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Senza troppo entusiasmo, Ewing seguì il siriano. Traversarono il terminal, raggiunsero una sala ristoro all’estremità della galleria. Non appena si furono accomodati a un tavolo traslucido, il siriano fissò Ewing negli occhi e disse: «Andiamo per ordine. Lei come si chiama?».

«Baird Ewing. E lei?».

«Rollun Firnik. Perché è venuto sulla Terra, Ewing?».

Le maniere di Firnik erano spicce, quasi offensive. Ewing giocherellò col bicchiere del liquore ambrato che gli aveva offerto il siriano, lo bevve distrattamente, lo rimise giù. «Gliel’ho già detto», rispose, calmo. «Sono l’ambasciatore del governo di Corwin presso il governo terrestre. Una cosa molto semplice».

«Davvero? Quand’è stata l’ultima volta che siete entrati in contatto col resto della galassia?».

«Cinquecento anni fa. Ma…».

«Cinquecento anni», ripeté Firnik, meditabondo. «E adesso decidete di riaprire i rapporti con la Terra». Scrutò Ewing, il mento appoggiato sui pugni. «Così, di colpo. Puf! Arriva l’ambasciatore. Non è solo perché avete voglia di fare amicizia, vero, Ewing? Qual è il motivo che sta dietro la sua visita?».

«Non sono al corrente delle informazioni che circolano in questo settore della galassia», disse Ewing. «Avete mai sentito parlare dei Klodni?».

«Klodni?» ripeté il siriano. «No. È un nome che non significa niente. È importante?».

«Le notizie non corrono, nella galassia», disse Ewing. «I Klodni sono una razza umanoide che si è evoluta nell’ammasso stellare di Andromeda. Li ho visti in solidografia. Sono creature repellenti, alte un metro e cinquanta all’incirca, con un’organizzazione sociale simile a quella delle formiche. Una flotta d’assalto dei Klodni è partita alla conquista».

Firnik alzò un sopracciglio. Non disse niente.

«Duemila navi dei Klodni sono entrate nella nostra galassia circa quattro anni fa. Sono atterrate su Barnholt, una colonia a una cinquantina di anni luce da Corwin, e hanno distrutto tutto. Sono ripartite dopo un anno. Sinora si sono avventati su quattro pianeti, e nessuno è riuscito a fermarli. Piombano su un pianeta e distruggono tutto ciò che vedono, poi passano al mondo successivo».

«E allora?».

«Abbiamo calcolato la loro rotta futura più probabile. Attaccheranno Corwin entro un decennio, anno più anno meno. Sappiamo già che non riusciremo a sconfiggerli. Non siamo una razza bellicosa. E non possiamo militarizzarci in meno di dieci anni e sperare di vincere». Ewing s’interruppe, bevve un po’ di liquore, che gli parve stranamente poco forte.

Poi proseguì: «Appena scoperta la natura della minaccia rappresentata dai Klodni, abbiamo inviato un messaggio alla Terra per spiegare la situazione e chiedere aiuto. Non c’è stata risposta, anche tenendo conto dell’intervallo di tempo necessario. Abbiamo inviato un secondo messaggio, e di nuovo nessuna risposta».

«Per cui avete deciso di mandare un ambasciatore», disse Firnik. «Immagino avrete pensato che i messaggi non siano mai arrivati. Volete negoziare gli aiuti di persona».

«Si».

Il siriano ridacchiò. «Sa una cosa? Sono trecento anni che sulla Terra nessuno usa armi più pericolose di una pistola ad acqua. Sono pacifisti totali».

«Non può essere vero!».

D’improvviso, la sardonica amabilità lasciò Firnik. La sua voce perse quasi ogni intonazione. «Per questa volta la perdono, perché lei non è di qui e non conosce le usanze. Ma la prossima volta che mi dà del bugiardo, la uccido».

Ewing strinse le labbra. Barbaro, pensò. A voce alta disse: «In altre parole, venendo qui ho perso tempo?».

