XII IL LIBRO

Giorno e notte tennero acceso un fuoco alimentato con tre ceppi, così che le pietre della parete parevano ardere per il calore, e l’aria nella stanza era asciutta. Alvin giaceva immobile, la gamba destra, appesantita dalle stecche e dalle bende, che premeva sul letto come un’ancora, mentre il resto del suo corpo sembrava galleggiare alla deriva, ondeggiando, beccheggiando e rollando. Aveva le vertigini, e anche un po’ di nausea.

Ma delle vertigini e della nausea quasi non si accorgeva. Il dolore gli era nemico; le pulsazioni e le fitte gli distoglievano la mente dal compito che Scambiastorie gli aveva assegnato: guarire se stesso.

Al tempo stesso, tuttavia, il dolore gli era amico. Gli creava intorno un muro, così che quasi non si rendeva conto di trovarsi in una casa, in una camera, su un letto. Il mondo esterno poteva bruciare fino a ridursi in cenere, e lui non se ne sarebbe accorto. Era il mondo dentro di sé che doveva esplorare, adesso.

Scambiastorie aveva avuto un’idea molto vaga di ciò che Alvin avrebbe dovuto fare. Non si trattava semplicemente di lavorare di fantasia. Immaginare che la gamba fosse guarita non gli avrebbe arrecato alcun beneficio. Ma in qualche modo Scambiastorie aveva colto nel segno. Se Alvin aveva potuto penetrare nella roccia avvertendone i punti forti e deboli, dicendole dove spezzarsi e dove restare intatta, perché non avrebbe potuto fare la stessa cosa con la pelle e le ossa?

Il fatto era che la pelle e le ossa erano mescolate insieme. La roccia era più o meno fatta tutta nello stesso modo, ma la pelle cambiava da strato a strato, e non era affatto facile capire dove andasse questo e dove quello. Disteso nel letto a occhi chiusi, Alvin guardava per la prima volta nella propria carne. All’inizio cercò di seguire il dolore, ma questo non lo portò da nessuna parte, lo condusse soltanto là dove tutto era spappolato e squarciato e in disordine, così che non si riusciva più a capire che cosa andasse sopra e cosa sotto. Dopo lunghi e infruttuosi tentativi provò a cambiare strada, e cominciò ad ascoltare il battito del proprio cuore. All’inizio, dopo un po’ il dolore lo distoglieva bruscamente dall’ascolto, ma finalmente riuscì a concentrarsi sulle pulsazioni. Nemmeno si accorgeva delle distrazioni provenienti dal mondo esterno, perché il dolore impediva l’accesso a qualsiasi rumore. Al tempo stesso, quel battito ritmico impediva l’accesso al dolore, almeno in parte.

Poi Alvin cominciò a seguire i vasi sanguigni, prima i più grossi in cui il sangue scorreva con forza, poi via via i più piccoli. Qualche volta si perdeva. Qualche volta una fitta lancinante s’intrometteva richiedendo la sua attenzione. Ma un po’ alla volta, per tentativi, giunse alla pelle e all’osso sani dell’altra gamba. Laggiù il flusso sanguigno era molto più debole, ma lo portò dove voleva arrivare. Esplorò i diversi strati, simili alle bucce di una cipolla. Osservò l’ordine in cui erano disposti, il modo in cui le fibre e i muscoli s’intrecciavano e il modo in cui vi si collegavano le minuscole vene, la tessitura tesa e compatta della pelle.

Solo allora riuscì a farsi strada nella gamba ferita. Il pezzo di pelle che la mamma aveva ricucito era in gran parte già morto, e cominciava a marcire. Alvin Junior adesso sapeva che cosa gli serviva, se in qualche modo quella pelle doveva continuare a vivere. Andò in cerca delle estremità spappolate delle arterie nelle immediate vicinanze della ferita, e cominciò a stimolarne la crescita, proprio come quando voleva allargare le fenditure nella pietra. Ma la pietra era uno scherzo, in confronto a questo… Per spaccarla bastava colpirla, ed era finita lì. La carne viva gli obbediva molto più lentamente, e ben presto Alvin lasciò perdere tutto il resto, concentrandosi soltanto sull’arteria più grande.

Dopo un po’ capì che nella sua opera di costruzione il sangue utilizzava minuscoli pezzetti di varie sostanze. Nel frattempo succedevano un sacco di cose, di gran lunga troppo piccole e veloci e complicate perché Alvin riuscisse a rappresentarsele mentalmente. Ma poteva fare in modo che il suo corpo producesse ciò di cui l’arteria aveva bisogno per crescere. Poteva inviarlo là dove serviva. Dopo un po’ l’arteria si unì al tessuto in disfacimento. Ci volle un po’ di fatica, ma alla fine riuscì a trovare l’estremità di una piccola arteria ormai rattrappita e a collegarla alla prima, così che il sangue tornasse ad affluire nel lembo di pelle cucito.

