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Cosa si fa negli ultimi istanti di vita? A differenza dei sei miliardi di esseri umani che avevano appena ricevuto la sentenza di morte, io già da tempo mi preparavo alla dipartita. Mi aspettavo però che giungesse con più calma, con me in un letto di ospedale, assistito da Susan, forse da mio fratello Bill, da qualche amico e forse perfino dal coraggioso piccolo Ricky.

L’esplosione di Betelgeuse però era del tutto imprevista; non l’avevamo anticipata. Oh, come Hollus aveva detto tempo prima, sapevamo che prima o poi Betelgeuse sarebbe diventata supernova, ma non avevamo motivo di ritenere che accadesse proprio adesso.

La metropolitana di Toronto, secondo la radio, era già affollata. La gente scendeva nelle stazioni, saliva sulle vetture, si augurava di trovare protezione restando nel sottosuolo. I passeggeri si rifiutavano di uscire dai convogli, anche al capolinea.

Le strade fuori del rom erano già diventate parcheggi, un unico ingorgo. Volevo essere con la mia famiglia, proprio come tutti, ma pareva che non ci fosse modo di riuscirci. Tentai ripetutamente di telefonare a Susan in ufficio, ma ottenni solo segnali d’occupato.

Ovviamente la morte non sarebbe stata istantanea. Sarebbero trascorse settimane, perfino mesi, prima che l’ecosistema crollasse. In quel momento lo strato di ozono ci proteggeva dai fotoni ad alta energia e naturalmente la grandine di particelle pesanti cariche, che viaggiavano a velocità inferiore a quella della luce, ancora non era giunta fino a noi. Presto però l’assalto da Betelgeuse avrebbe distrutto lo strato di ozono e le radiazioni dure della stella in esplosione e del nostro stesso sole avrebbero raggiunto il terreno, distruggendo i tessuti viventi. Di sicuro sarei riuscito a riunirmi a mia moglie e a mio figlio, prima della fine. Per il momento, però, pareva che la mia unica compagnia sarebbe stata il simulacro di una creatura aliena.

La prima emissione da Betelgeuse aveva già rovinato la rete di comunicazioni telefoniche basate sui ripetitori satellitari e perciò non era sorprendente che vedessi il simulacro di Hollus palpitare di tanto in tanto, mentre la cacofonia elettromagnetica di Orione interferiva con le trasmissioni fra la reale Hollus sopra l’Ecuador e il suo ologramma a Toronto.

— Vorrei essere con Susan — dissi guardando la Forhilnor davanti alla scrivania ingombra di lavori non conclusi.

Con mio stupore, Hollus alzò davvero la voce, cosa che non le avevo mai visto fare. — Almeno tu hai buone probabilità di rivedere la tua famiglia, prima della fine — disse. — Pensi di essere davvero lontano da casa? Io non posso neppure mettermi in contatto con i miei figli. Se Betelgeuse colpisce la Terra con questa forza, colpirà allo stesso modo anche Beta Hydri III. Non posso nemmeno trasmettere per radio un addio a Kassold e a Pealdon; non solo ci sono troppe interferenze, ma i segnali radio li raggiungerebbero solo fra ventiquattro anni.

— Scusami — dissi. — Non ci pensavo.

— No, non ci pensavi — sbottò Hollus, schizzando davvero saliva dalla bocca sinistra. Ma dopo un momento si calmò un poco. — Chiedo scusa. Solo, voglio molto bene ai miei figli. Sapere che loro… che tutta la mia razza… stanno per morire…

Guardai la mia amica. Mancava dal suo mondo già da tanto tempo, era all’oscuro di ciò che vi accadeva ormai da anni. Suo figlio e sua figlia erano già adulti, quando lei era partita nel grandioso giro di otto sistemi solari, ma ora… ora, probabilmente erano nella mezza età, forse perfino biologicamente più vecchi di lei stessa, perché lei aveva viaggiato a velocità relativistiche per gran parte del tempo.

