16

Cooter Falsey aggrottò le sopracciglia, confuso. — Cosa significa che ciò che cerchiamo è già morto?

Ewell era ancora seduto sul bordo del letto. — Qui hanno un museo e in mostra ci sono fossili speciali. Quei fossili sono una falsità, dice il reverendo Millet. Un’empietà. E li mostreranno a quel grosso ragno alieno.

— Ebbene? — disse Falsey.

— Questo pianeta è un testamento all’opera di Dio. E quei fossili o sono fasulli o sono l’opera del demonio. Creature con cinque occhi! Creature con punte che sporgono da tutte le parti! Non si è mai visto niente di simile. E gli scienziati dicono agli alieni che quelle creature sono reali!

— Tutti i fossili sono falsi — disse Falsey. — Creati da Dio per mettere alla prova la fede dei deboli.

— Tu e io lo sappiamo. Ed è già brutto che a scuola gli atei parlino di fossili ai nostri figli; ma ora li mostrano agli alieni, li convincono che crediamo alla menzogna dell’evoluzione. Inducono gli alieni a credere che noi umani non crediamo in Dio. Dobbiamo rendere chiaro che quegli scienziati senza Dio non parlano per la maggioranza delle persone.

— Così… — disse Falsey, invitando Ewell a continuare.

— Così, il reverendo Millet vuole che distruggiamo quei fossili. Li chiama i Falsi del Burgess Shale. Sono qui in mostra e poi dovrebbero tornare giù a Washington, ma non accadrà. Stiamo per porre fine una volta per tutte ai Falsi del Burgess Shale, così quegli alieni sapranno che non ci frega niente di quella roba.

— Non voglio che qualcuno resti ferito — disse Falsey.

— Nessuno rimarrà ferito.

— E l’alieno? Uno di loro passa un mucchio di tempo nel museo, no? Saremo in un mare di guai, se dovesse restare ferito.

— Non leggi i giornali? Nel museo non c’è il vero alieno, c’è solo una proiezione.

— E la gente? I visitatori saranno male guidati, a guardare tutti quei fossili, ma non sono malvagi come i medici abortisti.

— Non preoccuparti — disse Ewell. — Agiremo domenica sera, dopo la chiusura del museo.

Chiamai Susan e Ricky e annunciai che avremmo avuto a cena un ospite molto speciale; Susan, con tre ore di preavviso, poteva fare miracoli. Lavorai per un poco al mio diario, poi lasciai il museo. Avevo cominciato a portare il cappello floscio e occhiali da sole per non farmi riconoscere nel breve tragitto a piedi dall’ingresso del personale alla stazione della metropolitana; i fanatici di ufo si radunavano ancora soprattutto davanti all’ingresso principale del rom, a una certa distanza. Fino a quel momento nessuno di loro mi aveva intercettato; comunque quella sera parevano andati tutti a casa. Scesi nella stazione e salii sul treno.

Alla stazione di Dundas salì un giovanotto dalla barba rada e bionda. A giudicare dall’età, forse era studente alla Ryerson, il campus universitario a nord di Dundas. Indossava una felpa verde con la scritta:

C’è UN ALIENO AL ROM

E UN MOSTRO A QUEEN’S PARK

Sorrisi; gli edifici del parlamento provinciale erano ovviamente al Queen’s Park. A quanto pareva, tutti in quei giorni sparavano al premier Harris.

Giunto finalmente a casa, riunii in soggiorno mia moglie e mio figlio. Aprii la valigetta e posai sul tavolino da caffè il dodecaedro, il proiettore d’ologramma. Poi mi sedetti sul divano. Ricky venne a sistemarsi accanto a me. Susan si appollaiò sul bracciolo della poltroncina. Guardai l’orologio del vcr: le 7.59; Hollus si sarebbe presentato alle otto in punto.

Ricky già si agitava nervosamente. Quando entrava in funzione, il proiettore emetteva un bip bitonale, ma per ora era silenzioso.

Le otto.

Le otto e un minuto. Le otto e due minuti.

L’orologio del videoregistratore era esatto: avevamo un Sony che riceveva il segnale orario via cavo. Allungai la mano sul tavolino e spostai leggermente il dodecaedro, come se la posizione potesse fare differenza.

Le otto e tre. E quattro.

— Be’ — disse Susan, a nessuno in particolare. — Dovrei preparare l’insalata.

Ricky e io continuammo ad aspettare.

Alle otto e dieci Ricky disse: — Che fregatura.

