V IL CAPPUCCIO

In piedi davanti alla finestra, la piccola Peggy guardava il temporale. Riusciva ancora a vedere tutte le fiamme vitali, e specialmente una, che a guardarla era luminosa come il sole. Ma tutt’intorno c’era solo il buio. No, nemmeno il buio… il nulla, come una parte dell’universo che Dio non fosse riuscito a finire, e che adesso turbinava intorno a quelle luci come per allontanarle a forza una dall’altra, trascinandole via, inghiottendole. La piccola Peggy sapeva che cos’era quel nulla. Le volte che i suoi occhi scorgevano quelle calde fiamme gialle, c’erano anche altri tre colori. L’intenso, scuro arancio della terra. Il pallido grigio dell’aria. E il nero e profondo vuoto dell’acqua. Adesso era l’acqua che cercava di portarseli via. Il fiume… il fiume, che lei non aveva mai visto così nero, così impetuoso, così terribile. E quelle fiammelle erano talmente minuscole, nel buio della notte.

«Che cosa vedi, bambina mia?» chiese il nonno.

«Il fiume sta per portarseli via» disse la piccola Peggy.

«Speriamo di no».

La piccola Peggy si mise a piangere.

«Su, su, bambina mia» disse il nonno. «In fin dei conti, non è sempre una fortuna poter vedere così lontano, eh?»

La piccola Peggy scosse la testa.

«Ma forse finirà meglio di come pensi».

In quel preciso istante, Peggy scorse una delle fiammelle staccarsi dalle altre e turbinare via nell’oscurità. «Oh!» esclamò, tendendo la mano come per afferrare quella luce e rimetterla a posto. Ma non poteva, si capisce. Se il suo sguardo vedeva chiaro e lontano, il suo braccio arrivava molto più vicino.

«Sono perduti?» chiese il nonno.

«Uno» mormorò la piccola Peggy.

«Makepeace e gli altri non sono ancora arrivati?»

«In questo istante» disse la piccola Peggy. «La fune ha tenuto. Adesso sono al sicuro».

Il nonno non le chiese come facesse a saperlo, o che cosa vedesse. Si limitò a darle degli affettuosi colpetti sulla spalla. «Perché gliel’hai detto tu. Ricordatelo sempre, Margaret. Uno è perduto, ma se tu non li avessi visti e non avessi mandato qualcuno ad aiutarli, sarebbero potuti morire tutti quanti».

La piccola Peggy scosse la testa. «Avrei dovuto mandarli prima, nonno, ma’ mi ero addormentata».

«E te ne fai una colpa?»

«Avrei dovuto lasciare che Maria la Sanguinaria mi beccasse, e allora papà non si sarebbe arrabbiato, e non me ne sarei andata nel deposito sulla sorgente, e non mi sarei addormentata, e avrei potuto mandargli qualcuno prima…».

«Tutti quanti potremmo attaccare le colpe una in fila all’altra come margherite, Maggie. Ma non ha senso».

Lei però sapeva che un senso ce l’aveva, eccome. Non puoi dare a un cieco la colpa di non averti avvertito se stavi per pestare un serpente… ma a uno che ci vede e non ti dice niente, sicuramente sì. E lei sapeva quale fosse il suo dovere sin dalla prima volta che si era resa conto che gli altri non potevano vedere tutto quello che lei vedeva. Dio le aveva donato occhi speciali, e quando gli altri erano in pericolo lei doveva avvertirli, o il diavolo si sarebbe preso la sua anima. Il diavolo, o i neri abissi del mare.

«Non ha nessun senso» mormorò il nonno. Poi, come se qualcuno gli avesse sferrato un colpo d’ariete nel didietro, si drizzò all’improvviso esclamando: «Il deposito sulla sorgente! Ma certo, il deposito sulla sorgente!». Se la tirò vicina. «Ascoltami bene, piccola Peggy. Non è stata colpa tua, ed è la pura verità. La stessa acqua che scorre nello Hatrack scorre anche nel ruscello che attraversa il deposito. È sempre la stessa acqua, in tutto il mondo. La stessa acqua che li voleva morti sapeva che avresti dato l’allarme e avresti mandato qualcuno ad aiutarli. Così ti ha cantato la ninnananna finché non ti sei addormentata».

