13

Ewing se ne andò dal Grand Valloin Hotel il pomeriggio successivo. Per fortuna la direzione gli aveva offerto una settimana di soggiorno gratuito; altrimenti, grazie a Firnik, non sarebbe mai riuscito a saldare il conto. Possedeva solo dieci crediti, dono del suo salvatore fantasma, ormai morto. Il conto ammontava a più di cento.

L’impiegato robot lo fissò con fredda cortesia. Ewing firmò i moduli che dichiaravano interrotti i suoi rapporti con l’hotel, che liberavano la direzione da ogni responsabilità per oggetti eventualmente sottratti, e che annunciavano la sua intenzione di lasciare Valloin. «Spero che lei abbia gradito il soggiorno nel nostro hotel», gli disse la voce metallica del robot quando ebbe terminato di firmare.

Ewing lanciò un’occhiata ironica alla macchina e rispose: «Oh, sì. Moltissimo. Moltissimo, credimi». Fece scivolare il fascio di moduli sul ripiano in marmo del banco e accettò la ricevuta. «Pensate voi a trasferire i miei bagagli allo spazioporto?», chiese.

«Certo, signore. Il servizio è compreso nel prezzo».

«Grazie».

Traversò l’atrio sontuoso, oltrepassò la fontana luminosa, le rilassopoltrone, la zona ancora lievemente danneggiata dove sorgeva l’energitron. I robot stavano ridipingendo e ricoprendo di plastica tutto. La cabina sembrava quasi nuova. Entro sera, non sarebbe rimasto un solo indizio a lasciar capire che appena tre giorni prima lì s’era ucciso un uomo.

Prima di raggiungere la strada incontrò parecchi siriani, ma riuscì lo stesso a sentirsi stranamente calmo. Per quanto ne sapeva Rollun Firnik e i suoi, Baird Ewing, l’ambasciatore di Corwin, era morto sotto le loro torture secondodì scorso. Se c’era qualcuno che gli somigliava si trattava di una semplice coincidenza. Oltrepassò tranquillamente la folla di siriani, uscì in strada.

Era il tardo pomeriggio. L’illuminazione stradale cominciava ad accendersi. Un bollettino trasmesso in tutte le stanze aveva informato i clienti dell’hotel che per le ore 14 erano previsti diciotto minuti di pioggia leggera, quindi lui aveva rimandato la partenza. Adesso le strade erano fresche e profumate.

Ewing salì sulla limousine che l’hotel usava per trasportare i clienti dal e al vicino spazioporto, poi si girò per un’ultima occhiata al Grand Valloin Hotel. Abbandonare la Terra gli dava una sensazione di tristezza, di stanchezza: c’erano tante cose a ricordare la gloria passata, e tanti segni a indicare la decadenza attuale. Il suo soggiorno era stato pieno di mille avvenimenti, eppure, stranamente, era come se non fosse accaduto nulla. Tornava a Corwin senza aver concluso niente, senza aver scoperto niente, se non il fatto che non potevano contare su nessun aiuto.

Rifletté un attimo sulla questione del viaggio nel tempo. Ovviamente le macchine dei terrestri, a parte la capacità di dar vita a paradossi, erano in grado di creare la materia dove non era mai esistita. Dovevano pur trarre da qualche parte i diversi corpi, visto che almeno due, e forse più, Ewing erano esistiti simultaneamente. E, a quanto sembrava, il nuovo corpo creato col tessuto del tempo continuava a vivere assieme ai suoi alter ego. Se no, pensò, il mio rifiuto di tornare indietro a salvarmi avrebbe dovuto farmi scomparire. Ma non è successo. È terminata soltanto la vita di quell’altro Ewing prigioniero dei siriani, ucciso dalle torture secondodì.

«Spazioporto», annunciò la voce d’un robot.

Ewing si mise in fila davanti allo sportello delle partenze. Notò che pochi terrestri partivano. Solo qualche siriano e alcuni alieni non umanoidi lasciavano la Terra. Allo sportello c’era il solito impiegato robot.

Quando arrivò il suo turno, gli porse i documenti. La macchina li studiò in fretta.

«Lei è Baird Ewing del mondo libero di Corwin?».

«Esatto».

«È giunto sulla Terra quintodì sette quintomese di quest’anno?».

Annuì.

«I suoi documenti sono a posto. La sua nave si trova nell’hangar 107-B. Firmi qui, prego».

Si trattava dell’autorizzazione per il personale dello spazioporto a togliere la sua nave dall’hangar, prepararla alla partenza, caricare a bordo i suoi effetti personali e trasportare il vascello sul campo di decollo. Ewing lesse in fretta il modulo, lo firmò, lo restituì.

«Per favore si accomodi in sala d’attesa Y e aspetti lì finché non sentirà il suo nome. La nave dovrebbe essere pronta in meno di un’ora».

Ewing si leccò le labbra. «Devo presumere, quindi, che il mio nome uscirà dagli altoparlanti?».

«Sì».

L’idea, vista la massiccia presenza di siriani allo spazioporto, non gli andava a genio. «Preferirei che non usaste il mio nome», disse. «Non potremmo stabilire una parola in codice?».