— Mi spiace, giovanotto — dissi. — Ci sarà stato un imprevisto. — Non riuscivo a credere che Hollus mi avesse fatto il bidone. Si può perdonare un mucchio di cose: una figuraccia davanti al proprio figlio non è una di quelle.

— Posso guardare la tv finché non è ora di cena? — disse Ricky.

In genere Ricky poteva guardare un’ora di tv per sera e l’aveva già guardata. Ma non potevo deluderlo di nuovo. — Certo — risposi.

Ricky si alzò. Sospirai.

Hollus aveva detto che eravamo amici.

Ah, bene. Mi alzai, presi il proiettore, lo soppesai, lo rimisi nella valigetta e…

Un rumore, dalla porta sul retro. Chiusi la valigetta e andai a vedere. La porta di servizio si apriva su una veranda che mio cognato Tad e io avevamo costruito cinque estati prima. Aprii gli scuri verticali della porta a vetri scorrevole e…

Hollus era fermo sulla veranda.

Tolsi la sbarra di sicurezza alla base della porta a vetri e aprii. — Hollus! — dissi.

Susan comparve dietro di me, a vedere che cosa combinavo. Mi girai: era a bocca aperta, anche se aveva visto abbastanza spesso in tv Hollus e altri Forhilnor.

— Entra — dissi a Hollus. — Entra.

Hollus si destreggiò per varcare la porta, anche se lo spazio era poco. Si era cambiato per cena: ora indossava un indumento color vinaccia, con un fermaglio ricavato da una lucida sezione di geoide.

— Perché non sei comparso dentro, anziché proiettarti qui fuori? — domandai.

Hollus mosse i peduncoli oculari. Aveva un aspetto lievemente diverso, forse solo per effetto della luce alogena di una lampada a stelo: ero abituato a vederlo sotto i pannelli al neon del museo.

— Mi hai invitato a casa tua — disse.

— Sì, ma…

All’improvviso sentii sul braccio la sua mano. Avevo già avuto occasione di toccarlo, avevo sentito il formicolio dei campi di forza che componevano la sua proiezione. Stavolta era diverso: carne solida, calda.

— E così sono venuto — disse Hollus. — Ma… mi spiace, sono stato qui fuori un quarto d’ora, cercando un modo per farti sapere d’essere giunto. Ho sentito parlare di campanelli, ma non sono riuscito a trovare il pulsante.

— Non ce ne sono, alla porta sul retro — dissi. Spalancai gli occhi. — Sei qui di persona! In carne e ossa.

— Sì.

— Ma… — Scrutai alle sue spalle. C’era la sagoma di un grosso qualcosa, nel cortile: nell’oscurità che si addensava non riuscivo a distinguere bene.

— Studio il vostro pianeta da un anno — disse Hollus. — Senza dubbio avete immaginato che abbiamo il modo di scendere sulla terra senza attirare indebita attenzione. Mi hai invitato a cena, no? Come potrei gustare il tuo cibo, senza essere presente?

Ero stupito, elettrizzato. Mi girai a guardare Susan e mi resi conto di non avere ancora fatto le presentazioni.

— Hollus, ho il piacere di presentarti mia moglie, Susan Jericho.

— Sal /ve — disse il Forhilnor.

Per qualche istante Susan rimase senza parole, stupita. Poi disse: — Salve.

— La ringrazio d’avermi permesso di visitare la sua casa — disse Hollus.

Susan sorrise, poi lanciò nella mia direzione uno sguardo carico di significato. — Se fossi stata avvertita un po’ prima, avrei messo tutto in ordine.

— È bellissima anche così — disse Hollus. Mosse i peduncoli oculari, esaminando la stanza. — È evidente che la scelta di ogni pezzo d’arredamento ha richiesto grande cura, in modo che ogni cosa si integri alle altre. — Susan non poteva soffrire i ragni, ma era chiaramente affascinata dall’alieno.

Nella vivida luce della lampada a stelo, notai piccole borchie, simili a diamantini, inserite nella pelle a bolla alle giunture degli arti e alle tre articolazioni delle dita. Una fila di borchie correva lungo i peduncoli oculari.

— Sono gioielli? — domandai. — Se avessi saputo che eri interessato a cose del genere, ti avrei mostrato la collezione di gemme del rom. Abbiamo diamanti, rubini e opali favolosi.

— Prego? — disse Hollus. Poi capì e di nuovo increspò i peduncoli oculari. — No, no, i cristalli sono impianti per l’interfaccia di realtà virtuale. Permettono al simulacro di riprodurre esattamente i miei movimenti.