La cosa le parve sensata, eccome. «E com’è possibile, nonno?»

«Oh, è nella sua natura, tutto qui. L’intero universo è composto di quattro tipi soltanto di sostanze, piccola Peggy, e ciascuna di queste sostanze vuole fare a modo suo». Peggy pensò ai quattro colori che distingueva quando vedeva ardere le fiamme vitali, e capì subito che cosa il nonno intendesse. «Il fuoco rende le cose calde e luminose, e le consuma. L’aria le rende fresche, e s’insinua dappertutto. La terra le rende solide e compatte, in modo che durino. Ma l’acqua distrugge tutto, cade dal cielo e trascina via tutto quello che può, e se lo porta fino al mare. Se l’acqua potesse fare a modo suo, il mondo intero ora sarebbe liscio, un unico immenso oceano in cui niente sarebbe fuori della sua portata. Tutto sarebbe morto e liscio. Ecco perché ti ha fatto dormire. L’acqua voleva portarsi via quegli stranieri, voleva portarseli via e ucciderli. È un miracolo che tu ti sia svegliata».

«È stato il martello del fabbro a svegliarmi» disse la piccola Peggy.

«Allora è proprio come ti ho detto io, capisci? Il fabbro stava lavorando il ferro, la più dura delle terre, col violento getto d’aria del mantice e con un fuoco così rovente da bruciare l’erba fuori del camino. Non potendo toccarlo, l’acqua non è riuscita a fermarlo».

La piccola Peggy trovava difficile crederlo, ma non c’erano altre spiegazioni possibili. Era stato il fabbro a destarla da quel sonno acquatico. Il fabbro l’aveva aiutata. Be’, c’era proprio da farci su una bella risata, sapendo che stavolta il fabbro era stato suo amico.

Dalla veranda al piano di sotto si udirono delle grida, e un rumore di porte che si aprivano e si chiudevano. «Qualcuno è già qui» disse il nonno.

La piccola Peggy vide al piano di sotto le fiamme vitali, e subito riconobbe quella in cui erano più forti la paura e il dolore. «È la madre» disse la piccola Peggy. «Sta per partorire».

«Guarda un po’ se non è una fortuna. Perdi un figlio, ed ecco che ne arriva un altro a sostituire la morte con la vita». Con la sua andatura dinoccolata, il nonno uscì dalla stanza per scendere a dare una mano.

La piccola Peggy invece restò dov’era, a guardare la scena in corso sul fiume. Subito si avvide che la fiamma perduta non era affatto perduta. La scorgeva ardere in lontananza, nonostante l’oscurità del fiume cercasse di coprirla. Non era morto, l’acqua l’aveva solo portato via, e forse qualcuno avrebbe potuto aiutarlo. Allora corse fuori, e superando di gran carriera il nonno si precipitò giù per le scale.

Sua madre l’afferrò per un braccio proprio mentre stava per fare irruzione nella sala grande. «Una donna sta per partorire» disse la mamma, «e abbiamo bisogno di te».

«Ma mamma, quello che è stato portato via dal fiume è ancora vivo!»

«Peggy, non abbiamo il tempo di…».

Due ragazzi dai visi identici s’intromisero nella conversazione. «Quello che è stato portato via dal fiume!» esclamò il primo.

«Ancora vivo!» esclamò il secondo.

«Come fai a saperlo?»

«Non è possibile!»

Poiché parlavano tutti e due insieme, per capire quel che dicevano la mamma dovette prima zittirli. «Era Vigor, il nostro fratello maggiore, è stato trascinato via…».

«Ebbene, è ancora vivo» disse la piccola Peggy, «ma il fiume se l’è preso».

I gemelli guardarono sua madre in cerca di conferma. «Possiamo fidarci di lei, comare Guester?»

La mamma annuì, e i ragazzi corsero verso la porta urlando: «È vivo! È ancora vivo!».

«Sei sicura?» chiese ferocemente la mamma. «Se non fosse vero, sarebbe una vera crudeltà risvegliare la speranza nei loro cuori».

Gli occhi lampeggianti della mamma spaventarono la piccola Peggy, che non riuscì a spiccicar parola.

