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Passarono solo undici minuti tra il momento in cui Ewing interruppe la comunicazione e quello in cui Myreck lo chiamò al telefono interno per informarlo che era arrivato. Ewing scese con l’ascensore di servizio. Giunto a pianterreno, s’incamminò cautamente nel grande atrio verso l’energitron, dove l’Accademico gli aveva dato appuntamento.

Lo attendeva un gruppo di terrestri. Riconobbe Myreck e l’unipede che aveva incontrato al terminal il primo mattino. Gli altri due avevano un aspetto altrettanto grottesco. Nella disperata, sterile ricerca di un’identità personale, si erano venduti al bisturi del chirurgo. Uno aveva una fila di diamanti trapiantati, a mo’ di cresta, in un solco che gli correva lungo il centro del cranio; i gioielli gli coprivano anche tutta la fronte, terminavano in una piccola pietra sull’arco nasale. Il quarto non possedeva labbra, e sulle sue mascelle era incisa una serie di cicatrici blu parallele fra loro. Per la prima volta, Ewing non si sentì disgustato alla vista dei terrestri, in parte perché la sua stanchezza fisica era enorme e in parte perché si stava abituando a spettacoli del genere.

Myreck disse: «L’auto è fuori».

Era un modello tozzo, a tre colori, che apparentemente non possedeva nessun finestrino. Ewing si chiese se si trattava di un’auto computerizzata, o se l’autista guidava a occhio. Quando salì, ebbe subito la risposta. Il tettuccio di plastica verde che copriva la macchina in realtà era uno strano materiale da cui si poteva guardare fuori senza essere visti. L’autista e i passeggeri, contrariamente a quanto aveva creduto, vedevano benissimo in ogni direzione e al tempo stesso godevano della massima privacy.

Guidò Myreck. Per meglio dire, accese il motore e poi si limitò a dare ogni tanto un colpetto col gomito sui comandi direzionali. Si allontanarono dallo spazioporto in direzione sud, seguirono per quindici chilometri circa una grande autostrada, poi svoltarono di nuovo a sud, verso quello che sembrava un quartiere periferico. Ewing si agitava, a disagio, sul sedile. Ogni tanto guardava le file armoniose, precise, di case. Ogni abitazione era sormontata dallo scintillio del proprio campo d’isolamento.

Alla fine, accostarono sul bordo della strada. Stupefatto, si accorse che accanto a loro c’era solo uno spazio vuoto. Più avanti c’erano parecchie case, e tutto il posto per parcheggiare. Come mai Myreck aveva deciso di fermarsi proprio lì?

Scese, senza capire. Myreck scrutò in tutte le direzioni con aria da cospiratore, poi tolse di tasca una chiave fatta di un metallo giallo, luminescente, e avanzò verso lo spazio vuoto. «Benvenuto alla sede dell’Università di Scienze Astratte», disse.

«Ma dov’è?».

Myreck tese l’indice verso il vuoto. «Qui, naturalmente».

Ewing sbatté le palpebre. In quel punto l’aria aveva qualcosa di strano. Era di un curioso colore rosato, e sembrava tremolante, come se dall’erba ben tenuta si alzasse una cortina di calore.

Myreck protese in avanti la chiave, entrò nello spazio vuoto e la girò, come se stesse cercando una serratura invisibile. Poi sembrò che avesse trovato la sua serratura: la chiave scomparve per tre quarti nel nulla.

Apparve un edificio.

Era una cupola d’un rosa acceso, molto simile alle case che la circondavano; ma aveva un’aria bizzarramente poco solida. Sembrava fatta del tessuto dei sogni. Il terrestre senza labbra lo afferrò saldamente per il braccio e lo spinse in avanti, nella casa. La strada scomparve.

«Proprio un bel trucco», disse Ewing. «E come funziona?».

Myreck sorrise. «Questa casa è fuori fase di tre microsecondi col resto della strada. È situata una frazione di secondo nel Passato Assoluto, non tanto da causare gravi disturbi temporali ma quanto basta per nasconderla ai molti nemici che abbiamo».

