa significava l’ontogenesi che ricapitolava in apparenza la filogenesi, ma non si trattava di una vera ripetizione della storia evolutiva dell’organismo… ciò era evidente, dal momento che le forme non erano uguali a quelle trovate come fossili. Ora però lo scopo pareva chiaro: il dna conteneva di sicuro una routine d’ottimizzazione, provava ogni possibile mutazione e poi sceglieva quali adattamenti esprimere. Vedevamo non solo soluzioni terrestri e di Beta Hydri e di Delta Pavonis, ma anche miscele di tutte e tre.

Alla fine, dopo quattro mesi, il feto parve decidersi per un piano corporeo, una fondamentale architettura diversa da quella dell’Uomo e dei Forhilnor e dei Wreed. Il corpo del feto consisteva in un tubo a ferro di cavallo, circondato da un anello dal quale derivavano sei arti. C’era uno scheletro interno in formazione, visibile nella sostanza trasparente del corpo, ma non era di osso liscio, bensì di fasci di materiale intrecciato.

Pensammo di dare un nome all’embrione. Lo chiamammo Wibadal, parola forhilnor che significava “pace”.

Un’altra figlia che non sarei vissuto tanto da veder crescere.

Come per il mio Ricky, però, sono sicuro che sarebbe stata una figlia adottiva, curata e nutrita se non dall’equipaggio della Merelcas, dall’enorme tenebra palmata che si estendeva nel cielo.

Dio era il programmatore.

Le leggi della fisica e le costanti fondamentali erano il codice sorgente.

L’universo era l’applicazione. E contava 13,9 miliardi di anni, fino a quel momento.

Il fatto che la capacità di trascendere, di scartare la biologia, giungesse troppo presto nella vita di una razza, era un baco, una falla nel progetto, una complicazione non voluta. Alla fine però, mediante accurata manipolazione, il programmatore aveva eliminato quel baco.

E Wibadal?

Wibadal era il risultato. Il punto di tutto.

Le augurai buona fortuna.

Era l’antico modo di procedere, il motore che aveva sempre spinto l’evoluzione. Una vita termina; un’altra inizia.

Fui di nuovo posto in animazione sospesa e trascorsi i successivi undici mesi senza subire altre degenerazioni provocate dal cancro. Quando la gestazione di Wibadal si concluse, Hollus mi risvegliò per quella che, lo sapevamo tutt’e due, sarebbe stata l’ultima volta.

I Wreed avevano annunciato che quello sarebbe stato il giorno; la bambina era ormai completa e sarebbe stata tolta dall’utero artificiale. — Possa esprimere il meglio di tutti noi — disse T’kna, il Wreed che avevo conosciuto all’inizio, per telepresenza, tanti mesi… e tanti secoli… fa.

Hollus ballonzolò. — Amen — disse.

Ero ancora intontito per il risveglio, ma guardai affascinato Wibadal che veniva estratta dall’utero. Venne al mondo piangendo, proprio come avevo fatto io e tutti i miliardi di creature nati prima di me.

Hollus e io passammo delle ore solo a guardarla, una creatura strana, bizzarra, già grande la metà di me.

— Chissà quale sarà la sua durata di vita — dissi alla mia amica forhilnor; forse era una domanda insolita, ma la durata di vita era una cosa che avevo sempre in mente.

— Chi può saperlo? — rispose Hollus. — La mancanza di telomeri non sembra essere per lei un ostacolo. Le sue cellule potrebbero continuare a riprodursi per sempre e…

Si interruppe.

— E si riprodurranno per sempre — concluse, dopo qualche istante di riflessione. — Quella entità — e indicò la tenebra inquadrata al centro di uno schermo a parete — è sopravvissuta all’ultimo Big Crunch e Big Bang. Wibadal, sospetto, sopravvivrà al prossimo, diventerà il Dio dell’universo che succederà a questo.

Era un’idea sconcertante, ma forse Hollus aveva ragione. Io però non sarei vissuto tanto da saperlo con certezza.

Wibadal era dietro la parete di vetro di una sala maternità costruita apposta, contenente una culla circolare. Picchiettai sul vetro, come i genitori del mio mondo hanno fatto milioni di volte prima di me. Picchiettai e agitai il braccio.

E Wibadal si mosse e agitò verso di me una tozza appendice. Forse il Dio attuale non aveva mai riconosciuto la mia presenza… anche quando ero venuto proprio da lui, era stato sempre indifferente nei miei riguardi… ma quel Dio in fieri mi aveva notato, almeno una volta, almeno per un momento.

E per quel momento non sentii dolore.

Presto però il dolore tornò; era peggiorato a poco a poco e io ero diventato sempre più debole.

Il tempo stava per scadere.

Scrissi un’ultima, lunga lettera a Ricky, nel caso che, per miracolo, fosse ancora vivo. Hollus la trasmise per me alla Terra; sarebbe giunta fra circa mezzo millennio. Dissi a mio figlio ciò che avevo visto qui e quanto gli volevo bene.

E poi chiesi a Hollus un ultimo favore, un’ultima cortesia. Le chiesi una di quelle cose che solo un buon amico può chiedere a un altro. Le chiesi di aiutarmi ad andarmene, a morire. Avevo portato con me dalla Terra solo pochi effetti personali, oltre alle medicine e agli analgesici. Avevo portato però un testo di biochimica con i dati sufficienti perché il medico di bordo della Merelcas potesse sintetizzare qualcosa che ponesse alla mia vita una fine rapida e indolore.

Hollus stessa mi iniettò la sostanza e si sedette accanto al mio letto, tenendomi la mano: la sua pelle a bolle fu l’ultima cosa che sentii.

Dissi a Hollus di scrivere le mie ultime parole e di trasmetterle alla Terra, anche queste, in modo che Ricky o chiunque ci fosse ancora, sapesse ciò che avevo detto. Forse lui o uno dei miei pronipoti dell’ennesima generazione avrebbe potuto scrivere un libro sul primo contatto fra un extraterrestre e un essere che, suppongo, era fin troppo umano.

Fui sorpreso dei miei ultimi pensieri. — Sai — dissi a Hollus, i cui peduncoli oculari si muovevano avanti e indietro — ricordo il primo momento in cui rimasi affascinato dai fossili.

Hollus attese che continuassi.

— Fu sulla spiaggia — dissi. — Giocavo con i sassi e fui stupito di trovare una conchiglia incastonata in uno di essi. Avevo trovato una cosa che non avevo mai saputo di cercare. — Il dolore diminuiva; tutto scivolava via. Strinsi la mano della Forhilnor. — Credo d’essere un uomo fortunato — dissi, sentendo la pace scendere su di me. — L’esperienza si è ripetuta.

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