Troppo presto, troppo in fretta. Avvertì sulla gamba il calore del sangue che sgorgava dalla carne morta in una decina di punti diversi; la pelle non riusciva ad assorbirlo tutto. Piano, piano, piano. Seguì il flusso del sangue, che adesso invece di sgorgare filtrava lentamente nei tessuti, e ricominciò pazientemente a collegare i vasi sanguigni, arterie a vene, cercando di riprodurre il meglio possibile ciò che aveva visto nell’altra gamba.

Finalmente era fatta, almeno per quanto poteva capirci. Il sangue poteva tornare a scorrere normalmente. Col ritorno del sangue, vari punti della toppa di pelle ripresero vita. Altri punti continuavano a essere morti. Alvin continuò ad allargare la rete dei vasi sanguigni, escludendo le parti morte e riducendole in pezzetti così minuscoli da non riuscire più a distinguerli. Ma le parti vive riuscivano a riconoscerli, ad assorbirli, a rimetterli all’opera. Ovunque si spingesse nella sua esplorazione, Alvin faceva in modo che la carne ricominciasse a crescere.

Finché, a forza di pensare così in piccolo e di lavorare così intensamente, la sua mente accumulò una tale stanchezza che senza nemmeno accorgersene il ragazzo si addormentò.

«Non voglio svegliarlo».

«Faith, non c’è modo di cambiargli la fasciatura senza toccare la ferita».

«Va bene, allora… oh, sta’ attento, Alvin! No, lascia fare a me!»

«L’ho già fatto altre volte…».

«Con le vacche, Alvin, non con un bambino!»

Alvin Junior sentì il cambiamento di pressione sulla gamba. Qualcosa che gli tirava la pelle. Adesso gli faceva meno male di ieri. Ma era ancora troppo stanco per riuscire anche solo ad aprire gli occhi. O a emettere un qualsiasi suono in modo da far loro capire che era sveglio, che li udiva.

«Santo Iddio, Faith, stanotte deve aver perso un sacco di sangue».

«Mamma, Mary dice che devo…».

«Sta’ zitto ed esci subito di qui, Cally! Non vedi che tua madre è preoccupata per…».

«Non c’è bisogno di sgridarlo, Alvin. Ha solo sette anni».

«Sette anni bastano a capire quando bisogna tenere la bocca chiusa e lasciar perdere gli adulti se debbono… Ehi, guarda qui!»

«Non posso crederci».

«Pensavo di vedere uscire pus a fiotti, come il latte dal capezzolo di una vacca».

«E invece è pulita come più non si potrebbe».

«E la pelle sta ricrescendo, guarda! La tua cucitura deve aver funzionato».

«Non osavo nemmeno sperare che quella pelle potesse sopravvivere».

«Non si riesce neanche più a vedere l’osso».

«Il Signore ci protegge, Alvin. Ho pregato tutta la notte, e guarda che cosa ha fatto per noi».

«Be’, allora avresti dovuto pregare di più, in modo da farlo guarire prima. Ho un sacco di lavoretti per lui».

«Non bestemmiare davanti a me, Alvin Miller».

«Mi dà proprio il voltastomaco, questo Dio che regolarmente s’intrufola all’ultimo momento per prendersi tutto il merito. Forse Alvin è anche un grande guaritore, ci hai mai pensato?»

«Guarda, con le tue eresie lo stai svegliando».

«Chiedigli se vuole un po’ d’acqua».

«Bere deve comunque, che lo voglia o no».

Alvin ne aveva un bisogno tremendo. Tutto il suo corpo era come prosciugato, non soltanto la sua gola. Ne aveva bisogno per recuperare ciò che aveva perso col sangue. Perciò bevve più acqua che poté, dal bicchiere di latta che qualcuno gli aveva accostato alle labbra. Parecchia gli si versò sul viso e sul collo, ma lui nemmeno se ne accorse. L’importante era quella che gli ruscellava nella pancia. Alvin si lasciò andare sui cuscini e cercò di entrare dentro di sé per capire come andava la sua ferita. Ma era troppo difficile tornare laggiù, troppo difficile concentrarsi. Si assopì prima di giungere a metà strada.

Al suo risveglio pensò che doveva essere nuovamente scesa la notte, o che qualcuno avesse tirato le tende. Non poté accertarsene perché gli era troppo difficile aprire gli occhi, e il dolore era tornato, lancinante; e poi c’era qualcosa di ancora peggiore: la ferita gli prudeva terribilmente, tanto che dovette fare uno sforzo per non allungare la mano e grattarsi. Dopo qualche tempo, tuttavia, riuscì a raggiungere di nuovo con la mente quella zona dolorante. Quando si riaddormentò, sulla ferita era ricresciuto uno strato di pelle, sottile ma completo. Al di sotto, l’organismo era ancora al lavoro per ricostruire i muscoli lacerati e saldare le ossa fratturate. Ma non ci sarebbero più state perdite di sangue, né ferite aperte che potessero infettarsi.