— Ah — dissi. Mi girai a chiamare Ricky, che risalì di corsa la scala del seminterrato; si diresse in stanza da pranzo, convinto che l’avessi chiamato perché la cena era pronta. Poi vide me e Susan e Hollus. Spalancò gli occhi e venne a mettersi accanto a me. Col braccio gli circondai le spalle.

— Hollus — dissi — ti presento mio figlio Rick.

— Sal /ve — disse Hollus.

Ricky, a occhi sgranati, fissò l’alieno. — Grande! — disse.

Non avevo previsto che Hollus venisse a cena in carne e ossa. Il tavolo da pranzo era rettangolare, con sezione centrale mobile; di legno scuro, coperto da una tovaglia bianca. In realtà non c’era molto spazio per il Forhilnor. Con l’aiuto di Susan spostai la credenza per fare un po’ più di posto.

Non avevo mai visto Hollus seduto, mi resi conto; il suo avatar non aveva bisogno di sedersi, naturalmente, ma forse il vero Hollus si sarebbe sentito più a suo agio se avesse avuto un supporto. — Cosa posso fare per farti stare comodo? — domandai.

Hollus si guardò intorno. Notò in soggiorno lo sgabello imbottito posto di fronte alla poltrona. — Potrei usare quello? — disse. — Lo sgabello piccolo.

— Ma certo.

Hollus andò in soggiorno. Con un bambino di sei anni in casa, non c’erano soprammobili e fu un bene. Hollus urtò il tavolino da caffè e il divano; i nostri mobili non erano abbastanza larghi per una creatura delle sue dimensioni. L’alieno portò in stanza da pranzo lo sgabello, lo sistemò accanto al tavolo, poi vi salì con i piedi, in modo che il tronco arrotondato si trovasse direttamente sopra. Allora vi abbassò il tronco. — Ecco — disse, in tono soddisfatto.

Susan pareva molto a disagio. — Sono davvero dispiaciuta, Hollus. Non pensavo che venisse realmente di persona. Non so proprio se ho preparato cose che lei possa mangiare.

— Cos’ha preparato?

— Un’insalata… lattuga, pomodori ciliegina, sedano a cubetti, fettine di carota, olio e aceto.

— Posso mangiarla.

— E costolette d’agnello.

— Cotte?

Susan sorrise. — Sì.

— Posso mangiare anche quelle, se mi dà un litro d’acqua a temperatura ambiente per accompagnarle.

— Certo — disse Susan.

— Ci penso io — intervenni. Andai in cucina e riempii dal rubinetto una brocca.

— Ho anche preparato frappé al latte per Tom e Ricky — disse Susan.

— Sarebbe la secrezione mammaria bovina? — domandò Hollus.

— Sì.

— Se non è da maleducati, ne farò a meno.

Sorrisi. Ci sedemmo a tavola. Susan portò la terrina d’insalata e me la passò. Usai le apposite posate per trasferirne una porzione nel mio piatto e in quello di Ricky e poi di Hollus.

— Ho portato le mie posate — disse il Forhilnor. — Mi auguro che non sia ritenuta scortesia.

— Nient’affatto — dissi. Anche dopo vari viaggi in Cina, sono sempre uno di quelli che nei ristoranti cinesi chiedono forchetta e coltello. Dalle pieghe dell’indumento Hollus estrasse due aggeggi che parevano dei cavatappi.

— Dite la preghiera di ringraziamento?

Rimasi sorpreso. — In genere, no.

— L’ho visto in televisione.

— Alcune famiglie la recitano — dissi. Quelle, pensai, che hanno motivo per ringraziare.

Hollus usò uno dei suoi cavatappi per infilzare delle foglie di lattuga e se le portò all’orifizio sulla parte superiore del corpo. L’avevo già visto fare i movimenti di chi mangia, ma non l’avevo mai visto mangiare realmente. Il pasto era un procedimento rumoroso: la sua dentatura si muoveva con scatti secchi. Immaginai che, quando si presentava in simulacro, solo gli orifizi vocali fossero collegati a microfoni: forse per quello non avevo mai sentito quei rumori.

— L’insalata va bene? — domandai.

Mentre rispondeva, Hollus continuò a trasferirla nell’orifizio; pensai che i Forhilnor non rischiassero mai di morire soffocati durante i pasti. — Molto buona, grazie — rispose Hollus.

Intervenne Ricky. — Perché parli così? — domandò. Imitò Hollus, parlando alternativamente dalla parte sinistra e dalla parte destra della bocca. — Molto / buona / grazie.

