10

Un’espressione di orrore totale nacque sul viso pallido di Myreck. Le sue labbra sottili si mossero per un attimo senza emettere suoni. Alla fine riuscì a dire, in un sussurro roco: «Non vorrà farlo sul serio? Si verrebbe a creare un raddoppiamento del continuum. Esisterebbero contemporaneamente due Baird Ewing! E…».

«È una cosa che comporta rischi?», chiese Ewing.

Myreck era perplesso. «Non lo sappiamo. Non è mai stato fatto. Non abbiamo mai osato. Le conseguenze potrebbero essere catastrofiche. Potrebbe esplodere l’intera galassia, per quello che ne sappiamo».

«Correrò il rischio», disse Ewing. Sapeva che la prima volta non c’era stato pericolo. Ormai era sicuro che a salvarlo fosse stato un altro Ewing, un Ewing che lo aveva preceduto nel tempo, aveva raggiunto quello stesso luogo e momento, e poi si era sdoppiato per liberarlo dalla prigionia, esattamente come stava per fare lui. Mille idee gli turbinavano in testa. Si rifiutò di lasciarsi trascinare dagli aspetti più confusi e paradossali della situazione.

«Non vedo come possiamo permettere che si verifichi un avvenimento tanto pericoloso», disse tranquillamente Myreck. «Lei ci mette in una situazione spiacevolissima. I rischi sono troppi. Non osiamo».

A portata di mano di Ewing c’era una chiave inglese. La prese, l’agitò con aria minacciosa, e disse: «Mi spiace di essere costretto a questo, ma credo proprio che non capireste se cercassi di spiegarvi perché devo farlo. O mi riportate indietro a secondodì, o mi metto a spaccare tutto».

Le mani di Myreck intrecciarono una veloce danza di paura e frustrazione. «Sono sicuro che lei non commetterebbe mai un atto così violento, signor Ewing. Sappiamo che è un uomo ragionevole. Quindi non potrebbe…».

«Certo che potrei!». Le sue mani strinsero più forte la chiave, mentre il sudore gli copriva la fronte. Sapeva che non avrebbero dovuto rinunciare al bluff, che alla fine avrebbe ceduto, visto che avevano già ceduto una volta… Quando? Quando quella scena si era svolta la prima volta. La prima? Ewing sentì un brivido freddo d’inquietudine.

Myreck, distrutto, fece segno di sì con la testa. «Molto bene. Faremo ciò che lei chiede. Non abbiamo scelta». Il suo viso esprimeva l’emozione più vicina al disprezzo che gli era possibile: una sorta di sdegno lontano, pacato. «Se vuole salire sulla piattaforma…».

Ewing rimise giù la chiave inglese, salì sulla piattaforma con atteggiamento sospettoso. Avvertiva attorno e sopra a sé la massa opprimente della macchina. Myreck regolò con aria affranta i comandi di un pannello al di fuori della sua visuale. Gli altri terrestri, spaventati, si raggrupparono per osservare ciò che stava succedendo.

«E poi, come faccio a tornare a quartodì?», chiese improvvisamente Ewing.

Myreck scrollò le spalle. «Procedendo nel flusso normale del tempo, secondo per secondo. Non abbiamo modo di farla tornare a questo momento e luogo a velocità accelerata». Lo fissò con occhi imploranti. «La prego, non mi costringa a farlo. Non abbiamo ancora studiato a fondo la logica dei viaggi nel tempo. Non sappiamo…».

«Non si preoccupi. Tornerò. Prima o poi, in un modo o nell’altro».

Sorrise, fingendo una tranquillità che non provava. Stava per mettere piede nel più tenebroso dei regni: il passato. Lo sosteneva un’idea confortante: rischiando tutto, forse sarebbe riuscito a salvare Corwin. Rischiando nulla, avrebbe perso tutto.