Ma a quel punto alle sue spalle era sopraggiunto il nonno. «Suvvia, Peg» disse, «come faceva a sapere che uno di loro era stato portato via dal fiume, se non l’avesse visto?»

«Lo so, lo so» disse la mamma. «Ma questa donna ha aspettato anche troppo a partorire, e sono in pensiero per il bambino, perciò adesso, piccola Peggy, vieni con me, perché ho bisogno che tu mi dica che cosa vedi».

La mamma condusse la piccola Peggy nella camera da letto accanto alla cucina, quella dove dormivano papà e mamma quando in casa c’erano ospiti. La donna era distesa sul letto e stringeva forte la mano di una ragazza alta dallo sguardo profondo e solenne. La piccola Peggy non conosceva i loro volti, ma ne riconobbe le fiamme vitali, specialmente quella impaurita e sofferente della madre.

«Qualcuno ha gridato» mormorò quest’ultima.

«Non parlate, adesso» disse la mamma.

«Ha detto che era ancora vivo».

La ragazza dallo sguardo solenne aggrottò la fronte nella direzione della mamma di Peggy.

«È vero, comare Guester?»

«Mia figlia è una fiaccola. Ecco perché l’ho portata qui. Perché vedesse il bambino».

«Ha per caso visto il mio ragazzo? È vivo?»

«Credevo che tu non gliel’avessi detto, Eleanor» disse la mamma di Peggy.

La ragazza dallo sguardo solenne scosse la testa.

«L’ho visto dal carro. È vivo?»

«Diglielo, Margaret» disse la mamma.

La piccola Peggy si voltò in direzione del fiume per cercare la fiamma vitale. Quando ricorreva a quel genere di vista, per lei non esistevano più pareti. La fiamma ardeva ancora, sebbene ormai lontanissima. Questa volta, però, la piccola Peggy le si avvicinò alla sua maniera per osservarla meglio.

«È nell’acqua. È impigliato nelle radici».

«Vigor!» esclamò la donna distesa sul letto.

«Il fiume lo vuole. Muori, muori, dice il fiume».

La mamma toccò il braccio della donna. «I gemelli sono andati a dirlo agli altri. Andranno a cercarlo».

«Al buio!» mormorò incredula la donna.

La piccola Peggy riprese a parlare. «Penso che stia recitando una preghiera. Sta dicendo… settimo figlio».

«Settimo figlio» sussurrò Eleanor.

«Che cosa significa?» chiese la mamma.

«Se questo bambino è maschio» disse Eleanor, «e nasce mentre Vigor è ancora in vita, allora sarà il settimo figlio d’un settimo figlio, e tutti quanti vivi».

La mamma restò senza fiato per la sorpresa. «Non c’è da stupirsi se il fiume…» disse. Non era necessario che finisse la frase. Prese invece la piccola Peggy per mano e la condusse davanti alla donna distesa. «Guarda il bambino, e dimmi quel che vedi».

Per la piccola Peggy non era la prima volta, si capisce. Era così che le fiaccole in genere si rendevano utili, guardando il bambino non ancora nato al momento del parto. Sì, anche per vedere come era messo, ma soprattutto perché qualche volta la fiaccola riusciva a scorgere chi era quel bambino, che cosa sarebbe diventato, e poteva raccontare storie di un tempo di là da venire. Ancor prima di sfiorare il ventre della donna, la piccola Peggy scorse la fiamma vitale del bambino. Era quella che aveva visto anche prima, quella che ardeva così calda e luminosa che paragonarla a quella della madre era come paragonare il sole alla luna. «È un maschio» disse.

«E allora che io partorisca questo bambino» disse la madre. «Che egli respiri mentre Vigor respira ancora!»

«Com’è messo?» chiese la mamma.

«Come dev’essere» disse la piccola Peggy.

«A testa in avanti? Con la faccia in basso?»

La piccola Peggy annuì.

«E allora perché non esce?» chiese la mamma.

«È lei che gli sta dicendo di non uscire» disse la piccola Peggy, rivolgendo lo sguardo alla donna.

«Nel carro» disse quest’ultima. «Stava per uscire, e allora gli ho fatto una fattura».