Incredulo, Ewing chiese: «Siete in grado di padroneggiare il tempo?».

Il terrestre annuì. «È la meno astratta delle nostre scienze. Una difesa indispensabile».

Ewing era stupefatto. Guardò con un rispetto tutto nuovo il piccolo terrestre e pensò: È incredibile! In linea teorica, da quando, più di mille anni fa, erano state pubblicate le equazioni di Blackmuir, si riteneva possibile dominare il tempo. Ma su Corwin le possibilità di ricerca in quel campo erano sempre state minime, e il poco che si era fatto tendeva a indicare che le equazioni di Blackmuir erano sbagliate, oppure incompatibili col livello di sviluppo tecnologico. E invece, erano stati quei terrestri dall’aspetto ridicolo a trovarne l’applicazione pratica! Incredibile!

Si mise a guardare da una finestra la strada. Sapeva che nel Tempo Assoluto la scena che stava osservando si trovava a tre microsecondi nel futuro, ma lo scarto di tempo era talmente minimo da non fare nessuna differenza per gli occupanti della casa, almeno agli effetti pratici. Però faceva una differenza enorme per tutti coloro che avessero voluto introdursi di soppiatto dall’esterno: era impossibile entrare in una casa che non esisteva ancora nel presente.

«Sarà necessario un enorme spreco di energia», disse Ewing.

«Al contrario. Bastano un migliaio di watt per tenere in funzione l’impianto. Il nostro generatore ci dà una corrente a quindici ampère. I costi sono sorprendentemente bassi, per quanto non saremmo mai arrivati a ottenere l’energia necessaria se avessimo cercato di proiettare la casa sulla stessa distanza nel futuro. In ogni modo, avremo agio di parlarne in seguito. Lei dev’essere a pezzi. Venga».

Ewing fu condotto in una stanza molto simpatica, adorna di microfilm e dischi. La sua testa stava già elaborando piani, tanto da fargli dimenticare la stanchezza che gli attanagliava il corpo. Se questi terrestri sono in grado di dominare il tempo, pensò, e se riesco a convincerli a lasciarmi il loro apparecchio o i piani di costruzione… Sembra quasi una sciocchezza. Ma per salvarci ci serve un rimedio impensabile. Potrebbe funzionare.

«Vuole sedersi qui?», disse Myreck.

Ewing si abbandonò su una rilassopoltrona. Il terrestre gli mise in mano un bicchiere e appoggiò un disco sul giradischi. Una musica vigorosa si diffuse nella stanza: note semplici, dirette, eppure enormemente potenti. Avevano un fascino diretto, viscerale, che gli piaceva.

«Chi è l’autore?».

«Beethoven», rispose Myreck. «Un nostro antico compositore. Vuole che la rilassi?».

«Ne sarò lieto».

Sentì di nuovo le mani di Myreck alla base del suo cranio. Attese. Le dita del terrestre tastarono il suo collo, si tesero, affondarono. Per un attimo velocissimo, Ewing si sentì privo di ogni sensazione; poi tornò la coscienza del proprio corpo, ma senza più la presenza del dolore.

«Meraviglioso», disse. «È come se Firnik non mi avesse mai torturato, a parte tutte le abrasioni che mi restano».

«Svaniranno in fretta anche loro. Di solito, una volta eliminata la fonte del dolore, scompaiono tutte le manifestazioni somatiche».

Ewing si appoggiò sulla poltrona. Non sentiva più nessun dolore. Gli ultimi quattro giorni, con tutte le loro sofferenze, erano scomparsi, non erano mai esistiti. La musica era affascinante, e il liquore che teneva in mano lo riscaldava. Era meraviglioso sapere che in un angolo sconosciuto della città di Valloin esisteva un rifugio dove Firnik non lo avrebbe mai trovato, per quanto cercasse.