«Guardate qui, Scambiastorie. Avete mai visto niente del genere?»

«Una pelle liscia come quella di un neonato».

«Forse sarà una pazzia, ma a parte le stecche non vedo motivo per tenere la gamba bendata».

«Non c’è più traccia della ferita. No, avete ragione, non c’è più bisogno di tenerla bendata».

«Forse mia moglie ha ragione, Scambiastorie. Forse Dio ha avuto un ripensamento e ha concesso un miracolo al mio ragazzo».

«Preferisco non esprimermi. Quando il ragazzo si sveglierà, forse ci potrà dire qualcosa in proposito».

«Impossibile. Per tutto questo tempo non ha nemmeno aperto gli occhi».

«Una cosa è sicura, signor Miller. Il ragazzo non morirà. Ed è più di quanto sperassi ieri sera».

«Stavo per fabbricare la bara in cui seppellirlo, proprio così. Non vedevo alcuna possibilità che sopravvivesse. E adesso invece sta già bene. Mi chiedo proprio chi, o che cosa, lo stia proteggendo».

«Chiunque lo protegga, signor Miller, il ragazzo si è dimostrato più forte di lui. Il protettore aveva spaccato la macina in due, ma Al Junior ha riattaccato i due pezzi, e il suo protettore non ha potuto farci proprio nulla».

«Pensate che sapesse quel che stava facendo?»

«Sono sicuro che abbia una certa consapevolezza dei suoi poteri. Con la macina, sapeva bene quel che poteva fare».

«In tutta sincerità, non ho mai sentito parlare di un dono come il suo. Ho raccontato a Faith che cos’aveva fatto con quella macina, rifinendone la parte posteriore senza usare neanche un attrezzo, e lei ha cominciato a leggere il Libro di Daniele e a blaterare qualcosa riguardo al compimento della profezia. Voleva correre qui e fargli una predica sul pericolo dei piedi d’argilla. Non è incredibile? La religione la fa andare fuori di testa. Non ho conosciuto una donna che non fosse fuori di testa per via della religione».

La porta si aprì.

«Fuori di qui! Sei sordo? Te l’ho già detto venti volte, Cally! Dov’è sua madre, perché non riesce a tener lontano un ragazzino di sette anni da…».

«Non maltrattatelo, Miller. E poi, se n’è già andato».

«Non capisco che cosa gli abbia preso. Da quando Al Junior è in queste condizioni, vedo la faccia di Cally spuntare da tutte le parti. Come un becchino in attesa di guadagnarsi la giornata».

«Forse per lui è una novità. Che Al Junior si sia fatto male, voglio dire».

«Dopo tutte le volte che Alvin è scampato alla morte per un pelo…».

«Ma senza mai farsi nulla».

Un lungo silenzio.

«Scambiastorie?»

«Sì, signor Miller?»

«Da quando siete qui vi siete dimostrato un buon amico, anche se a volte avremmo potuto darvi motivo di comportarvi diversamente. Ma immagino siate ancora uno a cui piace camminare».

«Certo, signor Miller».

«Quello che vorrei dirvi è… non per farvi fretta, ma se per caso aveste in mente di partire prima che sia trascorso molto tempo, e se il vostro cammino vi portasse per caso verso est, pensate di poter recapitare una lettera per me?»

«Ne sarei felice. E non chiederei un soldo, né al mittente né al destinatario».

«Questo è molto gentile da parte vostra. Ho pensato a quello che mi avete detto. A proposito di un ragazzo che sarebbe meglio allontanare da certi pericoli. E allora mi sono chiesto se al mondo esisteva qualcuno di cui potessi fidarmi fino a questo punto. Nella Nuova Inghilterra non abbiamo parenti degni di questo nome… non vorrei certo che il ragazzo ricevesse un’educazione puritana, così da ritrovarsi ogni due secondi sul ciglio dell’inferno».

«Sono contento di sentirvelo dire, signor Miller, perché nemmeno io nutro un particolare desiderio di rivedere la Nuova Inghilterra».

«Se si ripercorre all’indietro la strada che abbiamo fatto per venire all’ovest, prima o poi si arriva a un ponte sul fiume Hatrack, a una trentina di miglia a nord dell’Etto, non molto lontano da Fort Dekane. Lì sorge una locanda, o almeno sorgeva, e dietro la locanda c’è un cimitero con una lapide che dice: ‘Vigor, morto per salvare il suo stesso sangue’».

