42

— Se tentiamo, credete che i biot ce lo impediranno? — disse Karl Mercer.

— Può darsi, ma finché non lo facciamo non possiamo saperlo — rispose Norton. — Finora sono stato anche troppo prudente, ma questa è l'ultima possibilità che ci viene offerta e sono costretto a forzare un poco le cose. D'altra parte, se ci costringono a ritirarci non avremo perduto molto.

— Ammesso che riusciamo a ritirarci in buon ordine.

— E perché no? I biot non si sono mai dimostrati ostili, e all'infuori dei ragni, non mi pare che nessuno sia così veloce da poterci raggiungere se corriamo.

— Voi potete correre, Comandante, se volete. Io invece voglio lasciare Rama nel modo più dignitoso possibile. Fra parentesi, credo di aver capito perché i biot si comportano così civilmente nei nostri confronti.

— Mi sembra un po' tardi per una nuova teoria.

— Comunque ve la voglio esporre. Credo che ci scambino per ramani. Non sanno distinguere fra un «mangiatore di ossigeno» e un altro.

— Secondo me, non sono così stupidi.

— Non è questione di stupidità. Sono programmati per eseguire determinati lavori, e noi non entriamo nei loro schemi operativi.

— Può darsi che abbiate ragione. Forse riusciremo a scoprirlo appena avremo cominciato a lavorare a Londra.

A Joe Calvert erano sempre piaciuti quei vecchi film imperniati sulle rapine alle banche, ma non si era mai aspettato di dover fare la parte del rapinatore. E invece, più o meno, era quello che stava facendo adesso.

Le strade deserte di Londra sembravano gravide di minaccia, sebbene Joe sapesse che era solo l'effetto della sua cattiva coscienza. Non credeva sul serio che quegli edifici sigillati e privi di finestre fossero pieni di abitanti che li tenevano d'occhio, aspettando il momento di precipitarsi fuori furibondi non appena gli invasori avessero messo le mani sulle loro proprietà. In effetti, era sicuro che quell'agglomerato, come le altre cosiddette città, non fosse altro che una specie di immenso magazzino.

Ma c'era un altro dubbio che lo tormentava, basato anch'esso sul ricordo di tanti film polizieschi. Ed era un dubbio forse più giustificato. Sebbene fosse improbabile la presenza di campanelli d'allarme e di sirene ululanti, non era da escludere che su Rama esistessero altri sistemi di avvertimento. Altrimenti come avrebbero fatto i biot a sapere quando erano richiesti i loro servizi?

— Quelli che non hanno gli occhiali si voltino — ordinò Willard Myron. Si sentì odore di ossido nitrico quando l'aria fu investita dal raggio della torcia laser, e la lama di fuoco, con un crepitio regolare, cominciò a perforare la parete di un edificio di Londra.

Nessun materiale è in grado di reggere una simile concentrazione di energia, e l'operazione procedette senza difficoltà a una media di parecchi metri al minuto. In pochissimo tempo venne tracciata una sezione abbastanza ampia da consentire il passaggio di un uomo.

Ma la parte tagliata sembrava non volersi staccare, e Myron la colpì leggermente, poi più forte, quindi la tempestò di pugni. Finalmente, la piastra metallica cadde all'indietro con uno schianto assordante.

Anche allora, come quando aveva messo piede per la prima volta su Rama, Norton si ricordò dell'archeologo che aveva aperto l'antica tomba egiziana. Non si aspettava di vedere il luccichio dell'oro, in realtà non aveva idee preconcette mentre si infilava nell'apertura facendosi luce con una lampadina tascabile.

La prima impressione fu di trovarsi in un tempio greco fatto di vetro. L'interno dell'edificio era pieno di file e file di colonne trasparenti del diametro di circa un metro, che andavano dal pavimento al soffitto. Ce n'erano centinaia che andavano a perdersi nell'oscurità dove non arrivava il raggio della lampada.