Aspettò. Capì che stava aspettando un’esplosione d’energia, il lampo improvviso di una forza sovrannaturale che lo scagliasse all’indietro lungo la matrice del tempo, ma nessuno di quei fenomeni si verificò. Ci fu solo il mormorio dolce della voce di Myreck che recitava equazioni e ogni tanto aggiustava i comandi del pannello di controllo; poi lo udì dire: «Sono pronto», e la mano del terrestre si tese verso l’ultimo pulsante.

«Probabilmente si verificherà anche un piccolo spostamento spaziale», stava dicendo Myreck. «Spero per il bene di tutti che lei emerga all’aperto, e non…».

La frase non venne mai terminata. Ewing non provò la minima sensazione, ma il laboratorio e il gruppo di terrestri intimoriti svanirono, come spazzati via dalla mano del cosmo, e lui si trovò sospeso a una trentina di centimetri dal suolo sopra un grande prato, in un pomeriggio caldo, luminoso.

Restò in aria solo un attimo. Poi precipitò pesantemente a terra, finì carponi. Si rialzò immediatamente. Sentì una fitta improvvisa al ginocchio. Guardò sull’erba, e vide che era finito su un sasso, si era spelato.

Vicino a lui, un bambino rise. Una voce stridula disse: «Guarda quel signore che fa i salti mortali!».

«Una frase molto poco cortese», ribatté una voce piatta, metallica. «Non è buona educazione richiamare l’attenzione sugli altri, nemmeno se si comportano in modo eccentrico».

Ewing si girò. Una robogovernante molto imponente stava riprendendo un bambino sugli otto anni. «Ma da dove è spuntato?», insisté il piccolo. «È saltato fuori all’improvviso dall’aria! Non hai visto?».

«La mia attenzione era altrove. Comunque la gente non cade dal cielo. Non al giorno d’oggi, non nella città di Valloin».

Ridacchiando fra sé, Ewing s’allontanò. Se non altro, ed era un piacere, aveva scoperto di trovarsi ancora a Valloin. Chissà se il bambino avrebbe continuato a fare domande sull’uomo caduto dall’aria. A quanto sembrava, la governante non possedeva il circuito dell’umorismo. Povero bambino.

Era in un parco, quello era ovvio. In lontananza vide un campo giochi, e qualcosa che poteva essere un giardino zoologico. C’erano anche delle cabine per la vendita di bibite e generi affini. Raggiunse la cabina più vicina, dove un uomo giovane stava acquistando per il bambino che aveva a fianco un palloncino da un robovenditore.

«Chiedo scusa», gli disse. «Non conosco Valloin, e temo di essermi perso».

Il terrestre aveva capelli d’un rosso fiammante, che dovevano essere stati trattati con sostanze chimiche per renderli ancora più rossi. Diede una moneta al robot, prese il palloncino, lo passò al bambino, poi sorrise con estrema cortesia a Ewing. «Posso esserle utile?».

Ewing rispose al sorriso. «Sono uscito a fare una passeggiata, e ho paura di aver perso l’orientamento. Vorrei tornare al consolato siriano. Vivo lì»,

Il terrestre lo fissò a bocca spalancata per un attimo, prima di riprendere il controllo. «Ha camminato dal consolato siriano fino al parco municipale di Valloin?».

Ewing capì di aver commesso un errore madornale. Rosso in viso, cercò di rimediare. «No… No, non esattamente. Ho percorso un certo tratto in taxi. Ma non ricordo da che parte sono arrivato, e… Ecco…».

«Potrebbe tornare in taxi, non le sembra?», gli suggerì l’altro. «Certo, da qui è una bella spesa. Se vuole, prenda l’autobus numero sessanta fino al Grande Cerchio, scenda lì e salga sulla sotterranea. La linea ovale la porterà fino al consolato, se cambia alla stazione della trecentosettantottesima strada».

Ewing aspettò pazientemente che il flusso delle informazioni finisse. Poi disse: «D’accordo, prenderò l’autobus. Le sarebbe di troppo disturbo mostrarmi dov’è la fermata?».

«Sull’altro lato del parco, vicino alla grande entrata quadrata».

Ewing scrutò in lontananza. «Temo di non vederla. Le dispiacerebbe accompagnarmi per un tratto? Mi creda, non vorrei importunarla eccessivamente…».