«Avreste dovuto dirmelo subito» la rimproverò la mamma. «Mi chiedete di aiutarvi, e neanche mi dite che ha addosso una fattura. Tu, ragazza!»

In piedi contro il muro c’erano diverse ragazzine che la guardavano a occhi sgranati, senza capire a chi di loro volesse riferirsi.

«Una qualsiasi di voi! Ho bisogno di quella chiave di ferro appesa al muro, quella con l’anello».

La più grande staccò in modo maldestro la chiave dal gancio e gliela portò, anello e tutto.

La mamma fece oscillare il grosso anello con la chiave sopra la pancia della donna, salmodiando a bassa voce:

Ecco il cerchio spalancato

e la chiave dell’uscita

sia ferro la terra, la fiamma sia chiara

orsù, cadi dall’acqua nell’aria.

La donna gridò, improvvisamente attraversata da una fitta lancinante. La mamma gettò la chiave, tirò via il lenzuolo, alzò le ginocchia della donna e selvaggiamente ordinò alla piccola Peggy di vedere.

La piccola Peggy toccò il ventre gonfio della donna. La mente del bambino era vuota, salvo per una sensazione di pressione e di freddo incipiente al contatto con l’aria. Ma quel suo stesso vuoto mentale le permetteva di vedere cose che mai più sarebbero state visibili con altrettanta chiarezza. I possibili sentieri della sua esistenza gli si spalancavano dinanzi a miliardi, in attesa che egli facesse le sue prime scelte, che i primi cambiamenti nel mondo intorno a lui eliminassero a ogni istante un milione di futuri. Ogni persona aveva dentro di sé il proprio futuro, fuggevole ombra che la piccola Peggy riusciva a scorgere solo in rare occasioni, e mai chiaramente, sempre celata dietro i pensieri dell’attimo presente; ma adesso, per pochi preziosi momenti, la piccola Peggy riusciva a scorgerlo con estrema chiarezza.

E vide la morte in fondo a ogni sentiero. Annegare, annegare, ogni sentiero del suo futuro portava quel bambino verso una morte nell’acqua.

«Perché lo odi tanto!» esclamò la piccola Peggy.

«Che cosa?» domandò Eleanor.

«Zitta» disse la mamma. «Lasciatela guardare».

«Tiratelo fuori e fatelo respirare!» gridò la piccola Peggy.

A costo di provocare nuovo strazio, la mamma mise dentro una mano, e le sue forti dita agguantarono il bambino per il mento, cominciando a estrarlo.

In quel momento, mentre nella mente del bambino quell’acqua tenebrosa rifluiva, e un istante prima ch’egli cominciasse a respirare, la piccola Peggy vide sparire dieci milioni di morti causate dall’acqua. Adesso, per la prima volta, gli si erano schiusi alcuni sentieri che lo conducevano verso un futuro abbagliante. E tutti i sentieri che non si concludevano con una morte prematura avevano qualcosa in comune. In tutti quei sentieri la piccola Peggy scorse se stessa compiere una semplice azione.

La piccola Peggy non esitò. Tolse le mani dal ventre che si andava sgonfiando, e s’insinuò sotto il braccio della donna. La testa del bambino era appena comparsa, coperta da una sorta di cappuccio insanguinato, parte del sacco di morbida pelle nel quale aveva fluttuato nel ventre di sua madre. La bocca spalancata succhiava il sacco in dentro, ma il sacco non si rompeva, e il bambino non riusciva a prendere fiato.

Allora la piccola Peggy fece ciò che si era vista fare nel futuro del bambino. Allungò la mano, prese il cappuccio da sotto il mento del bambino e glielo staccò dal viso. Venne via tutto intero, in un unico pezzo bagnato, e nello stesso istante in cui veniva via e la bocca del bambino fu libera, lui inspirò profondamente e poi lanciò quel grido miagolante che all’udito della partoriente suona come il canto stesso della vita.

