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Era minuscolo, delicato, fragile. Ewing pensò che un buon colpo di vento lo avrebbe ridotto a brandelli. Non era più alto di un metro e cinquanta, pallido, cereo in volto, con grandi occhi seri e labbra sottili, indecise. Il suo cranio a cupola era nudo, leggermente lucido. A intervalli regolari, nella testa erano inserite collanine di gioielli che tintinnavano a ogni suo movimento.

Avanzò verso Ewing con aria altera.

«Spero di non disturbarla nella sua intimità», disse, in un mezzo sospiro esitante.

«No. Niente affatto. Non vuole accomodarsi?».

«Preferirei restare in piedi», rispose il terrestre. «È nostro costume».

«Benissimo».

Ewing, fissando quel terrestre grottesco, provò uno strano senso di repulsione. Su Corwin, un uomo vestito da pagliaccio a quel modo sarebbe stato oggetto di ridicolo.

Il terrestre sorrise timidamente. «Mi chiamo Myreck l’Accademico», disse alla fine. «E lei è Baird Ewing, della colonia di Corwin».

«Esatto».

«Qualche ora fa ho avuto l’enorme fortuna d’incontrarla al terminal dello spazioporto. A quanto sembra, non le ho fatto una buona impressione. Lei mi avrà giudicato frivolo, forse, o magari del tutto irresponsabile. Di questo voglio chiederle scusa, colono Ewing. Lo avrei fatto subito, se non fosse stato per quella scimmia di siriano che l’ha distratta prima che io potessi parlare».

Sorpreso, Ewing notò che l’omino parlava senza quasi la minima traccia di accento terrestre. Fece una smorfia. Cosa voleva da lui quella ridicola creatura?

«Al contrario, Accademico Myreck, non c’è nessun bisogno di scusarsi. Io non giudico un individuo dalla prima impressione che ne ho, specialmente su un pianeta di cui mi sono estranei gli usi e le abitudini quotidiane».

«Un’ottima filosofia!». Per un attimo, sul viso calmo di Myreck passò un’ombra di tristezza. «Ma lei è teso, colono Ewing. Posso avere il privilegio di rilassarla?».

«Rilassarmi?».

«Eliminerò le sue tensioni nervose. È una tecnica che qui pratichiamo con una certa abilità. Posso?».

Dubbioso, Ewing chiese: «Di che si tratta, esattamente?».

«Basta un secondo di contatto fisico, nulla di più». Myreck uscì in un sorriso implorante. «Vedere un uomo così teso mi fa stare male. Mi provoca un dolore fisico».

«Lei ha stuzzicato la mia curiosità», disse Ewing. «Va bene, mi rilassi».

Myreck avanzò, mise dolcemente le mani attorno al collo di Ewing. Ewing, allarmato, si tese immediatamente. «Piano», intonò Myreck. «Rilassi i muscoli. Non abbia paura di me. Si rilassi».

Le sue dita sottili, piccole come quelle d’un bambino, affondarono all’improvviso nella carne alla base del cranio di Ewing. Lui avvertì un’esplosione lacerante di luce, l’interruzione totale delle percezioni sensoriali, per non più di un quindicesimo di secondo. Poi, di colpo, sentì che tutta la tensione scompariva. Deltoidi e trapezoidi si rilassarono così di colpo che gli parve di essere senza spalle e schiena. Il collo, perennemente in tensione, si ammorbidì. Lo stress, le tensioni accumulate in un anno di viaggio in animazione sospesa erano svanite.

«Una tecnica formidabile», disse dopo un po’.

«Manipoliamo il nesso neurale nel punto in cui midollo e colonna vertebrale si uniscono. Per mano di un dilettante, la cosa può essere fatale». Myreck sorrise. «Può essere fatale anche per mano di un esperto come me, ma solo se ne ha la precisa intenzione».

Ewing s’inumidì le labbra.

«Posso farle una domanda personale, Accademico Myreck?».

«Ma certo».

«I suoi vestiti, quei gioielli… Sono ornamenti diffusi su tutta la Terra, o si tratta solo di una moda che seguite qui?».

Myreck, con aria pensosa, intrecciò le dita ceree. «Diciamo che sono manifestazioni culturali. È difficile spiegarlo. Gli individui col mio tipo di personalità e i miei interessi si vestono così; altri in modo diverso, a seconda degli impulsi del momento. Il mio aspetto esteriore indica che sono uno studioso».

«Quindi "accademico" è il titolo che le compete?».

«Sì. Ed è anche il mio nome proprio. Faccio parte dell’Università di Scienze Astratte della città di Valloin».