Stavano arrivando gli altri terrestri: undici o dodici, tutti piccoli, tutti d’aspetto timido, tutti con curiose deformazioni artificiali di diversi tipi. Myreck disse: «Questi sono i membri della nostra università che si trovano qui in città. Altri stanno compiendo ricerche sparsi sul pianeta. Non so come siano le università di Corwin, ma la nostra cerca di ispirarsi al senso più antico della parola. Non operiamo distinzioni fra maestro e allievo. Impariamo tutti allo stesso modo l’uno dall’altro».

«Capisco. E chi di voi ha creato la macchina che controlla il tempo?».

«Oh, nessuno di noi. L’ha ideata Powlis, un centinaio di anni fa. Noi ci siamo limitati a tenere in funzione l’apparecchio e a modificarlo».

«Un centinaio d’anni fa?». Ewing era incredulo. «Conoscete questa tecnica da cento anni e vi nascondete ancora come topi, mentre i siriani vi stanno spodestando dal dominio sul vostro pianeta?».

Si accorse di aver usato parole troppo forti. I terrestri erano umiliati. Qualcuno stava addirittura per mettersi a piangere. Sono come bambini, pensò, meravigliato.

«Chiedo scusa», disse.

Un terrestre magro, con le spalle rese più grosse da un’operazione chirurgica, gli chiese: «È vero che il suo pianeta sta per essere distrutto dagli alieni di un’altra galassia?».

«Sì. Prevediamo l’attacco fra dieci anni».

«E riuscirete a sconfiggerli?».

Ewing scrollò le spalle. «Tenteremo. Però hanno già assoggettato i primi quattro mondi che hanno attaccato, e due di questi pianeti erano molto più forti del nostro. Non abbiamo grandi speranze di vincere. Ma tenteremo».

Myreck disse, triste: «Ci chiedevamo se non ci fosse possibile lasciare la Terra ed emigrare su! vostro mondo. Ma se state per essere distrutti…». La sua voce svanì nel nulla.

«Emigrare su Corwin? E perché mai?».

«Tra poco saranno i siriani ad avere il potere qui. Ci metteranno a lavorare per loro, oppure ci uccideranno. Finché restiamo in questo edificio siamo al sicuro, ma ogni tanto dobbiamo uscire».

«Siete padroni del tempo. Potreste nascondervi nel passato per sfuggire alla percuzione siriana».

Myreck scosse la testa. «Si creerebbero paradossi, moltiplicazioni di personalità. Temiamo queste cose, esitiamo all’idea di vederle accadere».

Ewing fece una smorfia. «Certi rischi è necessario correrli. La cautela va bene solo quando non è spinta all’eccesso».

«Speravamo», disse un terrestre dagli occhi sognanti seduto in un angolo, «che lei potesse portarci con sé su Corwin. Magari sulla sua nave».

«La mia nave può ospitare un solo uomo».

La loro delusione era evidente. «In questo caso, non potrebbe mandare un’astronave più grande a prenderci? Noi non ne abbiamo più, capisce. La Terra ha smesso di costruire astronavi due secoli fa, e poco per volta quasi tutte quelle che ci restavano sono state vendute o sono diventate inutilizzabili. Ormai i siriani controllano le industrie terrestri e non ci permettono di avere astronavi. La galassia che un tempo dominavamo ci è preclusa».

Ewing desiderava poter aiutare in qualche modo quei sognatori inutili e dolci. Ma non trovava nessuna soluzione. «Purtroppo Corwin ha pochissime navi», disse. «Quelle in grado di affrontare un viaggio interstellare con un buon numero di passeggeri sono meno di una dozzina. E senz’altro tutte le astronavi che possediamo saranno requisite dall’esercito per l’imminente guerra contro i Klodni. Non vedo proprio cosa si potrebbe fare. D’altronde», aggiunse, «se anche ripartissi domani dalla Terra, mi occorrerebbe quasi un anno per tornare su Corwin. E ci vorrebbe un altro anno ancora per venirvi a riprendere qui. Credete di poter resistere per due anni ai siriani?».