Il siriano scrollò le spalle, indifferente. «Sarà meglio che combattiate da soli le vostre battaglie. I terrestri non possono aiutarvi».

«Ma sono in pericolo anche loro», ribatté Ewing. «Crede che i Klodni si fermeranno prima di aver raggiunto la Terra?».

«Quanto pensa che impiegheranno ad arrivare fin qui?».

«Un secolo, come minimo».

«Un secolo. Va bene. Per raggiungere la Terra devono passare da Sirio IV. Quando giungerà il momento, ci penseremo noi».

E io che ho percorso sedici parsec per venire qui in cerca d’aiuto, pensò Ewing.

Si alzò. «È stato davvero interessante parlare con lei. E grazie per il liquore».

«Buona fortuna», gli disse il siriano quando si lasciarono. Ma non era un augurio sincero. A Ewing sembrò piuttosto una frase beffarda.

Traversò il locale affollatissimo, tornò nella galleria dello spazioporto, con le pareti alte e luminescenti. Fuori, sulla piastra in ferrocemento, una nave stava decollando. La guardò un attimo, finché non scomparve con un rombo di tuono. Se le parole del siriano rispondevano a verità, tanto valeva ripartire subito per Corwin e riferire il fallimento della missione.

Ma era difficile accettare il concetto di una Terra decadente, senza più spina dorsale. Vero, da cinque secoli non avevano più contatti col pianeta madre; ma su Corwin e sulle altre colonie di quella parte della galassia sopravviveva ancora la leggenda, la leggenda del pianeta madre dove, centinaia di secoli prima, era apparsa la razza umana.

Ricordava le storie dei pionieri dello spazio, dei primi coraggiosi uomini che si erano avventurati nello spazio, e dei coloni altrettanto coraggiosi che avevano esteso a mezzo migliaio di mondi l’eredità della Terra. Per un processo naturale, col trascorrere degli anni i contatti col pianeta madre si erano interrotti. Pianeti autosufficienti, lontani anni luce, non avevano nessun motivo per mantenere in attività, solo per ragioni sentimentali, comunicatori interstellari che costavano fortune. Ogni colonia aveva già i suoi problemi economici.

Però, a guidare i Corwiniti era sempre stata la leggenda della Terra. In caso di guai, la Terra li avrebbe aiutati.

Adesso i guai si profilavano all’orizzonte. E la Terra?, si chiese Ewing. Possiamo contare su di lei?

Si mise a guardare, depresso, i gruppetti di uomini truccati e ingioiellati, e si perse negli interrogativi.

Si fermò a una ringhiera che dava sull’ampia distesa dello spazioporto. Una targa color rame annunciava che quella parte del terminal era stata eretta nel 2716. Ewing, appena giunto su quel mondo antico, fu sommerso da un senso di meraviglia. L’edificio in cui si trovava era stato costruito più di un secolo prima dell’arrivo della prima astronave su Corwin, che allora era solo un pianeta senza nome sulle mappe stellari. E gli uomini che avevano eretto quell’edificio millecento anni prima erano lontani nello spazio-tempo dagli attuali abitanti della Terra quanto lo erano, in quel momento, i coloni di Corwin.

Un pensiero amaro, l’idea di aver fatto il viaggio per nulla. Sua moglie, suo figlio… Per oltre due anni Laira non avrebbe avuto un marito, Blade un padre. E per cosa? Solo per un viaggio inutile a un pianeta le cui glorie riposavano sepolte nel passato?

Sulla Terra, da qualche parte, pensò, ci sarà qualcuno che possa aiutarci. Questo pianeta ha generato tutti noi. Deve ancora conservare un germe di vitalità, chissà dove. Non me ne andrò senza aver tentato di trovarlo.


Sottoposta a un interrogatorio incalzante, alla fine una delle roboguardie gli diede l’informazione che gli serviva: esisteva un posto dove chi arrivava da un altro pianeta poteva registrare le proprie generalità, se ne aveva voglia. Ewing prese accordi per far custodire lì la nave sino al momento della partenza, e in Sala Registrazioni Arrivi si firmò Baird Ewing, ambasciatore del mondo libero di Corwin. Vicino al terminal c’era anche un hotel: chiese e ottenne una stanza. Per il personale robotico dello spazioporto compilò l’autorizzazione a salire sulla sua nave e trasferire all’hotel le sue cose.