In realtà era ancora peggio, a pensarci. Betelgeuse si trovava nel cielo settentrionale della Terra; Beta Hydri, in quello meridionale; quindi la Terra si trovava fra le due stelle. Sarebbero trascorsi vari anni prima che l’accresciuta luminosità di Betelgeuse fosse visibile da Beta Hydri III, ma non c’era modo di mandare un avvertimento: niente poteva raggiungere quel pianeta più velocemente dei rabbiosi fotoni di Betelgeuse già in viaggio.

Hollus cercava chiaramente di riprendere il controllo di sé. — Vieni — disse alla fine, ballonzolando lentamente, con decisione. — Tanto vale uscire a guardare lo spettacolo.

Scendemmo in ascensore e uscimmo dall’ingresso del personale. Ci fermammo sullo stesso tratto di cemento dove la navetta di Hollus era atterrata la prima volta.

Per quanto ne sapevo, la Forhilnor e i suoi colleghi erano impegnati a spostare l’astronave in posizione di massima sicurezza. Ma il simulacro dell’aliena era lì con me, davanti al rom, all’ombra della cupola del planetario deserto, a guardare il cielo. Perfino gran parte dei passanti guardava la volta celeste, anziché il bizzarro alieno simile a un ragno.

Betelgeuse era chiaramente visibile, sopra la via, verso Queen’s Park, a circa un terzo del cielo di sudest. Era inquietante, vedere una stella brillare di giorno. Cercai d’immaginare il resto della sagoma di Orione contro lo sfondo azzurro, ma non avevo idea di come fosse orientata, a quell’ora del giorno.

Altri addetti al museo e visitatori uscirono a unirsi alla folla sempre più numerosa sul lato della strada. E dopo alcuni minuti, l’astronomo Donald Chen, il morto ambulante, uscì dall’ingresso del personale e si diresse verso di noi, altri morti ambulanti.

Il telescopio spaziale Hubble era stato immediatamente puntato su Betelgeuse. Immagini molto migliori erano ottenute dall’astronave di Hollus, la Merelcas, ed erano trasmesse sulla Terra, a disposizione di tutti. Anche prima che la stella avesse iniziato a espandersi, i telescopi dell’astronave erano riusciti a risolvere Betelgeuse in un disco rosso macchiato di chiazze solari più fredde e punteggiato di chiazze convettive più calde, il tutto circondato da una magnifica corona color ruggine.

Ora però la diafana atmosfera esterna era stata soffiata via in una fenomenale esplosione e la stella si espandeva rapidamente, varie volte più grossa del normale… anche se, essendo Betelgeuse una stella variabile, era difficile dire quale fosse la sua grandezza normale. Tuttavia non aveva mai nemmeno sfiorato quelle dimensioni. Un guscio biancogiallastro di gas iperriscaldato, un micidiale plasma, si espandeva verso l’esterno dal disco sempre più grande, precipitandosi in tutte le direzioni.

Da terra, alla luce del giorno, potevamo vedere solo un vivido punto luminoso che lampeggiava e tremolava.

I telescopi dell’astronave però mostravano di più.

Molto di più. Incredibilmente di più.

Mostravano un’altra esplosione che scuoteva la stella (Betelgeuse si muoveva leggermente nel campo visivo del telescopio) e altro plasma che schizzava nello spazio.

E poi quello che pareva un piccolo squarcio verticale, dai bordi frastagliati, i lati messi in risalto da accecante energia biancazzurra, si aprì a breve distanza sulla destra della stella. Lo squarcio divenne più lungo, più frastagliato e poi…

… e poi una sostanza più nera dello spazio stesso cominciò a defluire dallo squarcio e riversarsi nel vuoto. Era viscosa, quasi come pece che sgorgasse dall’altro lato, ma…

Ma ovviamente non esisteva nessun “altro lato”: un buco non poteva comparire nella parete dell’universo, malgrado la mia fantasia sul prendere lo spazio stesso e ripiegarlo come il lembo di un tendaggio. L’universo, per definizione, era autocontenuto. Se la tenebra non proveniva dall’esterno, allora lo squarcio doveva essere un tunnel, un “foro di tarlo”, una giuntura, una distorsione, una porta spaziale, una scorciatoia… qualcosa che congiungesse due punti del cosmo.