«Forse», rispose Myreck, ma la sua voce era carica di dubbi. Ci fu un attimo di silenzio. Poi l’Accademico disse: «Vorrei chiarire che siamo pronti a pagare il viaggio. Non in denaro, temo, ma in conoscenze. Forse noi possediamo alcune tecniche scientifiche che il suo mondo ancora non conosce. In questo caso, la nostra emigrazione vi sarebbe piuttosto utile».

Ewing meditò sulla proposta. Indubbiamente i terrestri avevano molto da offrire, in primo luogo la macchina del tempo. Ma non gli era difficile immaginare cosa sarebbe successo su Corwin se avesse cercato di convincere il Consiglio ad approvare l’uso di una grande nave interstellare per raccogliere sulla Terra un gruppo di scienziati che non erano riusciti ad aiutarli. Non avrebbero mai accettato. Se solo quegli ometti avessero posseduto una super-arma…

Ma, ovviamente, con una super-arma non avrebbero avuto nessun bisogno di fuggire davanti ai siriani. Era un circolo chiuso che non offriva speranze.

Si inumidì le labbra. «Forse potrei trovare una soluzione», disse. «Non è detto che la vostra causa sia già persa. Ma adesso…».

Gli occhi di Myreck si accesero. «Sì?».

«La vostra macchina del tempo ha suscitato in me una curiosità estrema. Sarebbe possibile vederla?».

Myreck scambiò quella che sembrava un’occhiata dubbiosa con parecchi dei suoi colleghi. Dopo un istante d’esitazione, riportò gli occhi su Ewing e rispose, con voce leggermente scossa: «Non vedo perché non dovremmo mostrargliela».

Non si fidano completamente di me, pensò. Hanno ancora un po’ paura davanti al colono aggressivo, forte. Be’, non posso biasimarli.

Myreck si alzò, fece cenno a Ewing di seguirlo. «Per di qui. Il laboratorio è al piano sotto».

Ewing s’incamminò, accompagnato dal corteo di tutti gli altri terrestri. Scesero una scala a chiocciola, arrivarono in una stanza luminosissima. Sembrava che la luce uscisse da ogni molecola delle pareti e del pavimento. Al centro della stanza torreggiava una macchina imponente, vagamente a forma di spirale, con un enorme pendolo sospeso al centro. Su un fianco si alzava una piattaforma. Disseminati per la stanza, contatori vari e altri tipi sconosciuti di apparecchiature scientifiche.

«Questa non è la macchina principale», disse Myreck. «Nel piano più basso dell’edificio si trova il grande generatore che ci tiene fuori fase temporale rispetto al mondo esterno. Potrei mostrarglielo, ma questa macchina è infinitamente più interessante».

«Cosa fa?».

«Opera spostamenti temporali diretti su piccola scala. La teoria che sta alla base del suo funzionamento è complessa, ma l’idea-cardine è straordinariamente semplice. Vede…».

«Un attimo», lo interruppe Ewing. Lo aveva colpito un’idea improvvisa, con un impatto quasi fisico. «Mi dica, questa macchina potrebbe mandare una persona nel Passato Assoluto più recente, vero?».

Myreck inarcò le sopracciglia. «Certo, sì. Sì. Ma non potremmo mai correre il rischio di…».

Ewing, di nuovo, non lasciò che il terrestre terminasse la frase. «Lo trovo molto interessante», disse. Si inumidì le labbra, improvvisamente secche. «Secondo lei, in teoria è possibile inviare diciamo… me… indietro nel tempo fino a… oh, grosso modo fino a secondodì pomeriggio di questa settimana?».

«È possibile, sì», ammise Myreck.

Un battito enorme cominciò a pulsare nel cranio di Ewing. Si sentiva intirizzito, gli tremavano le dita. Ma ricacciò indietro il senso di paura. Ovviamente, il balzo era già stato fatto una volta, e con pieno successo. Lui lo avrebbe ripetuto.

«Benissimo, allora. Le chiedo una dimostrazione pratica della macchina. Mi rimandi a secondodì pomeriggio».

«Ma…».

«Insisto», lo zittì Ewing, deciso. Adesso sapeva chi era l’uomo mascherato che lo aveva salvato.

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