Norton si diresse verso la colonna più vicina e ne illuminò l'interno. La luce, rifratta come attraverso una lente cilindrica, si allargò a ventaglio fino all'estremità opposta, per raggiungere uno dopo l'altro gli altri pilastri, ripetendo lo stesso fenomeno, sempre più debolmente a mano a mano che si allontanava. Al Comandante parve di trovarsi al centro di una complicata dimostrazione di ottica.

— Bellissimo — commentò Mercer, pratico come sempre, — ma cosa significa? A cosa serve una foresta di colonne?

Norton batté sulla colonna. Era solida, ma sembrava di metallo piuttosto che di vetro. Non riusciva a capire, e perciò seguì un consiglio che gli avevano dato molto tempo prima: Quando sei in dubbio, non dir niente, e va' avanti.

La seconda colonna era identica alla prima, almeno così gli parve, ma Mercer esclamò sorpreso: — Avrei giurato che fosse vuota, e invece contiene qualche cosa!

Norton si voltò verso di lui. — Dove? Io non vedo niente.

Seguì la direzione indicata da Mercer: inutile, la colonna era vuota.

— Come, non vedete? — gli chiese l'altro incredulo. — Venite da questa parte… Accidenti, non lo vedo più.

— Si può sapere cosa c'è? — intervenne Calvert. Ma dovette aspettare un pezzo la risposta.

Le colonne non erano trasparenti da tutte le prospettive o sotto tutte le illuminazioni. Girandovi intorno, gli oggetti che contenevano, racchiusi all'interno come mosche nell'ambra, apparivano all'improvviso per poi sparire di nuovo. Ce n'erano decine, tutti diversi. Sembravano solidi e reali, eppure la maggior parte occupava, almeno in apparenza, lo stesso volume di spazio.

— Ologrammi — spiegò Calvert. — Come in un museo terrestre.

Ma c'era anche un'altra spiegazione, e Norton cominciava a nutrire sospetti che aumentarono quando esaminò altre colonne.

Utensili fatti per mani più grandi e diverse da quelle umane. Contenitori, piccole macchine fornite di tastiere che sembravano adatte a molto più di cinque dita, strumenti scientifici, utensili domestici sorprendentemente simili a quelli umani, compresi coltelli e piatti che, dimensioni a parte, nessuno si sarebbe sognato di guardare due volte su una tavola terrestre, e poi centinaia e centinaia di altri oggetti più o meno identificabili, spesso raggruppati in numero notevole nella stessa colonna. Se quello fosse stato un museo, gli oggetti sarebbero stati disposti secondo un certo ordine. Sembrava invece una raccolta di utensili fatta senza nessun criterio selettivo.

Avevano già fotografato parecchie di quelle immagini fuggevoli contenute nelle colonne trasparenti, quando i dubbi di Norton si concretarono: quello non era un museo, ma un catalogo disposto secondo un sistema arbitrario e incomprensibile agli uomini, ma sicuramente logico. A Norton venne in mente la giustapposizione dei termini di un dizionario o di un elenco in ordine alfabetico, ed espresse la sua idea ai compagni.

— Capisco — commentò Mercer. — I ramani potrebbero restare ugualmente sorpresi se trovassero in un nostro dizionario un telaio vicino a un televisore.

— O un quaderno vicino a un quadro — aggiunse Calvert.

Tutti si scervellarono per trovare altre analogie. Avrebbero potuto continuare per ore con quel giochetto, ma Norton tagliò corto, dicendo: — Comunque, è un'idea che mi pare abbastanza valida. Deve trattarsi di un catalogo in ordine alfabetico, o qualcosa di simile, per immagini tridimensionali, sagome, cianografie, chiamatele come volete.

— Ma a cosa servirebbe?

— Secondo la teoria più diffusa i biot esistono solamente al momento in cui devono servire, e vengono creati, meglio, sintetizzati, su schemi immagazzinati da qualche parte.

