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Trascorsero una serie indecifrabile di minuti, ore, forse giorni infiniti. Assieme al portafoglio e ad altri oggetti personali, gli avevano preso l’orologio, per cui non aveva modo di percepire il passare del tempo. Dopo le prime ore, la cosa non ebbe più nessuna importanza.

L’interrogatorio proseguì senza interruzioni. Di solito era Firnik che, chino su di lui, lo spronava a confessare, mentre Drayl e Thirsk gli stavano di fianco e di tanto in tanto lo picchiavano. A volte era Byra a interrogarlo, con una voce piatta, metallica, che poteva benissimo appartenere a un robot.

La sua resistenza s’indebolì. Le risposte diventarono mormorii sfibrati, e quando si facevano troppo incoerenti gli gettavano acqua fredda in faccia per farlo riprendere.

Anche i suoi torturatori mostravano segni di stanchezza. Gli occhi di Firnik erano rossi di fatica; a tratti la voce gli diventava roca, affannata. Allora implorava Ewing, lo scongiurava di finirla con la testardaggine, di dargli le informazioni che voleva.

A un certo punto, quando Ewing sussurrò per la milionesima volta: «Vi ho sempre detto la verità», Byra lanciò un’occhiata decisa a Firnik e disse: «Forse è sincero. Forse stiamo commettendo uno sbaglio. Per quanto tempo possiamo continuare così?».

«Chiudi il becco!», urlò Firnik. Poi si girò verso la ragazza e la scaraventò a terra con un sonoro ceffone. Un attimo dopo, ignorando Ewing, si chinò a raccoglierla e a chiedere scusa sottovoce. «Bisognerà usare la sonda cerebrale», disse. «Così non arriviamo a niente».

Ewing si accorse vagamente che trascinavano qualcosa sul pavimento, verso il suo letto. Non alzò gli occhi. Sentì Byra che diceva: «Quando la sonda sarà penetrata nella sua mente, di lui non resterà nulla».

«Non posso farci niente, Byra. Dobbiamo sapere. Drayl, sei pronto a erogare corrente?».

«Si».

«Allora abbassa il casco e collega gli elettrodi».

Ewing aprì gli occhi. Accanto al letto c’era un’apparecchiatura complicata che lo fissava con un’infinità di interruttori e quadri di controllo. Un casco di rame pendeva da un braccio metallico collegato alla macchina. Il sergente Drayl stava spostando il casco verso di lui, lo abbassava sulla sua testa. I morsetti all’interno del casco aderirono dolcemente al suo cranio.

Si accorse che gli attaccavano ai polsi oggetti metallici. Restò assolutamente immobile. Non provava paura; anzi, sentiva un vago senso di sollievo all’idea che l’interrogatorio stesse finalmente per terminare.

«È pronta per entrare in funzione, signore», disse la voce di Drayl.

«Benissimo». Firnik sembrava un po’ teso. «Ewing, mi senti?».

«Sì», rispose lui, dopo un momento di silenzio.

«Bene. Ti offro l’ultima possibilità. Come mai il mondo libero di Corwin ha deciso di mandarti sulla Terra?».

«A causa dei Klodni», rispose debolmente Ewing. «Sono giunti da Andromeda e…».

Firnik lo interruppe. «Basta! Metto in funzione la sonda».

Sotto il casco, Ewing si rilassò, in attesa della forza che avrebbe obnubilato il suo cervello. Trascorse un secondo, un altro. È questo quello che si prova?, si chiese torpidamente.

Poi udì la voce di Firnik, improvvisamente allarmata: «Chi sei? Come hai fatto a entrare qui?».

«Non stare a pensarci». Era una voce strana, decisa, imperiosa. «Via da quella macchina, Firnik. Ho uno storditore, e non vedo l’ora di usarlo su di te. Forza, contro il muro. Anche tu, Byra. Drayl, toglili le manette e levagli quel casco».

Ewing si accorse che la macchina veniva allontanata. Sbatté le palpebre, si guardò attorno. Non capiva. Vicino alla porta c’era un uomo alto che teneva sotto tiro con una pistola i siriani. Portava una maschera, una maschera color oro che gli copriva perfettamente il viso.

Lo sconosciuto traversò la stanza, raggiunse il letto di Ewing, lo sollevò con la sinistra, mentre la destra che reggeva l’arma era sempre puntata sugli stupefatti siriani. Ewing era troppo debole per riuscire a reggersi in piedi. Barcollò, ma l’altro non lo lasciò cadere.

«Prendi il telefono, Firnik, e stai ben attento a non accendere il video. Chiama il corpo di guardia del consolato, di’ che il prigioniero deve lasciare l’edificio per essere messo sotto sorveglianza. Guarda che lo storditore è regolato sul massimo. Una parola di troppo e ti polverizzo il cervello».

A Ewing sembrava di vivere un sogno. Accucciato a fianco dell’uomo che lo aveva salvato, osservò la scena senza capire nulla. Firnik, rabbioso, telefonò alle guardie e riferì il messaggio dello sconosciuto.

«Benissimo», disse l’uomo. «Adesso me ne vado e porto via Ewing. Ma prima…». L’uomo regolò i comandi della pistola. «Sarà opportuno prendere qualche precauzione. Dovreste restare fuori dai piedi per un paio d’ore, come minimo».

Firnik emise un gemito roco e balzò avanti, le braccia protese verso l’uomo mascherato. Lo sconosciuto sparò un colpo. Nel più assoluto silenzio, dalla canna della pistola uscì un raggio di luce blu, e Firnik s’immobilizzò, il viso distorto in un’espressione d’odio. Con estrema calma, l’uomo diresse il fuoco della pistola in tutta la stanza. Alla fine, Byra, Drayl e Thirsk erano solo tre statue immobili, come Firnik.

