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Ewing si risvegliò lentamente, avvolto in una coltre di freddo. Il gelo stava abbandonando gradualmente il suo corpo; testa e spalle ne erano già fuori, il resto del corpo si stava liberando. Si mosse per quanto gli era possibile, facendo tremolare la delicata ragnatela di schiuma che lo aveva avvolto durante il viaggio.

Protese la mano e spinse in giù la leva che si trovava a quindici centimetri dal suo polso. Un getto di liquido uscì dai beccucci sopra di lui, sciogliendo la ragnatela di schiuma. Il gelo abbandonò le sue gambe. Si alzò rigidamente, come se fosse vecchissimo, e si stiracchiò pigramente.

Aveva dormito undici mesi, quattordici giorni e sei ore circa, stando al pannello posto sopra la sonnovasca. Il pannello registrava il tempo in base alle unità galattiche assolute; e il secondo, l’unità galattica assoluta di tempo, era una base di misura del tutto arbitraria, accettata dalla galassia solo perché ideata dal pianeta madre.

Ewing toccò un perno smaltato e una parte della superficie interna della parete dell’astronave scivolò di lato, scoprendo uno schermo visivo dai colori morbidi. Al centro delle profondità verdi dello schermo c’era un pianeta, un pianeta verde a sua volta, con grandi mari che delimitavano i continenti.

La Terra.

Ewing sapeva quale compito lo attendeva subito. Si mosse in fretta, perché ormai la circolazione del sangue nei suoi arti stava tornando normale. Raggiunse la forma massiccia del generatore subeterico installato sulla parete di fronte e premette il pulsante di contatto. Si accese una luce blu.

«Parla Baird Ewing», disse alla griglia registratrice. «Desidero segnalare che mi sono inserito in orbita attorno alla Terra dopo un viaggio perfettamente riuscito. Per ora va tutto bene. Fra poco scenderò sulla Terra. Seguiranno ulteriori rapporti».

Interruppe il contatto. In quel momento le sue parole stavano già percorrendo la galassia, dirette al suo pianeta sull’onda portante subeterica. Sarebbero trascorsi quindici giorni prima che il messaggio raggiungesse Corwin.

Ewing avrebbe voluto restare sveglio, nei lunghi mesi del suo viaggio solitario. Voleva leggere tante cose, ascoltare dischi. L’idea di dormire per quasi un anno lo sgomentava: quanto tempo perso!

Ma loro avevano deciso il contrario. «Devi superare sedici parsec di spazio da solo», gli avevano detto. «Nessuno può restare sveglio tutto quel tempo senza impazzire, Ewing. E tu ci servi sano di mente».

Aveva cercato di protestare, ma non era servito. La gente di Corwin affrontava una spesa enorme nell’inviarlo sulla Terra per una missione d’importanza vitale; e se non potevano essere assolutamente sicuri che sarebbe arrivato in forma perfetta, avrebbero mandato qualcun altro. Seppure con riluttanza, aveva accettato. Lo avevano immerso nel bagno nutritivo, gli avevano insegnato a manovrare coi piedi il comando che dava il via all’animazione sospesa e con le mani il comando che, giunto il momento, lo avrebbe liberato dalla schiuma. Avevano sigillato l’astronave e l’avevano lanciata nel buio, minuscola imbarcazione su un mare sterminato, navicella poco più grande d’una bara costruita per un solo passeggero…


Trascorsero almeno dieci minuti prima che tutte le sue funzioni fisiologiche tornassero normali. Ewing fissò nello specchio la strana barba, corta e ispida, che gli era spuntata in viso. Il suo aspetto era bizzarramente emaciato. Non era mai stato troppo in carne, ma adesso era addirittura scheletrico, con le guance incavate, la pelle tesa sulle ossa sporgenti del viso. Anche i capelli avevano subito una metamorfosi. Quel giorno del 3805 quando era partito da Corwin per la missione d’emergenza sulla Terra erano di un ricco color castano, e ora sembravano molto più smorti, di un marrone spento. Ewing aveva un fisico robusto, coi muscoli estremamente sviluppati e un’espressione fiera attenuata dagli occhi dolci, vivaci.

Aveva lo stomaco vuoto, le gambe molli; si sentiva svuotato d’ogni energia.

Ma lo attendeva un compito importante.

Accanto al generatore subeterico si trovava un apparecchio per comunicazioni all’interno di un sistema solare. Lo accese, fissando la sfera pallida della Terra sullo schermo. Udì una serie di scariche. Trattenne il fiato, nell’attesa ansiosa delle prime parole che avrebbe sentito in terrestre puro. Si chiese se avrebbero capito il suo Anglo-Corwin.

Dopo tutto, erano passati quasi mille anni dalla fondazione della colonia, e quasi cinquecento dall’ultima volta che la gente di Corwin era entrata in contatto con la Terra. Le lingue mutano, in cinquecento anni.