«Volete che porti il ragazzo laggiù?»

«No, no, finché c’è tutta questa neve non lo manderei di certo. L’acqua…».

«Capisco».

«C’è un fabbro, laggiù, e può darsi che abbia bisogno d’un apprendista. Alvin ha solo dieci anni ma è robusto per la sua età, e penso che per il fabbro sarebbe un ottimo affare».

«Prenderlo come apprendista?»

«Be’, non sarà certamente il caso che glielo conceda in servitù, non vi pare? E non ho il denaro necessario per mandarlo a scuola».

«Porterò la vostra lettera. Ma spero che mi permettiate di restare finché il ragazzo si sveglierà, in modo da poterlo salutare».

«Non avevo certo intenzione di mandarvi via stasera! E neanche domani, se è per questo, visto che là fuori la neve arriva ormai al ginocchio».

«Non sapevo che aveste fatto caso al tempo».

«Quando si tratta di acqua, me ne accorgo sempre». Miller rise amaramente, e insieme uscirono dalla stanza.

Disteso nel letto, Alvin Junior si chiese come mai papà volesse mandarlo via. Non si era sempre comportato bene, dando il meglio di sé? Non aveva cercato di aiutarli in tutti i modi? Non andava forse a scuola dal reverendo Thrower, anche se questi sembrava deciso a farlo diventare pazzo o idiota? E soprattutto, non era riuscito a estrarre dalla montagna una perfetta macina da mulino, tenendola insieme per tutto il tempo necessario, spiegandole dove andare e rischiando una gamba solo perché non si spaccasse? E adesso volevano mandarlo via.

Apprendista! Da un fabbro! Ma se non ne aveva mai visto uno! Per arrivare dal fabbro più vicino ci volevano tre giorni di cavallo, e papà non gli aveva mai permesso di accompagnarlo. In vita sua non si era mai allontanato più di dieci miglia da casa.

A dire il vero, più ci pensava più la cosa lo faceva infuriare. Quante volte aveva implorato papà e mamma che lo lasciassero andare nella foresta da solo, e loro non gliel’avevano permesso! Doveva sempre essere accompagnato, quasi fosse stato uno schiavo o un prigioniero al quale bisognava impedire di scappare. Se tardava cinque minuti ad arrivare in qualsiasi posto, immediatamente qualcuno veniva a cercarlo. Di viaggi lunghi non ne aveva mai fatti; il più lungo era stato fino alla cava, le poche volte che c’erano andati. E adesso, dopo averlo tenuto rinchiuso come un’oca all’ingrasso per tutta la vita, avevano deciso di spedirlo chissà dove in capo al mondo.

Era una tale ingiustizia che gli venne da piangere, e le lacrime gli corsero giù per le guance fino a gocciolargli dentro le orecchie, e questo gli sembrò così stupido che si mise a ridere.

«Perché ridi?» chiese Cally.

Alvin non lo aveva udito entrare.

«Stai meglio adesso? Non sanguina più, sai, Al».

Cally gli toccò la guancia.

«Piangi perché ti fa tanto male?»

Probabilmente Alvin avrebbe potuto rispondergli, ma aprire la bocca e spingerne fuori le parole gli sembrava troppo faticoso, così si limitò a scuotere la testa, lentamente e con gentilezza.

«Morirai, Alvin?» chiese Cally.

Alvin scosse di nuovo la testa.

«Oh» disse Cally.

Parve così deluso che Alvin un po’ si arrabbiò. Si arrabbiò abbastanza da decidersi a mettere le labbra in movimento.

«Mi dispiace» gracidò.

«Ecco, non è giusto» disse Cally. «Io non volevo che tu morissi, ma tutti dicevano che saresti morto sicuramente. E allora mi sono messo a pensare come sarebbe stato se fossi stato io quello di cui tutti si preoccupavano. Tutti ti tengono d’occhio in continuazione, e se io dico qualcosa non fanno che dire: togliti dai piedi, Cally. Sta’ zitto, Cally. Nessuno ti ha chiesto niente, Cally. Non dovresti essere a letto, Cally? A loro non importa niente di quello che faccio. A parte quando cerco di picchiare te, e allora tutti quanti dicono: tieni le mani a posto, Cally».

«Per un topo campagnolo, a fare la lotta te la cavi mica male». Per lo meno, questo era ciò che Alvin avrebbe voluto dire; ma gli fu impossibile stabilire se le sue labbra si fossero mosse.