La stanza era carina, ma un po’ piccola. Ewing era abituato alla spaziosità della sua casa su Corwin, un pianeta su cui diciotto milioni di persone vivevano in un’area più grande delle terre emerse terrestri. Lui stesso aveva aiutato a costruire la casa dodici anni prima, quando aveva sposato Laira. Si stendeva su quasi undici acri di terreno. Trovarsi confinato in una stanza di soli cinque metri di lato per lui era un’esperienza nuova.

L’illuminazione era soffusa e indiretta; ne cercò invano la fonte. Tastò le pareti, ma non riuscì a scoprire pannelli elettroluminosi. Evidentemente, i terrestri avevano creato nuove tecniche in quel campo.

Un foro nel muro, coperto da una griglia di comunicazione, serviva a mettersi in contatto con gli uffici dell’hotel. Dopo aver riflettuto tra sé, schiacciò il pulsante che accendeva il circuito. Gli rispose immediatamente la voce di un robot. «In cosa possiamo essere utili, signor Ewing?».

«L’hotel ha una biblioteca o qualcosa del genere?».

«Sì, signore».

«Bene. Per favore, cercami un volume di storia terrestre che copra l’ultimo millennio e mandamelo su. Vorrei anche giornali, riviste e cose del genere, il più recenti possibile».

«Certo, signore».

Non erano passati nemmeno cinque minuti quando il campanello della porta suonò dolcemente.

«Avanti», disse Ewing.

La porta era regolata sul suono della sua voce. Si udì il ronzio leggero di relè che si chiudevano, e la porta si aprì. Sulla soglia era fermo un robot, le braccia cariche di microfilm.

«Ha chiesto qualcosa da leggere, signore?».

«Sì, grazie. Vuoi lasciare tutto lì, accanto al visore?».

Quando il robot fu uscito, Ewing prese il microfilm più spesso e guardò il titolo: La Terra e la galassia. Il sottotitolo, a caratteri più piccoli, diceva: Uno studio sui rapporti con le colonie.

Annuì, soddisfatto. Era così che bisognava cominciare: informarsi esattamente sulla situazione prima di scegliere una tattica precisa. Forse, quel siriano beffardo aveva volutamente sminuito la forza della Terra per oscure ragioni note solo a lui. Non sembrava un tipo di cui potersi fidare.

Tolse il coperchio alla bobina, la infilò nel visore, la fece girare un po’ finché non udì il familiare clic. Il visore era dello stesso tipo che si usava su Corwin, quindi non ebbe difficoltà. Accese lo schermo. Apparve la prima pagina del libro, e l’immagine diventò perfettamente chiara quando ebbe regolato la messa a fuoco.

Capitolo uno, lesse. Il periodo iniziale di colonizzazione.

Si può senz’altro affermare che l’era della colonizzazione interstellare si è aperta nell’anno 2560, quando l’invenzione dei propulsori Haley a distorsione spaziale ha reso possibile…

La porta suonò di nuovo. Irritato, Ewing alzò gli occhi dal libro. Non aspettava visite e non aveva chiesto niente al personale dell’hotel.

«Chi è?».

«Signor Ewing?», disse una voce familiare. «Posso entrare? Mi piacerebbe parlarle. Ci siamo visti un attimo stamattina, giù al terminal».

Riconobbe la voce. Apparteneva al terrestre senza orecchie, con la tunica turchese, che gli era stato di così scarso aiuto. E cosa può volere da me?, si chiese.

«Va bene», rispose. «Entri pure».

La porta percepì l’ordine. Obbediente, si aprì. Il piccolo terrestre lanciò un’occhiata di scusa a Ewing, mormorò dolcemente un saluto, ed entrò.

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