«Non mi dà nessun disturbo».

Si allontanarono dalla cabina, si misero ad attraversare il parco. A metà strada dall’entrata principale, il terrestre si fermò, puntò l’indice. «Là. Vede? Non può sbagliarsi».

Ewing annuì. «C’è un’ultima cosa…».

«Dica pure».

«Stamattina, nel corso di uno spiacevole incidente, ho perso tutto il mio denaro. Mi hanno rubato il portafoglio. Potrebbe prestarmi un centinaio di crediti?».

«Un centinaio di crediti! Stia a sentire, amico. Un conto è dare qualche informazioni, ma cento crediti… Non se ne parla nemmeno! E poi, arrivare fino al consolato non le costerà più di un credito e ottanta».

«Lo so», rispose Ewing, duro. «Però mi servono i cento crediti». Puntò un dito sotto la stoffa della tasca dei calzoni e disse: «Guardi che ho in tasca uno storditore, e il dito è già sul grilletto. O se ne sta buono e mi dà cento crediti in biglietti di piccolo taglio, oppure sarò costretto a usare la pistola. Anche se l’idea mi ripugna».

Il terrestre sembrava sull’orlo delle lacrime. Lanciò un’occhiata al bambino col palloncino, che giocava tranquillamente a pochi metri da loro, poi girò di nuovo la testa a fissare Ewing. Senza una parola estrasse il portafoglio e si mise a contare i crediti. Ewing li accettò in silenzio, li ripose nella tasca dove teneva il portafoglio prima che Firnik glielo confiscasse.

«Mi spiace moltissimo di dover fare una cosa del genere», disse all’uomo. «Però non ho tempo di fermarmi a spiegarle, e il denaro mi serve. Adesso voglio che lei prenda il bambino per mano e s’incammini lentamente verso quel laghetto, senza voltare la testa e senza chiedere aiuto. Lo sa che lo storditore ha un raggio d’azione di quasi centocinquanta metri?».

«Aiuta uno sconosciuto, ed ecco cosa ti succede», borbottò il terrestre. «Una rapina in piena luce, al parco municipale!».

«Forza. Si spicci!».

L’uomo s’allontanò. Ewing restò a guardarlo per un po’, finché fu sicuro che gli avrebbe obbedito, poi si girò e raggiunse in fretta l’uscita. Proprio in quel momento spuntò da dietro l’angolo il muso arrotondato dell’autobus numero sessanta. Con un sorriso, Ewing balzò a bordo. Un robot immobile accanto alla porta gli chiese: «Destinazione, prego?».

«Il Grande Cerchio».

«Zero e sessanta, prego».

Ewing tolse di tasca un biglietto da un credito, lo inserì nella fessura e aspettò. Tintinnò un campanello. Uscì il biglietto, e subito dopo quattro monetine color rame scesero dalla scanalatura del resto. Le prese, avanzò sull’autobus. Dal finestrino guardò il parco. Vide il palloncino rosso del bambino, e al suo fianco l’uomo coi capelli rossissimi, che fissava il lago girando le spalle alla strada. Probabilmente è mezzo morto di paura, pensò. Il rimorso per ciò che aveva fatto fu solo momentaneo. Il denaro gli serviva. Firnik aveva rubato tutti i suoi soldi, e l’uomo che lo aveva salvato si era inspiegabilmente dimenticato di lasciargli qualcosa.

Il Grande Cerchio era proprio un grande cerchio: un’enorme strada circolare, ad anello, da cui si dipartivano più di quindici altre strade a raggiera. Al centro della ruota, su un fazzoletto d’erba, si ergeva un monumento che rappresentava chissà chi.

Ewing scese dall’autobus. Individuò un robovigile e gli chiese: «Dov’è l’ingresso per la sotterranea?».

Il robot gli diede le indicazioni per raggiungere la stazione. Prese uno dei tubi mobili, cambiò alla trecentosettantottesima strada, come gli aveva consigliato lo sfortunato terrestre, e quando riemerse si trovò nel bel mezzo di un affollato centro commerciale.