Una voce disse: «Stazione terrestre A Due. Chi chiama? Rispondete. Rispondete, per favore».

Ewing sorrise. Capiva perfettamente!

«Qui è un’astronave proveniente dal mondo libero di Corwin con un solo uomo a bordo», disse. «Mi trovo in orbita a cinquantamila chilometri al di sopra del livello del suolo terrestre. Chiedo il permesso di atterrare su coordinate di vostra scelta».

Ci fu un lungo silenzio, troppo lungo perché dipendesse solo dal tempo necessario per la ricezione. Ewing si chiese se avesse parlato troppo in fretta, o se le sue parole avessero perso di significato sulla Terra.

Alla fine gli risposero: «Il mondo libero di cosa, ha detto?».

«Corwin. Epsilon Ursae Majoris XII. È un’ex colonia terrestre».

Ci fu un’altra pausa inquietante. «Corwin… Corwin. Oh, be’, credo che lei possa atterrare. Ha un’astronave a distorsione spaziale?».

«Sì», disse Ewing. «Naturalmente con correttori fotonici e raggi ionici per l’attraversamento dell’atmosfera».

Il terrestre gli chiese: «I correttori fotonici sono radioattivi?».

Ewing, per un attimo, fu colto di sorpresa. Fissò accigliato la griglia di comunicazione. «Se lei intende radioattivi nel senso di emettere particelle radioattive, no. Il correttore fotonico non fa altro che convertire…». S’interruppe. «Ma devo spiegarle proprio tutto?».

«No, a meno che lei non voglia restare in orbita per tutto il giorno, Corwin. Se la nave non è contaminata, scenda pure. Seguono le coordinate d’atterraggio».

Ewing annotò con estrema cura le coordinate, le rilesse per avere conferma, ringraziò il terrestre e chiuse la comunicazione. Integrò i dati e li programmò nel computer della nave.

Aveva la gola secca. Nel tono di voce del terrestre c’era qualcosa che lo preoccupava. E poi l’altro si era dimostrato troppo vago, distratto, impaziente.

Forse mi aspettavo troppo, pensò Ewing. Dopo tutto, stava solo eseguendo un lavoro di routine.

Ad ogni modo, un inizio del genere era sconcertante. Ewing sapeva di possedere, come tutti i corwiniti, un’immagine mentale estremamente idealizzata dei terrestri: li vedeva come esseri saggi e comprensivi, superbi nel fisico, insomma superuomini veri e propri. Sarebbe stato deludente scoprire che i mitici abitanti del leggendario pianeta madre erano solo esseri umani, simili ai loro remoti discendenti delle colonie.

Ewing allacciò la cintura per il balzo nella cortina dell’atmosfera terrestre e abbassò il comando che azionava l’autopilota. Era iniziata l’ultima parte del viaggio. Entro un’ora si sarebbe trovato sul suolo della Terra.

Spero che potranno aiutarci, pensò. Nella sua mente brillava un’immagine molto vivida: quella delle orde terribili dei barbari Klodni che apparivano da Andromeda e si lanciavano sulla galassia, divorando mondo su mondo nella loro inarrestabile corsa verso il cuore della civiltà.

Da che gli alieni avevano iniziato la campagna di conquista, già quattro pianeti erano caduti. Le previsioni dicevano che sarebbero giunti a Corwin entro un decennio.

Città distrutte, donne e bambini ridotti in schiavitù, le spirali armoniose dell’Edificio Mondiale distrutte, l’Università annientata, i fertili campi bruciati dalle tattiche spietate dei Klodni…

Mentre la nave scendeva verso la Terra, scossa dal contatto con gli strati sempre più densi dell’atmosfera, Ewing rabbrividì. La Terra ci aiuterà, si disse per calmarsi. La Terra salverà le sue colonie dalla conquista.

Sentì i capillari che bruciavano sotto la spinta della decelerazione. Afferrò il corrimano e urlò per diminuire la tensione che gli squarciava i timpani, ma era impossibile calmare la tensione che si portava dentro. Il tuono dei razzi scosse lo scafo della nave, e il pianeta verde diventò paurosamente grande sullo schermo nitido del visore…

Qualche minuto dopo, la nave arrivò al di sopra di una grossa piastra d’atterraggio in ferrocemento. Restò sospesa per un attimo sul getto dei razzi, poi si posò dolcemente a terra. Ewing slacciò la cintura con dita appesantite dalla gravità. Lo schermo inquadrò piccoli automezzi simili a scarafaggi che correvano sul campo verso la nave. La squadra di decontaminazione, senza dubbio, formata di robot.