La piccola Peggy piegò il cappuccio, la mente ancora presa dalle visioni che aveva scorto lungo i sentieri della vita del bambino. Non sapeva ancora che cosa quelle visioni potessero significare, ma nella sua mente le immagini erano così vivide e precise che seppe che non le avrebbe mai dimenticate. Ne ebbe paura, perché tante cose sarebbero dipese proprio da lei, e da come avrebbe usato il cappuccio ancora caldo che ora stringeva tra le mani.

«Un maschio» disse la mamma.

«È…» mormorò la madre. «È il settimo figlio?»

Occupata a legare il cordone ombelicale, la mamma non aveva il tempo materiale di voltarsi verso la piccola Peggy. «Guarda» sussurrò.

La piccola Peggy andò in cerca di quell’unica fiammella sul fiume lontano. «Sì» disse, perché la fiamma vitale bruciava ancora.

Ma proprio mentre la guardava, la fiamma vacillò e si spense.

«Adesso se n’è andato» disse la piccola Peggy.

La donna sul letto pianse amaramente. Il corpo provato dal parto era scosso dai singhiozzi.

«Affliggersi in occasione della nascita di un figlio» disse la mamma. «Che cosa tremenda».

«Zitta» sussurrò Eleanor rivolta a sua madre. «Mostrati gioiosa, o il bambino ne sarà rabbuiato per tutta la vita!»

«Vigor» mormorò la donna.

«Piuttosto che le lacrime, meglio niente» disse la mamma. Sollevò il bambino che piangeva a perdifiato, ed Eleanor lo prese con mani competenti; evidentemente non era il primo bambino che cullava. La mamma andò al tavolo d’angolo e ne prese una sciarpa di lana tinta prima della tessitura d’un nero uniforme e profondo come la notte. La fece scivolare lentamente sul volto della donna in lacrime dicendo: «Dormi, madre, dormi».

Quando la sciarpa le fu tolta dal viso, il pianto era cessato e la donna dormiva, svuotata di ogni energia.

«Porta il bambino fuori dalla stanza» disse la mamma.

«Non dovrebbe cominciare a poppare?» chiese Eleanor.

«È meglio che lei questo bambino non lo allatti proprio» disse la mamma. «A meno che insieme al latte non vogliate fargli succhiare anche l’odio di sua madre».

«Non può odiarlo» disse Eleanor. «Non è stata colpa sua».

«Penso che il latte questo non lo sappia» disse la mamma. «Non è vero, piccola Peggy? A quale poppa si attaccherà il bambino?»

«A quella di sua madre» disse la piccola Peggy.

La mamma le rivolse uno sguardo penetrante. «Ne sei sicura?»

La bambina annuì.

«Bene, allora le porteremo il bambino quando si sveglierà. Per questa notte non avrebbe comunque bisogno di latte».

Così Eleanor portò il bambino nella sala grande, dove il fuoco scoppiettava per asciugare gli abiti degli uomini, che smisero di scambiarsi storie di piogge e alluvioni di quel tanto che bastava per ammirare il neonato.

In camera, tuttavia, la mamma prese la piccola Peggy per il mento e la fissò a lungo negli occhi. «Adesso devi dirmi la verità, Margaret. È grave che un bambino si nutra d’odio col latte di sua madre».

«Non è lei a odiarlo, mamma» disse la piccola Peggy.

«Che cos’hai visto?»

La piccola Peggy avrebbe voluto rispondere, ma non possedeva le parole per raccontare la maggior parte delle cose che aveva visto. Così abbassò lo sguardo sul pavimento. Dal modo in cui la mamma riprendeva fiato capì ch’era sul punto di darle una bella strigliata. Ma la mamma aspettò, e poi la sua mano scese lieve a carezzare la guancia della piccola Peggy. «Ah, bambina, che giornata hai avuto. Il piccolo sarebbe potuto morire, se tu non mi avessi detto di tirarlo fuori. Sei perfino andata ad aprirgli la bocca… è questo che hai fatto, non è vero?»

La piccola Peggy annuì.

«Per essere una bambina così piccola, mi pare che per oggi tu ne abbia passate anche troppe». La mamma si rivolse alle altre bambine, quelle coi vestiti bagnati, ancora addossate al muro. «Anche voi per oggi ne avete avuto abbastanza. Uscite di qui, lasciate dormire vostra madre, venite ad asciugarvi al fuoco. Vi preparerò la cena».