«Lo sai cos’ho fatto una volta, quando avevo sei anni? Sono uscito e sono andato a perdermi nel bosco. Ho camminato per un sacco di tempo. Qualche volta chiudevo gli occhi e giravo su me stesso per essere sicuro di non sapere dov’ero. Devo essermi perso per almeno mezza giornata. Forse che qualcuno è venuto a cercarmi? Nemmeno un’anima. Alla fine ho dovuto trovare da solo la strada di casa. Nessuno che mi abbia detto: dove sei stato tutto il giorno, Cally? La mamma ha detto soltanto: hai le mani sporche come il sottocoda di un cavallo, fila subito a lavartele».

Alvin rise di nuovo, quasi senza voce, col petto che gli sussultava.

«A te sembrerà buffo. Sei tu quello che vengono sempre a cercare».

Stavolta Alvin si sforzò di emettere un suono. «Vuoi che me ne vada?»

Per rispondere, Cally ci mise parecchio tempo. «No. Chi giocherebbe con me, allora? Solo quegli scemi dei cugini. Di tutti, non ce n’è uno che sappia fare alla lotta in maniera decente».

«Me ne vado» sussurrò Alvin.

«Non è vero. Sei il settimo figlio, e non ti lasceranno mai andare».

«Me ne vado».

«Sicuro, per come faccio il conto io, sono io il numero sette. David, Calm, Measure, Wastenot, Wantnot, Alvin Junior che saresti tu, e poi io, che fanno sette».

«Vigor».

«È morto. È morto da un sacco di tempo. Bisognerebbe che qualcuno lo dicesse anche a papà e mamma».

Alvin giacque immobile, quasi allo stremo delle forze per quelle poche cose che aveva detto. Cally praticamente non aggiunse altro. Si limitò a restarsene lì seduto. E a stringere forte la mano di Alvin. Poco dopo Alvin cominciò ad assopirsi, per cui non poté essere del tutto sicuro se Cally l’avesse detto veramente, o piuttosto non fosse stato un sogno. Ma lo udì dire: «Non potrei mai volere la tua morte, Alvin». E poi gli sembrò che avesse detto: «Vorrei solo essere te». Comunque fosse, Alvin scivolò nel sonno, e quando si svegliò era solo e la casa era immobile tranne per i consueti rumori notturni, il vento che scuoteva le imposte, le travi che scricchiolavano contraendosi per il freddo, il ceppo che scoppiettava nel camino.

Ancora una volta entrò nel proprio corpo dirigendosi lentamente verso la ferita. Ma stavolta non lavorò sulla pelle e sui muscoli. Lavorò sulle ossa. Restò sorpreso nell’accorgersi che non erano solide e compatte come la macina di pietra, ma una specie di merletto, piene di minuscole cavità. Ma ben presto capì com’erano fatte, e dopo un po’ riuscì facilmente a saldarle di nuovo in un unico pezzo.

Però in quell’osso c’era qualcosa che non andava. Nella gamba malata c’era qualcosa che non voleva tornare esattamente come in quella buona. Ma era qualcosa di così piccolo che Alvin non riusciva a distinguerlo chiaramente. Sentiva soltanto che, qualunque cosa fosse, faceva sì che l’osso restasse malato dentro; era solo una minuscola macchia malata, ma lui non riusciva a guarirla. Era come cercare di raccogliere da terra i fiocchi di neve; ogni volta che gli sembrava di aver raccolto qualcosa, in mano non gli restava nulla, o forse era soltanto troppo piccolo per vederlo.

Pensò che forse se ne sarebbe andato da solo. Che forse, se fosse migliorato tutto il resto, anche quel punto malato del suo osso sarebbe migliorato da sé.


Eleanor era andata a trovare i suoi, ed era tornata molto tardi. Armor non aveva niente da ridire sul fatto che una moglie mantenesse solidi legami con la propria famiglia d’origine, ma tornare a casa dopo il tramonto era troppo rischioso.

«Sembra che da queste parti si aggirino pellerossa selvaggi provenienti dal sud» disse Corazza-di-Dio. «E tu giri da sola di notte».

«Ho fatto prima che potevo» ribatté lei. «La strada la so trovare anche al buio».

«Non è questione di trovare la strada» la rimproverò Armor. «Per gli scalpi dei bianchi, i francesi adesso offrono fucili. Non sarà una tentazione per i seguaci del Profeta, ma a qualche Chok-Taw potrebbe anche essere venuto in mente di andare in visita a Fort Detroit raccogliendo scalpi lungo il cammino».

«Alvin non morirà» disse Eleanor.

Di solito Armor non tollerava che lei cambiasse argomento in quel modo. Ma la notizia era così sorprendente che sarebbe stato un po’ difficile non domandarle chiarimenti. «Allora hanno deciso di amputargli la gamba?»

«L’ho vista, la gamba. Sta migliorando. E nel tardo pomeriggio Alvin Junior era sveglio e ho potuto chiacchierare un po’ con lui».

