Entrai come una furia nel mio ufficio. In mia assenza, Hollus aveva guardato i calchi endocraniali; spronato dai miei commenti, adesso esplorava l’ascesa dell’intelligenza nei mammiferi dopo il limite K/T. Non sapevo mai se leggevo con accuratezza il suo linguaggio del corpo, ma lui pareva non avere difficoltà a leggere il mio. — Sembri sconvolto — disse.
— La dottoressa Dorati… la direttrice del museo, la ricordi? — Ormai l’aveva incontrata diverse volte, oltre che in occasione della visita del primo ministro. — Vuole costringermi a mettermi in permesso malattia. Mi vuole sbattere fuori.
— Perché?
— Sono il potenziale Ammazza-vampiri, ricordi? Un suo avversario nella politica gestionale del museo. Lei ha portato il rom in una direzione alla quale si sono opposti alcuni di noi curatori. E ora ha visto l’occasione di sostituirmi con una persona che condivide le sue idee.
— Il permesso malattia… di sicuro riguarda le tue condizioni di salute.
— Non ha altro modo per sbattermi fuori.
— Qual è la natura della vostra disputa?
— Credo che il museo debba essere un luogo di studio e che debba fornire il maggior numero di informazioni possibili su ciò che espone. Lei crede che il museo debba essere un’attrazione turistica, senza intimidire i profani, con fatti, cifre e parole difficili.
— E questa faccenda è importante?
Rimasi sorpreso dalla domanda. Mi era parsa importante, quando avevo iniziato a combattere Christine, tre anni prima. L’avevo anche definita, in un’intervista al “Toronto Star” sul casino al ROM, “la battaglia della mia vita”. Era successo però prima che il dottor Noguchi mi mostrasse la macchia scura nei miei polmoni passati a raggi X, prima che iniziassi a sentire il dolore, prima che facessi la chemioterapia, prima che…
— Non so — risposi in tutta onestà.
— Mi spiace che tu sia in difficoltà — disse Hollus.
Mi mordicchiai il labbro. Non avevo diritto di parlarne, però… — Ho detto alla dottoressa Dorati che te ne saresti andato, se lei mi avesse sbattuto fuori.
Hollus rimase in silenzio per alcuni momenti. Su Beta Hydri III era stato anche lui una sorta di accademico; senza dubbio capiva quale prestigio la sua presenza conferisse al rom. Forse però gli avevo fatto un grave affronto, rendendolo una pedina in un gioco politico. Lui poteva di sicuro vedere più avanti di me, di sicuro sapeva che forse quel gioco sarebbe diventato sporco. Mi ero spinto troppo oltre; me ne rendevo conto.
Eppure… chi mi poteva biasimare? Christine avrebbe vinto in ogni caso. Fin troppo presto.
Hollus indicò il telefono sulla scrivania. — Ti ho già visto usare quell’apparecchio per comunicare con altri in questo edificio — disse.
— Il telefono? Sì.
— Puoi collegarti con la dottoressa Dorati?
— Uhm, sì, però…
— Chiamala.
Esitai per un attimo, poi presi il microfono e composi le tre cifre dell’interno di Christine.
— Dorati — disse la voce di Christine.
Porsi a Hollus la cornetta. — Non posso usarlo — disse lui. Era ovvio: aveva due bocche separate. Premetti il tasto del viva voce e con un cenno gli indicai di parlare.
— Dottoressa Dorati, parla Hollus deten stak Jaton — disse l’alieno. Per la prima volta sentivo il suo nome completo. — Le sono grato per l’ospitalità e il permesso di fare ricerche qui, ma le telefono per informarla che Thomas Jericho è parte integrante del mio lavoro; se lui lascerà questo museo, lo seguirò dovunque vada.
Seguì un silenzio di vari secondi. — Capisco — disse poi la voce di Christine.
— Chiudi il collegamento — mi disse Hollus. Premetti il pulsante.
Sentii il cuore saltare qualche colpo; non sapevo se Hollus avesse fatto la cosa giusta. Ero però profondamente commosso per il suo sostegno. — Grazie — dissi.
Il Forhilnor fletté le ginocchia superiori e inferiori.
— La dottoressa Dorati era tutta a sinistra.
— Tutta a sinistra?
— Scusa. Volevo dire che ha fatto la cosa sbagliata, secondo me.
Intervenire era il minimo che potessi fare.
— Anch’io pensavo che fosse sbagliato. Ma… be’, pensavo che fosse sbagliato anche raccontarle che tu saresti andato via con me, se mi avesse cacciato.
Restai in silenzio per un poco. Alla fine Hollus disse:
— In troppi casi è difficile stabilire cos’è giusto o cos’è sbagliato. Al tuo posto, probabilmente mi sarei comportato come te. — Ballonzolò. — A volte rimpiango di non avere l’intuizione dei Wreed in queste faccende.
— Ne hai già parlato. Perché i Wreed se la cavano meglio di noi nelle questioni relative alla morale?