Ewing si accorse che lo sconosciuto lo stringeva più forte. Cercò di alleggerirgli il peso, di muoversi da solo, ma i piedi si rifiutavano di reggerlo.

A metà trascinato, a metà barcollante, si lasciò portare fuori dalla stanza. Lo infilarono su un ascensore, salirono. L’ascensore si fermò. Venne spinto in avanti. Ondate scure di dolore gli traversavano il corpo. Avrebbe voluto fermarsi lì dov’era, mettersi a dormire, ma la stretta implacabile del braccio dello sconosciuto lo trascinava con sé.

L’aria fresca gli entrò nelle narici. Tossì. Ormai si era abituato all’aria viziata della stanza in cui lo avevano tenuto prigioniero.

A occhi semi-aperti, vide l’altro fermare un taxi. Fu spinto dentro. Lo sconosciuto mascherato disse: «Ci porti al Grand Valloin Hotel, per favore».

«Ehi, il suo amico è proprio fritto», disse l’autista. «È un sacco di tempo che non vedo qualcuno ridotto in quello stato».

Perché mi riporta all’hotel?, si chiese Ewing. Firnik spia in tutte le stanze.

Cullato dal ronzio dolce del taxi, dopo pochi secondi si addormentò. Più tardi si svegliò, scoprì di essere ancora trasportato a braccia dallo sconosciuto: su, lungo un corridoio, davanti a una porta.

La porta si aprì. Entrarono.

Era la sua stanza all’hotel.

Barcollò, cadde a faccia in giù sul letto. Avvertì confusamente i movimenti dello sconosciuto che lo svestiva, gli lavava il viso, gli toglieva la barba con una crema depilatoria.

«Voglio dormire», disse.

«Tra poco. Tra poco».

L’altro lo trasportò in bagno, lo mise sotto la doccia, aprì il raggio a ioni che lo ripulì di tutta la sporcizia accumulata. Poi, alla fine, gli fu concesso di dormire. Le lenzuola erano morbide, accoglienti come un utero. Felice, si raggomitolò sul letto, e il suo corpo torturato si rilassò. Il sonno scese su di lui, lo avviluppò totalmente.

Udì vagamente la porta che si chiudeva. Non si svegliò.

Si svegliò dopo un tempo imprecisabile. Il corpo gli doleva in cento punti diversi, pulsava di dolore. Rotolò sul letto, si portò una mano alla fronte per interrompere il rombo che gli squassava gli occhi.

Cosa mi è successo?

Si affollarono i ricordi. Gli tornò in mente che aveva trovato Byra nella sua stanza, bevuto il liquore drogato; che lo avevano trasportato al consolato siriano. Giorni bui di un interrogatorio senza fine, un tormento continuo, una macchina per sondare il cervello sulla sua testa…

La salvezza improvvisa da parte di uno sconosciuto. Poi il sonno. I suoi ricordi finivano lì.

Scese dal letto quasi strisciando, accese il telecomputer della stanza, scelse il canale delle ultime notizie. La telescrivente cominciò a battere. Da sotto la macchina uscì uno stampato.

«Quartodì, 13 quintomese, 3806. L’ufficio del governatore generale Mellis ha annunciato oggi che i lavori per la costruzione della diga sul fiume Gerd non subiranno interruzioni, nonostante i siriani obiettino che il progetto della centrale prevista interferisce con gli accordi sulle fonti energetiche ratificati dal trattato del 3804. Il governatore generale ha dichiarato…».

A Ewing non interessava cosa avesse dichiarato il governatore generale. Aveva acceso il telecomputer solo per sapere la data.

Era mercoledì, 13 quintomese. Fece i calcoli alla rovescia. Aveva parlato con Mellis la sera di quintodì, cioè il 7 di quintomese. La notte di quintodì (anzi, il mattino di sestodì) Firnik lo aveva rapito.

Due giorni più tardi, primodì, si era risvegliato ed era iniziata la tortura. Primodì, secondodì, terzodì; e quello era quartodì. Quindi la tortura non era durata più di due giorni. Lo sconosciuto lo aveva salvato secondi o terzodì, e da allora lui aveva continuato a dormire.

Poi ricordò un’altra cosa. Aveva appuntamento con Myreck per la sera di quartodì. Oggi.

Suonò il telefono.

Per un attimo non seppe se rispondere; ma subito ripresero gli squilli, più insistenti. Rispose. La voce di un robot disse: «C’è una chiamata per lei, signor Ewing. Gliela dobbiamo passare?».

«Chi mi chiama?», chiese, cauto.

«Il suo interlocutore non ha specificato le generalità».

Rifletté un attimo. «Va bene. Passami la comunicazione».

Nel giro di pochi secondi lo schermo si illuminò. La testa calva dell’Accademico Myreck lo fissava con aria preoccupata. «L’ho disturbata?», chiese Myreck.

«Ma nemmeno per idea. Stavo proprio pensando a lei. Se non sbaglio, avevamo un appuntamento per stasera».

«Ah… Sì. Però ho appena ricevuto una telefonata anonima che m’informava di certe sue disavventure. Mi chiedevo se potrei esserle d’aiuto per lenire il dolore».

Ewing ricordò il massaggio miracoloso che Myreck gli aveva fatto. Poi pensò che l’hotel dove si trovava era diretto da Firnik: senza dubbio il siriano si era ripreso dagli effetti dello stordimento, lo stava cercando. Restare lì non sarebbe stato affatto saggio.

Sorrise. «Le sarei molto grato del suo aiuto. Aveva detto che sareste venuti voi a prendermi, no?».

«Sì. Arriveremo tra qualche minuto».

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