Aspettò che avessero terminato il loro lavoro, poi spalancò il portello e scese. L’aria aveva un buon odore (strano, dato che il suo pianeta d’origine aveva un’atmosfera composta d’ossigeno al ventitré per cento, cioè il due per cento in più di quella terrestre) e la giornata era calda. Ewing vide la struttura a cupola di un terminal e vi si diresse.

Un robot massiccio, senza viso, lo esaminò con fotoraggi quando lui oltrepassò le porte girevoli. All’interno, il terminal era un labirinto di luci accecanti, rosse e verdi, accese e spente, alte e basse. Ewing restò stupefatto.

Esseri di ogni tipo si affollavano nell’edificio. Vide quattro creature semi-umanoidi, con teste a bulbo, perse in un’accesa discussione lì vicino. Più lontano, si muovevano sciami di esseri più simili ai terrestri. Ewing era perplesso dal loro aspetto.

Alcuni erano «normali», stranamente muscolosi e d’aspetto rozzo, ma insomma su Corwin non avrebbero certo suscitato esclamazioni di sorpresa. Gli altri, invece!

Vestiti in maniera sgargiante, con tuniche color turchese e nero, grigio e oro, costituivano uno spettacolo bizzarro. Uno non aveva orecchie; il suo cranio era nudo, decorato esclusivamente da collane di gioielli che sembravano inserite nella pelle della testa. Un altro aveva una gamba sola e si sorreggeva su una stampella luminosa. Un terzo portava al naso un anello d’oro con smeraldi.

Non se ne vedevano nemmeno due uguali. Da studioso di strutture culturali qual era, Ewing capì subito il motivo del fenomeno: l’ipersviluppo delle decorazioni era un gradino evolutivo comune fra le civiltà altamente evolute, come quella terrestre. Ma vedere quello sfoggio rutilante lo faceva sentire terribilmente provinciale. Corwin era un mondo nuovo, anche dopo un millennio di colonizzazione; lì non avevano ancora preso piede mode del genere.

Esitante, si avvicinò al gruppo di terrestri decorati più vicino. Stavano parlando con voci artefatte, dai toni striduli.

«Chiedo scusa», disse. «Sono appena arrivato dal mondo libero di Corwin. Qui esiste un posto dove possa mettermi in contatto con le autorità?».

La conversazione cessò, come colpita da un’ascia. I tre si girarono a fissare Ewing. «Lei è di una colonia?», chiese l’unipede, in modo quasi incomprensibile.

Ewing annuì. «Corwin. A sedici parsec da qui. La Terra l’ha colonizzato un migliaio di anni fa».

I terrestri si misero a parlare a una velocità che gli rese impossibile capire. Sembrava quasi un loro linguaggio personale, un gergo artificiale. Lui fissò quei visi imbellettati e si sentì disgustato.

«Dove posso mettermi in contatto con le autorità?», chiese di nuovo, leggermente brusco.

L’uomo senza orecchie uscì in un risolino che sembrava uno squittio. «Quali autorità? Questa è la Terra, amico! Noi andiamo e veniamo come ci pare».

In lui aumentò il senso di disagio. Era bastato il contatto di un attimo per rendergli immediatamente antipatici, quasi a prima vista, quei terrestri.

Un’altra voce, strana, fortemente accentata, disse: «Sbaglio, o lei ha detto che viene da una colonia?».

Ewing si voltò. Gli stava parlando uno dei terrestri «normali», un uomo alto circa un metro e sessanta, con un viso quadrato, forte, sopracciglia foltissime su occhi d’un nero profondo, e una testa tozza, quasi a forma di proiettile. La voce era incolore e orribile a udirsi.

«Sono di Corwin», gli rispose.

L’altro si accigliò, arcuando le enormi sopracciglia. «E dove sarebbe?», chiese.

«A sedici parsec da qui. Epsilon Ursae Majoris XII. Una colonia terrestre».

«E cosa ci fa sulla Terra?».

Il tono belligerante gli dava fastidio, ma si sforzò di mantenersi calmo. «Sono l’ambasciatore ufficialmente accreditato del mio pianeta presso il governo terrestre. Al momento sto cercando di mettermi in contatto con le autorità».

«Non esistono», rispose quell’individuo tozzo. «I terrestri hanno deciso di farne a meno un secolo fa all’incirca. Dicono che erano solo un fastidio». Sorrise con aria di disprezzo ai tre uomini decorati, che si erano allontanati e stavano mormorando nel loro linguaggio privato. «C’è ben poco che non dia fastidio ai terrestri».

Ewing era perplesso. «Ma non è della Terra anche lei? Insomma…».

«Io?». Dal petto dell’altro uscì una fragorosa risata sardonica. «Sul vostro pianeta siete proprio isolati, eh? Io sono un siriano. Vengo da Sirio IV, la più antica colonia terrestre. Beviamo qualcosa, che ne dice? Vorrei parlarle».

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