Hollus spostò da piede a piede il peso del corpo. — I Wreed non hanno il fardello del raziocinio… del tipo di logica che tu e io adottiamo. La matematica forse li confonde, ma le questioni filosofiche, il significato della vita, l’etica e la morale confondono noi! Abbiamo a livello intuitivo il senso del giusto e dello sbagliato, ma ogni teoria morale che elaboriamo fallisce. Mi hai mostrato quei film di Star Trek…
Era vero: Hollus era rimasto incuriosito da quegli episodi, al punto da voler guardare anche i primi tre classici film di Star Trek. — Sì — dissi.
— In uno di essi, quell’impossibile ibrido moriva.
— In Vira di Khan — confermai.
— Sì. Il concetto di base era che “il bisogno di molti pesa di più del bisogno di pochi o di uno solo”. Noi Forhilnor abbiamo sentimenti simili. È un tentativo di applicare la matematica, in cui siamo bravi, all’etica… in cui non siamo bravi. Simili tentativi però non riescono mai. Nel film in cui l’ibrido rinasceva…
— In cerca di Spock — dissi.
Hollus congiunse i bulbi oculari. — In quel film, apprendiamo che la prima formulazione era difettosa e in realtà “il bisogno di uno solo pesa di più del bisogno di molti”. Intuitivamente pare giusto che il tipo coi capelli finti e agli altri fossero disposti a sacrificare la propria vita per salvare un compagno non imparentato con loro, anche se il fatto sfidava la logica matematica. Eppure ciò accade ogni volta: molte società umane e tutte quelle forhilnor sono democratiche; sostengono il principio che ciascun individuo ha l’identico valore. Anzi, ho visto la grande frase escogitata dai vostri vicini più a sud: “Riteniamo evidente di per sé questa verità, che tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Eppure il popolo che scrisse queste parole possedeva schiavi e non si accorgeva dell’ironia, per usare una parola che mi hai insegnato tu, di quel fatto.
— Vero.
— Molti scienziati umani e forhilnor hanno tentato di ridurre l’altruismo a imperativi genetici, ipotizzando che il grado di sacrificio che siamo disposti a fare per un altro è proporzionale alla quantità di materiale genetico che condividiamo. Tu o io, dicono questi scienziati, non ci lasceremmo morire per salvare un parente o un figlio, ma riterremmo uno scambio equo quello in cui la nostra vita salvasse due parenti o figli, poiché fra di loro hanno in totale la stessa quantità di nostri geni. E sacrificheremmo senz’altro noi stessi per salvare tre parenti o figli, poiché quella quantità rappresenta una maggiore concentrazione di nostro materiale genetico rispetto a quella del nostro corpo.
— Io morirei per salvare Ricky — dissi.
Hollus indicò la foto sulla mia scrivania, rivolta con la parte posteriore verso di lui. — Eppure, se ho capito ciò che hai detto, Ricky non è tuo figlio naturale.
— Esatto. I suoi genitori naturali non l’hanno voluto.
— Cosa che confonde su due livelli: che i genitori ripudino la propria prole in buona salute e che i non genitori adottino un figlio altrui. E poi ci sono molte brave persone che, contro ogni logica genetica, hanno deciso di non avere figli. Semplicemente non esiste una formula che descriva con successo la portata delle scelte forhilnor o umane nell’ambito dell’altruismo e del sacrificio; due cose che non si possono ridurre a matematica.
Riflettei su quelle parole: certo, l’intervento di Hollus in mio favore contro Christine era altruistico, ma non aveva proprio niente a che vedere col favorire parentele genetiche. — Penso di sì — dissi.
— Però — proseguì Hollus — i nostri amici Wreed, non avendo mai sviluppato la matematica tradizionale, non sono mai tormentati da simili faccende.
— Be’, io ne sono certamente tormentato. Nel corso degli anni, spesso mi sono rigirato nel letto nel tentativo di risolvere dilemmi morali. — Mi venne in mente la vecchia storiella dell’agnostico insonne e dislessico: stava sveglio la notte a domandarsi se un Dog esiste. — Voglio dire, da dove proviene la morale? Sappiamo che è sbagliato rubare… — Esitai. — Lo sappiamo, vero? I Forhilnor hanno un tabù sul furto?
— Sì, ma non è innato. I bambini forhilnor prendono ciò che riescono a prendere.
— Lo stesso vale per i bambini umani. Crescendo, ci rendiamo conto che rubare è sbagliato e tuttavia… perché sentiamo che è sbagliato? Se accresce il successo riproduttivo, non dovrebbe essere stato favorito dall’evoluzione? Se è per questo, riteniamo che l’infedeltà sia sbagliata, ma accrescerei il mio successo riproduttivo, se ingravidassi varie femmine. Se il furto è vantaggioso per chi lo realizza e l’adulterio è una buona strategia, almeno per i maschi, per una maggiore presenza nel pool genetico, perché sentiamo che sono sbagliati? L’unica morale prodotta dall’evoluzione non dovrebbe essere quella di Clinton… dispiacersi d’essersi fatto sorprendere?