— Ricky! — lo sgridò Susan, imbarazzata per il comportamento scortese di nostro figlio.

Hollus però parve non farci caso. — Una delle cose che gli esseri umani e il mio popolo hanno in comune — spiegò — è il cervello diviso in due emisferi. Anche noi abbiamo, come voi, un emisfero sinistro e uno destro. Riteniamo che la consapevolezza sia il risultato dell’interazione dei due emisferi; credo che pure gli esseri umani abbiano una teoria simile. Se i due emisferi sono stati disgiunti per danneggiamenti, tanto da funzionare indipendentemente l’uno dall’altro, intere frasi escono da un singolo orifizio orale, ma esprimono pensieri molto meno complessi.

— Oh — disse Ricky, tornando all’insalata.

— Affascinante — commentai. Coordinare il linguaggio fra due metà di cervello in parte autonome era di sicuro difficile. — Se avessimo due bocche, forse anche noi alterneremmo parole o sillabe.

— Voi sembrate dipendere meno di noi Forhilnor dall’integrazione sinistra-destra — disse Hollus. — In caso di rescissione del corpus callosum, gli esseri umani riescono ancora a camminare.

— Sì, mi pare di sì.

— Noi non possiamo farlo — disse Hollus. — Ciascuna metà del cervello controlla tre gambe, nella corrispondente parte del corpo. Le nostre gambe devono funzionare tutte insieme, altrimenti cadiamo, e…

— Mio papà morirà presto — disse Ricky, fissando l’insalata nel piatto.

Sentii il cuore sobbalzare, Susan parve sconvolta. Hollus posò gli utensili per mangiare. — Sì, me l’ha detto. Mi spiace moltissimo.

— Puoi aiutarlo? — disse Ricky, guardando ora l’alieno.

— Mi spiace — rispose Hollus. — Non posso farci niente.

— Ma vieni dallo spazio — ribatté Ricky.

Hollus smise di muovere i peduncoli oculari. — Sì, è vero.

— Allora dovresti sapere un mucchio di cose.

— So alcune cose — disse Hollus. — Ma non so come curare il cancro. Anche mia madre ne è morta.

Ricky guardò con grande interesse l’alieno. Pareva intenzionato a rivolgergli qualche parola di conforto, ma non sapeva cosa dire, era chiaro.

Susan si alzò e portò dalla cucina le costolette d’agnello in salsa di menta.

Continuammo a mangiare in silenzio.

Capii che si era presentata un’occasione probabilmente irripetibile.

Hollus era lì con me, in carne e ossa.

Dopo cena, gli chiesi di scendere nel mio studio. L’alieno ebbe una certa difficoltà con la mezza rampa di scale, ma se la cavò.

Andai al classificatore a due cassetti ed estrassi un fascio di fogli. — È normale che una persona scriva un documento per indicare come ciò che possiede dovrà essere distribuito dopo la sua morte — dissi. — Ovviamente lascio quasi tutto a Susan e a Ricky, ma faccio anche alcune donazioni a certi enti: la Canadian Cancer Society, il rom, un paio d’altri. Alcune cose andranno anche a mio fratello, ai suoi figli e a qualche altro parente. Ho… ho pensato di modificare il testamento per lasciare qualcosa a te, Hollus, ma… be’, pareva inutile. Cioè, probabilmente non sarai più qui, dopo la mia morte e, be’, di solito non sei realmente qui, in ogni caso. Ma stasera…

— Stasera — convenne Hollus — sono realmente io.

— Probabilmente è più semplice se mi limito a darti ora questi fogli… il dattiloscritto del mio libro, Dinosauri canadesi. Ormai le gente scrive libri utilizzando il computer, ma questo è stato battuto su una macchina per scrivere manuale. Non ha grande valore e i dati sono ormai molto sorpassati, ma è il mio piccolo contributo alla letteratura popolare sui dinosauri e, be’, mi piacerebbe che lo avessi tu… da paleontologo a collega. — Mi strinsi nelle spalle. — Un mio ricordo.

L’alieno prese i fogli. Mosse avanti e indietro i peduncoli oculari. — La tua famiglia non vorrà questo manoscritto?

— Hanno copie del libro.

Hollus aprì un lembo dell’indumento e mise in mostra una grossa tasca di plastica: le pagine del manoscritto ci stavano comodamente. — Grazie — disse.

Seguì un momento di silenzio. Alla fine dissi: — No, Hollus… grazie a te, per tutto. — Protesi la mano e gli strinsi il braccio.

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