«Sono contento che fosse sveglio, Elly, sono veramente contento, ma non penserai davvero che quella gamba possa migliorare! Una ferita di quel genere può anche dare segni di miglioramento, ma ben presto si può star sicuri che arriva la cancrena».

«Stavolta non penso proprio che vada così» disse lei. «Vuoi cenare?»

«Debbo essermi sbocconcellato almeno due filoni di pane mentre andavo avanti e indietro e mi chiedevo se saresti mai tornata a casa».

«Non mi piacciono gli uomini con la pancia».

«Be’, io ce l’ho già, e ti assicuro che chiede cibo come quella di chiunque altro».

«Mia madre mi ha regalato una forma di formaggio». Eleanor la depose sul tavolo.

Armor aveva i suoi dubbi. Per come la vedeva lui, se i formaggi di Faith Miller venivano così buoni ciò era dovuto almeno per metà al fatto che combinava qualcosa di strano col latte. Era impossibile trovare formaggio migliore nell’intera regione tra il Wobbish e il Tippy-Canoe.

Quando scopriva di essere in qualche modo venuto a compromessi con la stregoneria, Armor s’infuriava con se stesso. E quando era infuriato con se stesso non era assolutamente disposto a lasciar cadere la cosa, anche se sapeva benissimo che Elly non aveva nessuna intenzione di parlarne. «Perché pensi che la gamba non andrà in cancrena?»

«Sta migliorando così in fretta» disse Eleanor.

«Migliorando come?»

«Oh, in pratica è quasi guarita».

«Quasi quanto?»

Lei si voltò di scatto, roteò gli occhi, quindi gli diede nuovamente le spalle e cominciò a fare a spicchi una mela da mangiare col formaggio.

«Ti ho chiesto quasi quanto, Elly. Quanto gli manca a guarire?»

«È già guarito».

«Due giorni dopo che una macina da mulino gli ha portato via un pezzo di gamba, è già guarito?»

«Solo due giorni? Avrei detto che era passata una settimana».

«Il calendario dice che sono due giorni» ribatté Armor. «Il che significa che c’è di mezzo qualche stregoneria».

«A quanto dicono i Vangeli, Colui che guariva gli ammalati non praticava certo la stregoneria».

«Chi è stato, allora? Non venirmi a dire che tuo padre o tua madre sono riusciti a escogitare un rimedio di questa potenza da un giorno all’altro. Hanno forse evocato il demonio?»

Eleanor si voltò di scatto, il coltello ancora sospeso in aria per tagliare. Nei suoi occhi passò un lampo. «Può darsi che papà non sia esattamente un uomo di chiesa, ma in casa nostra il diavolo non ha mai messo piede».

Non era ciò che il reverendo Thrower gli aveva detto, ma Armor ebbe il buon senso di non introdurre anche lui nella conversazione. «Allora è stato quel mendicante».

«Si guadagna il vitto e l’alloggio lavorando duro come chiunque altro».

«Dicono che ha conosciuto personalmente quel vecchio mago di Ben Franklin. E Tom Jefferson, l’ateo degli Appalachi».

«Sa raccontare delle belle storie. E comunque non è stato lui a guarire il ragazzo».

«Be’, qualcuno sarà pur stato».

«Forse è semplicemente guarito da solo. A ogni modo la gamba è ancora rotta. Perciò non è un miracolo o roba del genere. È uno che fa in fretta a guarire, tutto qui».

«Be’, forse è uno che fa in fretta a guarire perché il diavolo si prende cura della sua genìa».

Dalla luce che le scorse negli occhi quando Eleanor si voltò, Armor fu a un pelo dal pentirsi di ciò che aveva detto. Ma poi pensò che non ce n’era motivo. Il reverendo Thrower aveva detto che quel ragazzo era perfino peggio della Bestia dell’Apocalisse.

Bestia o ragazzo che fosse, tuttavia, era pur sempre il fratello di Elly, e sebbene di solito sua moglie fosse la persona più buona e cara del mondo, quando le saltava la mosca al naso poteva diventare un’autentica furia.

«Ritira quello che hai detto» disse Eleanor.

«Suvvia, questa è la cosa più stupida che abbia mai sentito. Come faccio a ritirare quello che ho detto?»

«Dicendo che sai che non è vero».

«Ma io non posso sapere se è vero o non è vero. Ho detto ‘forse’, e se uno non può più dire ‘forse’ a sua moglie quanto gli pare e piace, allora sarebbe meglio che fosse morto e sotterrato».

«Sono d’accordo. E se non ritiri quello che hai detto, non dubitare che preferiresti essere morto e sotterrato!» E si mosse verso di lui stringendo una mela in ciascuna mano.