Hollus agitò i peduncoli oculari più rapidamente del solito. — Non ho una risposta. Lottiamo per trovare soluzioni alle domande morali, ma restiamo sempre sconfitti. Eminenti pensatori, umani e forhilnor, si sono chiesti qual è il significato della vita e come si fa a sapere che un comportamento è moralmente sbagliato. Malgrado secoli di tentativi, però, non c’è stato alcun progresso. Le domande sono fuori della nostra portata, come: “Quanto fa due più due?” è fuori della portata di un Wreed.
Scossi la testa, incredulo. — Trovo ancora incredibile che i Wreed non riescano a capire che due oggetti più due oggetti facciano quattro oggetti.
Hollus si sporse verso di me, flettendo il ginocchio inferiore di tre gambe. — E loro trovano incredibile che noi non riusciamo a vedere le verità basilari delle questioni morali. La nostra mente spezza i problemi in parti elaborabili. Se ci chiediamo come mai un pianeta si mantiene in orbita intorno al suo sole, possiamo porci numerose domande più semplici… come mai un sasso resta per terra, perché il sole è al centro del sistema solare… e risolvendo queste ultime, possiamo rispondere fiduciosamente anche alla domanda più complessa. Tuttavia i problemi di etica e di morale e il significato della vita non sono riducibili ad altri meno complessi, come i cilia nelle cellule: non ci sono componenti trattabili a sé.
— Vuoi dire che essere uno scienziato, un ragionatore, come… be’, come te o come me… sia fondamentalmente incompatibile con la soluzione di questioni morali e spirituali?
— Alcuni hanno successo in entrambe… ma di solito ci riescono mediante divisione in compartimenti. La scienza è responsabile di certe questioni; la religione, di altre. Coloro però che cercano una singola, totale visione del mondo trovano ben poche soluzioni. Una mente è portata per l’una o per l’altra, non per tutt’e due.
Ricordai la scommessa di Pascal: meglio puntare sull’esistenza di Dio, anche se non esiste, che rischiare la dannazione eterna, se ci si sbaglia. Pascal, ovviamente, era un matematico; aveva una mente logica, razionale; una mente umana. Il vecchio Blaise non aveva avuto scelta, sul tipo di cervello che aveva; gli era stato lasciato in eredità dall’evoluzione, come il mio a me.
Se però avesse avuto scelta?
Se io avessi potuto scambiare un po’ di perplessità in questioni reali per la certezza in questioni di etica, avrei fatto così? Cosa ancora più importante: conoscendo la precisa relazione filogenetica fra tutte le varie branche nel sottobosco evolutivo o conoscendo il significato della vita?
Hollus se ne andò, per quel giorno, e mi lasciò da solo con i miei libri e i fossili e il lavoro ancora da finire.
Mi ritrovai a pensare alle cose che volevo fare un’ultima volta, prima di morire. A quello stadio avevo un grande desiderio, capii, di ripetere esperienze piacevoli, anziché averne di nuove.
Alcune delle cose che volevo rifare erano ovvie: amore con mia moglie, abbracci a mio figlio, una visita a Bill.
C’erano anche quelle meno ovvie… cose che erano uniche, per me. Volevo andare di nuovo all’Ottagono di Thornhill, il mio locale preferito per le bistecche, dove avevo fatto a Susan la proposta di matrimonio. Sì, anche con la nausea provocata dalla chemioterapia, volevo andarci ancora una volta.
E volevo rivedere Casablanca.
Volevo vedere i Blue Jays vincere ancora una volta il campionato nazionale… ma le probabilità che ci riuscissi erano minime.
Volevo tornare a Drumheller e girare tra le fantastiche colonne naturali di roccia, bere tra i calanchi del Nebraska al tramonto, con ululati di coyote in lontananza e frammenti di fossili sparsi tutt’intorno.
Volevo visitare il mio vecchio quartiere, a Scarborough. Volevo camminare nelle vie della mia infanzia, guardare la vecchia casa dei miei genitori o fermarmi nel cortile della scuola pubblica William Lyon Mackenzie King e lasciarmi travolgere dai ricordi di amici di decine d’anni fa.
Volevo dare una spolverata al vecchio impianto da radioamatore e ascoltare, solo ascoltare, le voci nella notte, da tutto il mondo.
Ma, più di tutto, volevo tornare con Ricky e Susan nel nostro cottage sul lago Otter e sedermi sul pontile, a sera, sul tardi, quando zanzare e mosche erano sparite, e guardare la luna levarsi, il riflesso della sua faccia butterata sull’acqua calma, e ascoltare l’ossessionante richiamo di una strolaga e il rumore dei pesci che saltano fuori dell’acqua, distendermi in poltrona, mani dietro la testa, e mandare un sospiro di soddisfazione e non sentire nessun dolore.