Il robot esitò. «Ha qualche motivo…?».

«Sì». Ewing parlava senza la minima esitazione. «Diciamo che preferirei farmi chiamare col nome di… ah… Blade. Perfetto. Signor Blade. D’accordo?».

Il robot aveva qualche dubbio. «È una procedura irregolare».

«I regolamenti proibiscono in modo specifico l’uso di uno pseudonimo?».

«No, ma…».

«Se i regolamenti non ne parlano, come può essere irregolare? Allora io sono Blade».

È facile lasciare stupefatto un robot. Probabilmente il suo viso metallico si sarebbe contorto in una smorfia di stupore, se fosse stato possibile. Il robot annuì lentamente. Ewing gli sorrise, poi si portò in sala d’attesa Y.

La sala d’attesa Y era un maestoso locale a cupola, con un imponente soffitto alto almeno una trentina di metri, intessuto di travi scintillanti di berillio. Sfere luminose, sospese a un’altezza di tre metri circa, fornivano quasi tutta l’illuminazione. A un capo della sala sorgeva un gigantesco altoparlante; all’altro, uno schermo di dieci metri per dieci rallegrava gli annoiati passeggeri in attesa d’imbarco con luci caleidoscopiche in continua metamorfosi.

Per un po’ Ewing guardò, senza il minimo interesse, quello spettacolo multicolore. Aveva trovato un sedile in un angolo del locale, dove difficilmente lo avrebbero notato. Praticamente non c’erano quasi terrestri. I terrestri, a capo chino, se ne restavano sul loro pianeta. E quel grande spazioporto, quel monumento a un’era morta ormai da mille anni, serviva solo ai turisti provenienti da Sirio IV e da altri mondi.

Gli passò accanto una creatura con la testa a sfera e la pelle a scaglie purpuree. Ognuna delle sue mani ad artiglio stringeva una versione in sedicesimo della creatura stessa. Il signor XXX di Xfiz V, pensò amaramente Ewing. Di ritorno da un viaggio di piacere con la famiglia. Ha portato i bambini sulla Terra per mostrare loro come muore una civiltà.

I tre alieni si fermarono non lontano da lui e cominciarono a scambiarsi frasi in un linguaggio sconosciuto, sibilante. Adesso sta raccomandando ai piccoli di guardare tutto. La prossima volta che tornano, potrebbero non trovare più niente.

Per un attimo si lasciò vincere dalla disperazione. Gli tornò in mente per l’ennesima volta che la Terra e Corwin erano condannati, che non esisteva modo per allontanare la morsa inesorabile dei loro nemici. La testa gli cadde in avanti. Se la massaggiò stancamente con le dita.

«Il signor Blade all’ufficio partenze, prego. Il signor Blade è pregato di mettersi in contatto con l’ufficio partenze. Il signor Blade…».

Solo dopo un po’ Ewing ricordò che stavano chiamando lui. Si alzò con un colpo di gomiti.

«Il signor Blade all’ufficio partenze, prego…».

«D’accordo», mormorò. «Arrivo».

Seguì fino al centro della sala d’attesa una linea di luce viola, svoltò a sinistra, si avviò verso l’ufficio partenze. Proprio mentre lo raggiungeva, l’altoparlante ripeté ancora una volta: «Il signor Blade all’ufficio partenze…».

«Sono Blade», disse al robot con cui aveva parlato un’ora prima. Gli mostrò la carta d’identità, e la macchina la controllò.

«Qui c’è scritto che lei si chiama Baird Ewing», annunciò il robot dopo profonde riflessioni.

Ewing sospirò, esasperato. «Controlla la tua banca della memoria! Sì, mi chiamo Ewing, però ho chiesto di essere chiamato col nome di Blade. Non ricordi?».

Le lenti ottiche del robot lampeggiarono freneticamente, mentre la macchina eseguiva un controllo nella banca della memoria. Ewing attese, impaziente, mugugnando, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. Dopo quella che gli sembrò una pausa di quindici minuti, il robot tornò in condizioni normali e annunciò: «La sua affermazione è esatta. Lei è Baird Ewing e ha usato lo pseudonimo di Blade. La sua nave l’aspetta all’area di decollo undici».

Sollevato, Ewing accettò la carta d’identità che gli veniva restituita e s’incamminò verso l’area di decollo. Lì riconsegnò il documento a un robinserviente che lo scortò lungo il campo di decollo sino alla nave.

L’astronave era isolata, lontana da ogni altro velivolo per il raggio di trenta metri richiesto dai regolamenti: un ago snello, grazioso, verde-oro, scintillante alle ultime luci del pomeriggio. Ewing salì la scaletta, aprì il portello, entrò.

L’interno sapeva leggermente di chiuso, dopo la settimana nell’hangar. Si guardò attorno. Sembrava tutto in ordine: la sonnovasca in cui avrebbe dormito negli undici mesi di viaggio, l’apparecchiatura radio sul lato opposto, lo schermo visore. Girò la manopola del minuscolo bagagliaio e l’aprì: c’erano anche le sue poche cose. Era pronto per partire.