— Capisco — rispose Mercer. — Perciò, quando un ramano ha bisogno, per esempio, di un cacciavite, forma il numero di codice corrispondente, e dalla sagoma custodita qui ne viene creata una copia.

— Sì, più o meno. Però, non chiedetemi i particolari tecnici.

Man mano che andavano avanti le colonne diventavano più grosse, fino a raggiungere due metri di diametro. Le immagini erano proporzionalmente più grandi. Evidentemente i ramani avevano avuto i loro buoni motivi per attenersi alle immagini in grandezza naturale. Norton era curioso di sapere come avevano fatto a immagazzinare l'archetipo di oggetti così voluminosi.

Per allargare il campo d'azione, i quattro esploratori si divisero affrettandosi a fotografare tutte le immagini che riuscivano a scorgere. Potevano ritenersi fortunati di essere capitati proprio dentro il catalogo 3D dei manufatti ramani, eppure provavano un senso di delusione cocente, perché lì dentro, in effetti, non c'era nient'altro che sagome luminose, giochi di luce e ombra.

Ma pur sapendo che si trattava solo di immagini, Norton provò spesso l'irresistibile impulso di aprirsi un varco in qualche colonna col laser, per estrarne un esemplare da portare sulla Terra. Contemporaneamente, si rendeva conto che era lo stesso impulso che spinge una scimmia ad afferrare l'immagine di una banana riflessa in uno specchio.

Stava fotografando uno strano congegno, forse un apparecchio ottico, quando il grido di Calvert lo fece accorrere presso il tenente.

— Comandante… Karl… Will… guardate un po' qua!

Calvert era un tipo facile all'entusiasmo, ma quello che aveva trovato lo giustificava.

Dentro ad una delle colonne di due metri di diametro, c'era una complicata imbracatura, una specie di uniforme, indubbiamente fatta per un essere dal portamento eretto, e molto più alto di un uomo normale. Una fascia centrale di metallo, molto stretta, doveva servire presumibilmente da cintura; da essa si dipartivano tre colonnine circolari divergenti che terminavano in un'altra fascia di un metro di diametro. Fra una colonnina e l'altra pendevano dalla cintura dei cappi, fatti per infilarci arti superiori, braccia o altro che fossero. Erano tre, posti a uguale distanza.

E poi c'erano tasche, borse, bandoliere da cui sporgevano utensili (o armi?), tubi, conduttori elettrici e anche piccole scatole nere che avrebbero potuto benissimo trovare posto in qualsiasi laboratorio elettronico della Terra. L'insieme era complesso come una tuta spaziale, anche se forniva solo una copertura parziale dell'essere che l'avrebbe indossata.

E quell'essere era un ramano? si chiese Norton. Non lo sapremo mai, ma deve senz'altro essere stato intelligente perché nessun animale saprebbe creare un equipaggiamento così perfetto e complicato.

— Dovevano essere alti almeno due metri e mezzo, senza contare la testa — osservò Mercer. — Chissà com'erano fatti.

— Di certo avevano tre braccia e presumibilmente tre gambe. Come i ragni, ma molto più grandi. Credete che si tratti di una coincidenza?

— Non credo. Noi creiamo i robot a nostra immagine, ed è probabile che i ramani facessero lo stesso.

Myron, di solito sempre sicuro di sé, fissava quella specie di armatura con aria intimorita. — Credete che sappiano che siamo qui? — sussurrò.

— Non credo — rispose Mercer. — Non abbiamo oltrepassato la soglia della loro coscienza, sebbene gli hermiani ci abbiano tentato.

Stavano lì, incapaci di muoversi, quando Rousseau li chiamò dal mozzo con voce tesa e preoccupata: — Comandante, sarà meglio che usciate.

— Cosa c'è… stanno arrivando i biot?

— No. Si tratta di una cosa più seria. Le luci si stanno spegnendo.

Загрузка...