Pensoso, si fermò un attimo sotto una galleria, cercando di ricordare cosa gli servisse. Una maschera d’intimità e uno storditore, e nient’altro, se non sbagliava.

L’insegna di un’armeria non molto lontana attrasse la sua attenzione. La raggiunse: il negozio era aperto. Oltrepassò la barriera d’energia che fungeva da porta. Il proprietario era un terrestre minuscolo, tutto curvo, che gli sorrise umilmente vedendolo entrare.

«Posso esserle utile, signore?».

«Certo. Vorrei acquistare uno storditore, se il prezzo non è troppo alto».

L’uomo fece una smorfia. «Non so se ho ancora in casa storditori. Mi faccia pensare… Ah, sì!». Si chinò sotto il banco e tirò fuori una scatola di plastite blu scuro. Sfiorò il coperchio, e la scatola si aprì. «Ecco qua, signore. Un modello delizioso. Solo otto crediti».

Ewing si fece dare l’arma, la studiò. Era stranamente leggera. L’aprì, e fu sorpreso di scoprire che l’interno era completamente vuoto. Guardò l’altro con rabbia. «Sta scherzando? Dove sono finiti tutti i meccanismi?».

«Oh, lei vuole una pistola vera, signore? Credevo che le interessasse solo un oggetto ornamentale da abbinare al suo bel vestito. Però…».

«Lasciamo andare. Ha armi che funzionano sul serio?».

L’uomo era pallido, quasi si sentisse male. Ma scomparve nella stanza sul retro, e un attimo dopo riemerse tenendo in mano una piccola pistola. «Ne ho una, signore. Il mese scorso me l’ha ordinata un mio cliente siriano, che sfortunatamente è morto. Avevo intenzione di restituirla, ma se le interessa è sua per novanta crediti».

Novanta crediti erano quasi tutto quello che aveva. E voleva salvare un po’ di soldi per passarli all’uomo che avrebbe salvato.

«Sessanta bastano».

«Signore! Non…».

«Accetti sessanta crediti», disse Ewing. «Sono un amico personale del vice console Firnik. Chieda a lui di pagarle la differenza».

Il terrestre lo scrutò, cupo, e sospirò. «Vada per i sessanta. Gliela devo incartare?».

«Non importa». Ewing s’infilò in tasca la piccola arma, ancora chiusa nella scatola, e contò sessanta crediti dal mazzo di banconote che aveva. Restava un’ultima cosa. «Ha maschere d’intimità?».

«Certo, signore. Un vasto assortimento».

«Bene. Me ne dia una dorata».

Con mani tremanti, l’uomo gli porse una maschera color oro. Era proprio come la ricordava. «Quanto?».

«D… Dieci crediti, signore. Per lei, otto».

«Facciamo pure dieci», disse Ewing. Prese la maschera, sorrise astutamente al terrificato negoziante, uscì. Giunto in strada, alzò gli occhi sul grande orologio in cima a un edificio. Erano le 15 e 52.

D’improvviso, irritato, si diede un colpo sulla fronte con la mano: aveva dimenticato di controllare il fatto più importante! Tornò di corsa nell’armeria. L’uomo scattò sull’attenti. Gli tremavano le labbra. «S… Sì?».

«Voglio solo un’informazione. Che giorno è oggi?».

«Che giorno? Be’… Be’, secondodì, naturalmente. Secondodì undici».

Ewing si sentì trionfante. Era proprio secondodì! Uscì dal negozio una seconda volta, afferrò un passante per il braccio. «Mi scusi, può dirmi dove si trova il consolato siriano?».

«Due isolati più a nord, poi volti a sinistra. È un edificio imponente, non può sbagliarsi».

«Grazie».

Due isolati verso nord, poi svoltare a sinistra. Un’ondata di eccitazione gli sommerse il cuore.

S’incamminò decisamente verso il consolato siriano, le mani in tasca. Una era chiusa sul calcio freddo dello storditore, l’altra stringeva un lembo della maschera.

Загрузка...