La massa nera continuò a defluire. Aveva bordi definiti: le stelle scomparivano appena toccate. Presumendo che si trovasse davvero nelle vicinanze di Betelgeuse, era di sicuro enorme; lo squarcio era lungo più di cento milioni di chilometri e ciò che ne defluiva varie volte più lungo. Ovviamente, poiché la cosa era di un nero assoluto e non irradiava né rifletteva luce, non aveva spettro da analizzare alla ricerca di effetti Doppler e non era facile determinarne la distanza mediante la parallasse.

In breve l’intera massa era uscita dallo squarcio. Aveva una struttura palmata: un grumo centrale, con sei distinte appendici. Appena fu libera, lo squarcio nello spazio si chiuse e scomparve.

La moribonda Betelgeuse si contraeva di nuovo. Ciò che era avvenuto fino a quel momento, disse Donald Chen, era solo il preambolo. Quando il gas in caduta verso il centro di gravità avesse colpito una seconda volta il nucleo di ferro, la stella sarebbe realmente esplosa, con tale luminosità che perfino noi, a quattrocento anni luce dì distanza, non avremmo potuto guardarla direttamente.

L’oggetto nero si muoveva nel firmamento rotolando come una ruota a raggi, come se (non era possibile; no, non era possibile) le sue sei estensioni trovassero appoggio sul tessuto stesso dello spazio. L’oggetto si muoveva verso il disco in contrazione di Betelgeuse. La prospettiva era ingannevole… solo quando una delle sei estensioni della massa nera toccò e poi coprì il bordo del disco, fu chiaro che l’oggetto era un po’ più vicino alla Terra di Betelgeuse.

Mentre la stella continuava a collassare, l’oggetto nero si frappose ancora, fino a eclissare in breve Betelgeuse. Da terra vedemmo tutti che la stella superluminosa era scomparsa; il sole non aveva più un rivale nel cielo diurno. Grazie ai telescopi della Merelcas, però, la forma nera era chiaramente visibile, una macchia d’inchiostro dalle molte braccia contro lo sfondo di una spolverata di stelle. E poi…

E poi Betelgeuse si comportò di sicuro come Chen aveva detto che avrebbe fatto, esplose dietro la massa nera, con più energia di cento milioni di soli. Vista da mondi sul lato opposto, la grande stella era di sicuro avvampata enormemente, un’eruzione di luce accecante e di calore cauterizzante, accompagnata da urla di disturbi radio. Ma dalla Terra…

Dalla Terra tutto ciò era invisibile. La macchia d’inchiostro però parve proiettarsi avanti, verso l’occhio dei telescopi, come se fosse stata colpita da dietro, e la chiazza centrale si dilatò a riempire una parte maggiore del campo visivo, mentre si avvicinava a grande velocità. Le sei braccia, nel frattempo, furono soffiate indietro, come i tentacoli di una seppia spinta a testa avanti dal getto d’inchiostro.

Qualsiasi cosa fosse quell’oggetto, sopportò il peso maggiore dell’esplosione, schermando la Terra e presumibilmente anche i pianeti dei Forhilnor e dei Wreed, dal colpo che altrimenti avrebbe distrutto lo strato di ozono del nostro pianeta e dei loro.

Fermi fuori del rom, non sapevamo che cosa fosse accaduto… non ancora, non a quel tempo. Ma a poco a poco su di noi albeggiò la comprensione, anche se non la supernova. In qualche modo, i tre pianeti sarebbero stati risparmiati.

La vita sarebbe continuata. Incredibilmente, miracolosamente, la vita sarebbe continuata.

Per alcuni, almeno.

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