«Debbo ammettere la mia ignoranza», confessò Ewing. «Non so niente della vostra università».

«Comprensibile. Noi rifuggiamo da ogni pubblicità». Gli occhi di Myreck, per un attimo, scrutarono tenacemente Ewing. «Il siriano che l’ha allontanata da noi… Posso chiederle come si chiama?».

«Rollun Firnik».

«Un individuo particolarmente pericoloso. Lo conosco di fama. Be’, veniamo al punto, colono Ewing. Acconsentirebbe a parlare davanti ai membri dell’Università di Scienze Astratte, diciamo all’inizio della prossima settimana?».

«Io? Non sono uno studioso, Accademico. Non saprei di cosa parlare».

«Lei viene da una colonia di cui tutti noi non sappiamo nulla. Rappresenta una preziosissima miniera di esperienze e informazioni».

«Ma non conosco la città», obiettò Ewing. «Non saprei nemmeno come fare per arrivare da voi».

«Penseremo noi a questo. La riunione è fissata per la sera di quatordì della settimana prossima. Verrà?».

Ewing rifletté un attimo. Era un’occasione buona come un’altra per cominciare a studiare da vicino la cultura terrestre. Gli occorreva una conoscenza generale il più ampia e profonda possibile, per riuscire a ottenere l’aiuto che avrebbe salvato il suo pianeta dalla distruzione dell’orda aliena.

Alzò gli occhi. «D’accordo. Allora è deciso per la sera di quatordì prossimo».

«Le siamo estremamente riconoscenti, colono Ewing».

Myreck fece un inchino. Indietreggiò verso la porta, continuando ad annuire e sorridere. Si fermò appena prima di schiacciare il pulsante d’apertura. «La salute sia con lei», disse. «Ha tutta la nostra gratitudine. Ci vediamo quatordì».

La porta si chiuse alle sue spalle.


Ewing restò un attimo a guardare nel vuoto. Poi ricordò i microfilm che aveva chiesto alla biblioteca dell’hotel, e tornò al visore.

Lesse per quasi un’ora, saltando qua e là. La sua velocità di lettura era altissima, grazie alle tecniche di apprendimento mnemonico studiate alla grande università di Corwin. La sua mente organizzava i dati mentre gli occhi leggevano, inquadrando i fatti in schemi precisi, nitidi. Entro un’ora, aveva un’idea più che esatta dell’andamento della storia terrestre nei milletrecento anni dal primo volo interstellare.

All’inizio, c’era stata una spinta esplosiva verso le stelle. Nel 2573 era stato colonizzato il primo pianeta, Sirio: sessantadue uomini e donne pieni di coraggio. Le altre colonie erano seguite subito, a ritmo frenetico. La Terra, sovrappopolata, si liberava di figli e figlie inviandoli nello spazio a grandi gruppi.

Per tutta la seconda metà del terzo millennio, il tono storico prevalente era quello di un’eccitata frenesia. Gli annali registravano colonia su colonia.

Il cielo era pieno di mondi. Il diciassettesimo sistema planetario di Aldeberan ospitava otto pianeti di tipo terrestre e quindi adatti alla colonizzazione. Il sistema binario di Albireo, quattro. Ewing sfogliò in fretta le pagine dense di nomi, riconobbe con un brivido il nome di Blade Corwin, che nel 2856 aveva creato una colonia sul dodicesimo pianeta di Epsilon Ursae Majoris.

Proseguì. All’inizio del trentesimo secolo, diceva il libro, la vita umana era stata trapiantata su più di mille pianeti dell’universo.

La grande spinta espansionistica era terminata. Sulla Terra, messo finalmente in atto un sistema di controllo totale delle nascite, era svanita per sempre la minaccia della sovrappopolazione, ed era morto anche un po’ dell’impeto che sosteneva la colonizzazione. Gli abitanti della Terra si stabilizzarono per sempre sui cinque miliardi e mezzo; tre secoli prima, quasi undici miliardi d’individui lottavano per trovare spazio su un mondo minuscolo e troppo affollato.

Con la stabilizzazione delle nascite giunse anche la stabilizzazione culturale. Fu la fine delle audaci personalità pionieristiche; si sviluppò un tipo nuovo di terrestre, privo delle spinte e delle intense ambizioni dei suoi antenati. Le colonie avevano assorbito gli uomini che sentivano il fascino dell’ignoto; chi restò sul pianeta madre diede vita a una cultura di esteti, di filosofi, di musicisti e matematici. Dapprima comparve una sottoclasse di operai specializzati, destinati ad accudire alle macchine su cui si reggeva la civiltà; poi, con lo sviluppo di robot in grado di provvedere a tutto, anche loro diventarono inutili.