Ma in cucina si stava già dando da fare il nonno, il quale non volle assolutamente che la mamma alzasse un dito. La mamma allora uscì dalla stanza, e poco dopo era di ritorno col neonato; aveva cacciato fuori gli uomini per poterlo addormentare, e lo cullava facendogli succhiare una delle proprie dita.

Dopo un po’ la piccola Peggy pensò che nessuno avrebbe sentito la sua mancanza, perciò sgattaiolò al piano di sopra fino alla scala a pioli che portava in soffitta, e la salì ratta ratta fino a trovarsi in quell’ampio spazio senza luce che odorava di muffa e di rinchiuso. I ragni non la infastidivano più di tanto, e i topi erano generalmente tenuti a bada dai gatti, per cui non aveva paura. Subito si rimpiattò nel suo nascondiglio segreto, e tirò fuori la scatola di legno intagliato regalatale dal nonno, il quale le aveva raccontato che era appartenuta al bisnonno, che se l’era portata dietro dall’Irlanda del Nord. La scatola era piena dei piccoli tesori dell’infanzia — pietruzze, spaghi, bottoni — ma ora la piccola Peggy sapeva che quegli oggetti non erano niente in confronto all’opera che l’avrebbe impegnata per il resto dei suoi giorni. Vuotò completamente la scatola e ne soffiò via la polvere. Quindi vi depose il cappuccio piegato e chiuse il coperchio.

Sapeva che in futuro avrebbe aperto quella scatola una dozzina di dozzine di volte. Che la scatola l’avrebbe chiamata imperiosamente a sé, l’avrebbe svegliata nel cuore della notte, l’avrebbe strappata agli amici, le avrebbe sottratto i suoi sogni. Tutto perché quel neonato che dormiva dabbasso non aveva alcun futuro tranne la morte nelle acque tenebrose, a meno che lei non avesse usato quel cappuccio per proteggerlo, così come esso lo aveva protetto nel grembo di sua madre.

Per un istante provò uno scatto d’ira all’idea che la sua vita venisse sconvolta in quel modo. Era peggio dell’arrivo del fabbro, sì, peggio di papà e della verga di nocciolo con cui la frustava, peggio della mamma quando la guardava rabbuiata in viso. D’allora in poi tutto sarebbe stato diverso, e questo non era giusto. Tutto per un bambino che non aveva mai invitato, al quale non aveva mai chiesto di venire; che gliene importava, a lei, di quell’accidente di bambino?

Allungò la mano e aprì la scatola, con l’idea di prendere il cappuccio e di gettarlo in un angolo buio della soffitta. Ma anche nell’oscurità scorse un luogo dove il buio era ancora più fitto: presso la propria fiamma vitale, dove il nulla di quel profondo fiume tenebroso stava tramando per trasformarla in un’assassina.

Non lo farò, disse all’acqua. Tu non sei parte di me.

Sì che lo sono, sussurrò l’acqua. Sono dentro di te, e senza di me ti prosciugheresti e moriresti.

Ma non mi puoi comandare, ribatté la piccola Peggy.

Chiuse di nuovo il coperchio e si lasciò scivolare giù per la scala a pioli. Papà diceva sempre che in quel modo si sarebbe beccata qualche scheggia nel sedere. Stavolta ebbe ragione. Il fondoschiena le faceva un male cane, e per arrivare in cucina dal nonno fu costretta a camminare tutta di sbieco. Lui, si capisce, abbandonò i fornelli per toglierle le schegge una per una.

«Non ho più gli occhi per un lavoro del genere, Maggie» protestò lui.

«Ma se hai la vista di un’aquila. L’ha detto papà».

Il nonno ridacchiò. «Ma davvero?»

«Cosa c’è per cena?»

«Vedrai che ti piacerà, Maggie».

La piccola Peggy arricciò il naso. «Dall’odore sembra pollo».

«Hai indovinato».

«Non mi piace il brodo di pollo».

«Non c’è solo il brodo, Maggie. L’ho fatto arrosto, tranne il collo e le ali».

«Mi fa schifo anche il pollo arrosto».

«Il nonno ti ha mai detto una bugia?»

«Naah».