Ora, il più delle volte che Elly si avvicinava a lui in quel modo, anche se era veramente arrabbiata, lui si lasciava rincorrere per la casa e di solito dopo un po’ lei finiva col mettersi a ridere. Ma non stavolta. Gli spiaccicò una mela in testa, l’altra gliela tirò addosso, e poi corse di sopra in camera, si mise a sedere sul letto e scoppiò in un pianto dirotto.

Poiché Eleanor non era tipo da mettersi a piangere, Armor ne concluse che le cose si erano spinte troppo oltre.

«Ritiro quello che ho detto, Elly. È un bravo ragazzo, questo lo so».

«Oh, di quello che pensi non m’importa nulla» scattò lei. «Di queste cose non capisci un accidente».

Non erano molti i mariti che si sarebbero fatti dire dalla moglie una cosa del genere senza mollarle un manrovescio. A volte Armor avrebbe voluto che Elly capisse come lo spirito di cristiana sopportazione del marito tornasse tutto a suo vantaggio.

«Qualcosa invece credo proprio di capirne» ribatté.

«Hanno intenzione di mandarlo via» disse Eleanor. «A primavera lo manderanno a bottega da qualcuno, come apprendista. Lui non ne è affatto entusiasta, questo è certo, ma non si oppone, se ne sta li disteso nel letto e ne parla tranquillamente, ma da come ti guarda sembra voler dire addio a tutti quanti».

«E come mai vogliono mandarlo via?»

«Te l’ho detto, per fargli imparare un mestiere».

«Da come lo tengono nella bambagia, mi è difficile credere che gli permettano di allontanarsi».

«E non parlano nemmeno di mandarlo qui nelle vicinanze. Addirittura al confine orientale del territorio dell’Hio, vicino a Fort Dekane. Pensa, praticamente a mezza strada tra qui e il mare».

«Sai, a pensarci bene non è affatto una decisione irragionevole».

«E perché?»

«Con questi Rossi che cominciano a creare problemi, preferiscono saperlo lontano di qui. Chiunque altro può restarsene qui in attesa di una freccia in fronte, ma non Alvin Junior».

Eleanor lo fissò con evidente disprezzo. «Qualche volta sei così sospettoso che mi fai venir voglia di vomitare, Corazza-di-Dio».

«Non sono sospetti. È la realtà».

«Tu non sapresti distinguere la realtà da un cavolfiore».

«Mi toglieresti questa mela dai capelli, o preferisci mangiartela?»

«Sì, sarà meglio che faccia qualcosa, o me la spiaccicherai tutta sulle lenzuola».


Scambiastorie si sentiva quasi un ladro a partire prendendo con sé tanta roba. Due paia di calzettoni grossi. Una coperta nuova. Un mantello di pelle d’alce. Carne essiccata al sole e formaggio. Una buona cote.

E le cose che non sapevano nemmeno di avergli donato. Un corpo riposato, senza più dolori e ammaccature. Un passo disinvolto. Volti cordiali bene impressi nella mente. E storie. Storie annotate nella parte del libro chiusa da una fibbia, la parte nella quale egli solo scriveva. E storie vere, scritte faticosamente dalle loro mani.

Dal canto suo Scambiastorie aveva contraccambiato la loro generosità, o per lo meno ci aveva provato. I tetti riparati per l’inverno, altri lavoretti qua e là. Soprattutto, avevano potuto leggere le parole scritte di pugno da Ben Franklin, e poi da Tom Jefferson, Ben Arnold, Pat Henry, John Adams, Alex Hamilton… persino da Aaron Burr, prima del duello, e da Daniel Boone, dopo. Prima che Scambiastorie arrivasse da loro, erano parte della loro famiglia, parte del territorio del Wobbish, e nulla più. Adesso appartenevano a storie molto più vaste. La guerra d’indipendenza degli Appalachi. Il Patto Americano. Ora vedevano la loro marcia faticosa in quelle regioni selvagge come un filo tra molti, e potevano avvertire la consistenza dell’arazzo che con quei fili era stato tessuto. In realtà non era nemmeno un arazzo, ma un tappeto. Un buon tappeto spesso e resistente che generazioni di americani dopo di loro avrebbero potuto calpestare. C’era una poesia, là dentro; e, prima o poi, l’avrebbe messa per iscritto.

E poi aveva lasciato loro qualcos’altro. Un figlio amatissimo tolto di sotto a una macina da mulino che stava per cadere. Un padre che adesso aveva la forza di mandar via il proprio figlio prima di ucciderlo. Un nome per l’incubo di un ragazzo, in modo che questi potesse capire che il suo nemico non era una fantasia, ma una realtà. L’incoraggiamento sussurrato a un bambino ferito perché guarisse se stesso.