La storia del quarto millennio era prevedibile. Ewing l’aveva già estrapolata dai dati precedenti, e non fu affatto sorpreso di veder confermate le sue ipotesi. Era sopraggiunta una chiusura. La cultura terrestre, servita dai robot e autosufficiente, si era chiusa in se stessa. Nascite e morti erano perfettamente bilanciate.

Con la stabilità si era creato l’isolamento. Gli uomini delle colonie non avevano più bisogno del pianeta madre, e la Terra non aveva bisogno di loro. I contatti erano diminuiti.

Nell’anno 3800, diceva il testo, fra tutte le colonie terrestri Sirio IV era l’unica ad avere comunicazioni regolari col pianeta madre. I rappresentanti delle altre mille colonie sulla Terra erano talmente rari da rappresentare niente di più che eccezioni trascurabili.

Solo Sirio IV. Strano, rifletté Ewing, che fra tutte le colonie solo i rozzi abitanti di Sirio IV si preoccupassero delle sorti del pianeta madre. Rollun Firnik e l’Accademico avevano ben poco in comune.

Procedendo nella lettura, le speranze di trovare aiuto per Corwin diventavano sempre più deboli. A quanto sembrava, la Terra era diventata un mondo di miti studiosi; ospitava ancora qualcosa di utile nella lotta contro l’orda dei Klodni?

Forse no. Ma Ewing non intendeva abbandonare le ricerche adesso che era appena all’inizio.

Continuò a leggere per quasi tutto il pomeriggio, finché non avvertì i morsi della fame. Si alzò, spense il visore, riavvolse il microfilm, lo ripose nel contenitore. Gli occhi gli dolevano. Una parte della stanchezza fisica che Myreck gli aveva tolto si stava di nuovo insinuando nel suo corpo.

Stando al cartello affisso all’interno della porta, al sessantatreesimo livello dell’hotel c’era un ristorante. Fece il bagno e si vestì, indossando uno dei suoi migliori doppiopetti e camicia di pizzo. Controllò le camere di scoppio della pistola da cerimonia, vide che tutto funzionava perfettamente, e infilò l’arma alla cintura. Soddisfatto, accese l’apparecchio di comunicazione interna, e quando gli rispose un robinserviente disse: «Scendo a cena. Vuoi avvertire il ristorante dell’hotel di riservarmi un tavolo per uno?».

«Certo, signor Ewing».

Interruppe il contatto, si studiò di nuovo nello specchio sopra il comò, per assicurarsi che il vestito fosse in ordine. Tastò il portafoglio che aveva in tasca: era rigonfio di denaro terrestre, tanto da bastargli per tutta la durata del suo soggiorno.

Aprì la porta. In corridoio si trovava una cassetta di plastica opaca che serviva per depositare messaggi. Ewing, sorpreso, scoprì che la luce rossa in alto era accesa, a indicare la presenza di un messaggio.

Premette il pollice sulla piastra d’identificazione, sollevò il coperchio della cassetta e prese il foglio. Il messaggio era battuto a macchina, a lettere blu maiuscole. Diceva:

COLONO EWING, SE CI TIENI ALLA SALUTE, STAI ALLA LARGA DA MYRECK E DAI SUOI AMICI.

Non era firmato. Ewing sorrise freddamente: gli intrighi, le spinte da direzioni opposte, stavano già iniziando. Se l’aspettava. L’arrivo sulla Terra di un uomo delle colonie era un avvenimento piuttosto insolito; non appena si fosse sparsa la voce della sua presenza, era inevitabile che ne nascessero conseguenze e ripercussioni.

«Apriti», disse alla porta.

La porta si aprì. Lui tornò in camera e riaccese l’impianto di comunicazione interna.

Gli rispose un robot. «In cosa possiamo esserle utili, signor Ewing?».

«Credo che nella mia stanza sia nascosto qualche apparecchio elettronico per spiarmi», rispose Ewing. «Vuoi farmi il favore di mandare qualcuno a controllare?».

«Le assicuro, signore, che è del tutto impossibile…».

«Ti dico che nella mia stanza devono esserci un microfono o una telecamera nascosti. O li trovate, o mi trasferisco in un altro hotel».

«Sì, signor Ewing. Manderemo subito un investigatore».

«Bene. Adesso scendo in sala da pranzo. Se scoprite qualcosa, fatemelo sapere lì».

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