«E allora fai meglio a credermi se ti dico che questo pollo ti farà felice. Prova a indovinare. Perché mai mangiare per cena un certo pollo dovrebbe renderti felice?»

La piccola Peggy ci pensò su a lungo, poi sorrise.

«Maria la Sanguinaria?»

Il nonno le strizzò l’occhio. «L’ho sempre detto che quella gallina era nata per il tegame».

La piccola Peggy lo abbracciò così forte che lui cominciò a emettere suoni strozzati, e poi risero entrambi fino ad avere le lacrime agli occhi.

Più tardi quella stessa notte, molto dopo che la piccola Peggy era andata a letto, riportarono a casa il corpo di Vigor, e papà e Makepeace cominciarono a fabbricare la bara. Alvin Miller sembrava più morto che vivo, anche quando Eleanor gli fece vedere il bambino. Ma poi quest’ultima gli disse: «Quella bambina, la fiaccola. Ha detto che questo bambino è il settimo figlio d’un settimo figlio».

Alvin si guardò intorno in cerca di qualcuno che gli confermasse la notizia.

«Sì, di lei vi potete fidare» disse comare Guester.

Negli occhi di Alvin ricomparvero le lacrime. «Quel ragazzo ha tenuto duro» disse. «Laggiù nell’acqua ha tenuto duro quel tanto che bastava».

«Sapeva quanto fosse importante per te» disse Eleanor.

Poi Alvin prese il bambino, lo strinse a sé e lo guardò negli occhi. «Nessuno gli ha ancora dato un nome, vero?» chiese.

«Certo che no» disse Eleanor. «Il nome di tutti i miei fratelli l’ha scelto la mamma, ma tu hai sempre detto che il settimo figlio si sarebbe chiamato…».

«Come me. Alvin. Settimo figlio maschio d’un settimo figlio maschio, con lo stesso nome di suo padre. Alvin Junior». Si guardò intorno, quindi si volse verso il fiume che scorreva in lontananza attraverso la foresta immersa nell’oscurità. «Mi hai sentito, Hatrack? Si chiamerà Alvin, e nonostante tutto non sei riuscito a ucciderlo!»

Poco dopo gli altri portarono dentro la bara e vi composero il corpo di Vigor, con le candele accese a simboleggiare la fiamma della vita che lo aveva abbandonato. Alvin sollevò il bambino sopra il feretro. «Guarda tuo fratello» sussurrò al neonato.

«Il bambino non può ancora vedere nulla, papà» disse David.

«Questo non è vero, David» disse Alvin. «Non sa cosa vede, ma i suoi occhi possono vedere. E quando sarà abbastanza grande da ascoltare la storia della sua nascita, gli racconterò che ha visto coi suoi stessi occhi suo fratello Vigor, che ha sacrificato la vita per lui».

Prima che Faith fosse di nuovo in condizione di viaggiare trascorsero due settimane. Ma Alvin Miller fece in modo che lui e i ragazzi si guadagnassero il vitto e l’alloggio. Insieme disboscarono un bel tratto di terreno, spaccarono la legna per l’inverno, costruirono alcune carbonaie per Makepeace Smith e allargarono la strada. Quindi abbatterono quattro grandi alberi e costruirono un solido ponte attraverso il fiume Hatrack: un ponte coperto, in modo che anche sotto un temporale la gente potesse attraversare il fiume senza essere bagnata da una sola goccia d’acqua.

La tomba di Vigor era la terza del piccolo cimitero, accanto a quelle delle due sorelline di Peggy. Il giorno della partenza i suoi familiari andarono a salutarlo e a recitare una preghiera. Poi salirono sul carro e si diressero verso ovest. «Ma qui lasciamo per sempre una parte di noi stessi» disse Faith, e Alvin annuì.

La piccola Peggy li guardò partire, poi corse in soffitta, aprì la scatola e strinse il cappuccio del piccolo Alvin. Il bambino non era in pericolo… per il momento, almeno. Per adesso era al sicuro. Rimise il cappuccio nella scatola e chiuse il coperchio. Meglio che ti affretti a diventare qualcuno, piccolo Alvin, pensò, o avrai causato un sacco di scompiglio per nulla.

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