Ma prima, un messaggio.

Mise in funzione il generatore subeterico, preparandosi a inviare un messaggio a Corwin attraverso l’iperspazio. Il suo primo messaggio, quello che annunciava l’arrivo sulla Terra, non era ancora giunto a destinazione. Avrebbe viaggiato sull’onda portante subeterica un’altra settimana, prima di raggiungere gli apparecchi di ricezione sul suo pianeta.

E quel secondo messaggio che annunciava la sua partenza, purtroppo, lo avrebbe seguito a distanza di pochi giorni. Girò l’interruttore di contatto. Si accese la luce che segnalava il perfetto funzionamento del generatore.

Si mise davanti alla griglia di comunicazione. «Parla Baird Ewing, e sarò breve. Questo è il mio secondo e ultimo messaggio. Sono in partenza per Corwin. La missione è stata un fallimento assoluto, ripeto, fallimento assoluto. La Terra non è in grado di aiutarci. Sta per cadere nelle mani degli abitanti di Sirio IV, di discendenza terrestre, e dal punto di vista culturale è ridotta peggio di noi. Mi spiace di dovervi dare brutte notizie. Spero di ritrovarvi tutti al mio ritorno. Non seguiranno altre comunicazioni. Decollo immediatamente».

Fissò per qualche secondo le luci del generatore che si spegnevano, poi scosse la testa, si spostò, accese l’apparecchio per comunicazioni planetarie, chiese e ottenne la torre di coordinamento centrale dello spazioporto.

«Parla Baird Ewing. Mi trovo sulla nave nell’area di decollo undici. Sono l’unico passeggero a bordo. Intendo partire fra quindici minuti col controllo automatico. Potete darmi l’ora esatta?».

L’inevitabile voce di robot rispose: «Sono le sedici e cinquantotto e tredici secondi».

«Grazie. Ho l’autorizzazione a partire alle diciassette e tredici e tredici secondi?».

«Autorizzazione concessa», disse il robot dopo una breve pausa.

Ewing mugugnò un ringraziamento, inserì i dati nel pilota automatico e accese la nave. Tra quattordici minuti e qualche secondo, l’astronave si sarebbe alzata dalla Terra, che lui si trovasse o meno nella sonnovasca. Ma non c’era fretta: per entrare in ibernazione bastavano pochi istanti.

Si tolse i vestiti, li ripose con cura, mise in funzione il serbatoio che produceva la schiuma nutritiva. Il quadrante del pilota automatico continuò a ticchettare. Undici minuti al decollo.

Addio, Terra.

S’infilò nella vasca, e immediatamente entrarono in gioco le istruzioni subliminali. Conosceva benissimo il procedimento. Doveva solo abbassare quelle leve col piede per entrare in stato di animazione sospesa. Nel suo corpo si sarebbero infilati gli aghi, e il termostato avrebbe cominciato a funzionare. Alla fine del viaggio, con la nave in orbita attorno a Corwin, sarebbe stato risvegliato automaticamente per eseguire l’atterraggio manuale.

Il comunicatore squillò proprio mentre stava per abbassare le leve. Irritato, Ewing alzò gli occhi. Altri guai in vista?

«Chiamiamo Baird Ewing… Chiamiamo Baird Ewing…».

Era il controllo centrale. Guardò il quadrante luminoso: undici minuti al decollo. E di lui sarebbe rimasta soltanto marmellata, se al momento della partenza si fosse ancora trovato in piedi nella nave.

Balzò fuori dalla sonnovasca e rispose alla chiamata. «Ewing. Cosa c’è?».

«Una telefonata urgente dal terminal, signor Ewing. Dicono di doversi assolutamente mettere in contatto con lei prima del decollo».

Rifletté in fretta. Firnik che lo stava ancora inseguendo? O Byra Clork? No, lo avevano visto morire secondodì. Myreck? Forse. Se no, di chi si poteva trattare? «Va bene. Passatemi la telefonata», disse.

Una voce nuova chiese: «Ewing?».

«Esatto. E lei chi è?».

«Per ora non importa. Ascolta, puoi raggiungermi subito al terminal dello spazioporto?».

La voce era mostruosamente familiare. Ewing uscì in un ruggito di rabbia. «No. Non posso! Il mio pilota automatico è in funzione, e devo partire fra sette minuti. Se lei non può dirmi chi è, temo di non poter modificare i miei piani di volo».

Udì un sospiro. «Certo che posso dirti chi sono. È solo che non mi crederesti, ecco tutto. Però non devi partire. Vieni al terminal».

«No!».

«Ti avviso che posso prendere provvedimenti per impedirti di decollare, anche se in questo caso ci rimetteremmo tutti e due. Non vuoi fidarti di me?».

«Non lascerò questa nave solo per le minacce di uno sconosciuto», ribatté freddamente Ewing. «Mi dica chi è. Altrimenti interromperò la comunicazione ed entrerò in animazione sospesa».

Sei minuti al decollo.

«D’accordo», fu la riluttante risposta. «Te lo dirò. Mi chiamo Baird Ewing e vengo da Corwin. Sono te. Adesso vuoi scendere da quella nave?».

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