E un unico disegno, inciso con la punta d’un coltello arroventato su un’assicella di legno di quercia ben lucidato. Scambiastorie avrebbe preferito lavorare con cera e acido sul metallo, ma in quei luoghi sarebbe stato impossibile trovarli. Così si era arrangiato alla meglio, tracciando quelle linee a fuoco nel légno. Il disegno rappresentava un giovane travolto dalla corrente impetuosa di un fiume, che, impigliato tra le radici di un albero, cercava di riprendere fiato mentre il suo sguardo fissava impavido la morte. Nella sua semplicità, all’Accademia d’Arte del Lord Protettore quel disegno non avrebbe ottenuto che disprezzo. Ma quando comare Faith lo vide, scoppiò in pianto e lo strinse a sé bagnandolo di lacrime. E quando Alvin Miller lo vide, annuì e disse: «Ecco la vostra visione, Scambiastorie. Senza averla mai vista, avete disegnato la sua faccia alla perfezione. È Vigor. È il mio ragazzo». Quindi si mise a piangere anche lui.

Lo collocarono sulla mensola del camino. Poteva non essere un capolavoro, pensò Scambiastorie, ma era vero, e per quella gente significava molto più di ciò che un qualsiasi ritratto avrebbe potuto significare per un vecchio grassone di nobile o di parlamentare a Londra, Camelot, Parigi o Vienna.

«È ormai giorno chiaro» disse comare Faith. «Ne avete di strada da fare prima di sera».

«Non potete rimproverarmi se sono riluttante a partire, anche se sono felice che mi abbiate affidato questa commissione. Cercherò di non deludervi». Così dicendo, diede un colpetto alla tasca nella quale aveva riposto la lettera per il fabbro del fiume Hatrack.

«Non potete andarvene senza salutare il ragazzo» disse Miller.

Scambiastorie aveva rimandato il più possibile quel momento. Annuì, quindi si alzò dalla comoda poltrona accanto al fuoco e andò nella camera dove aveva fatto le più belle dormite della sua vita. Era bello vedere Alvin Junior con gli occhi aperti, il viso allegro, non più inespressivo com’era stato per qualche tempo, o corrugato dalla sofferenza. Ma il dolore c’era ancora. Scambiastorie lo sapeva.

«Ve ne andate?» chiese il ragazzo.

«Me ne vado, ma prima volevo salutarti».

Alvin parve leggermente irritato. «Così non avete intenzione di farmi scrivere nel vostro libro?»

«Non ci faccio scrivere tutti, lo sai».

«Papà ce l’avete fatto scrivere. E anche la mamma»

«E anche Cally».

«Chissà che meraviglia» disse Alvin. «Cally scrive come un… come un…».

«Come un bambino di sette anni». Era un rimprovero, ma Alvin non intendeva farsi intimidire.

«E perché io no? Perché Cally sì, e io no?»

«Perché alle persone io faccio scrivere solo la cosa più importante che abbiano mai fatto o visto con i loro stessi occhi. Tu che cos’avresti scritto?»

«Non so. Forse qualcosa sulla macina da mulino».

Scambiastorie fece una smorfia.

«Allora forse sulla mia visione. È stata importante, l’avete detto voi stesso».

«E infatti ne ho già scritto altrove».

«Ma nel libro volevo scriverci io» protestò Alvin. «Volevo che la mia frase fosse lì dentro, accanto a quella di Ben il Creatore».

«Non è ancora il momento» disse Scambiastorie.

«Quando, allora?»

«Quando le avrai suonate al vecchio Distruttore, ragazzo. Ecco quando ti permetterò di scrivere nel libro».

«E se non ci riesco?»

«Allora anche di questo libro non sarà rimasto granché».

Ad Alvin spuntarono le lacrime agli occhi. «E se muoio?»

Scambiastorie avvertì un brivido di paura. «Come va la gamba?»

Il ragazzo alzò le spalle. Battendo le palpebre, ricacciò indietro le lacrime. Un istante dopo erano scomparse.

«Non è una risposta, ragazzo».

«Continua a farmi male».

«Continuerà finché l’osso non si sarà saldato».

Alvin Junior sorrise debolmente. «L’osso è completamente saldato».

«E allora perché non cammini?»

«Mi fa male, Scambiastorie. E non smette. C’è qualcosa che non va nell’osso, e non ho ancora capito come rimediare».

«Troverai un modo».

«Ancora non l’ho trovato».

«Un vecchio cacciatore di pellicce una volta mi disse: ‘Per scuoiare una pantera non importa se si parte dalla testa o dalla coda, purché alla fine si arrivi allo scopo’».

«Sarebbe un proverbio?»

«All’incirca. Prima o poi un modo lo troverai, anche se non è quello che ti aspetti».

«Niente è come me lo aspetto» disse Alvin. «Niente va a finire come mi ero immaginato».

«Hai solo dieci anni, ragazzo. Sei già stanco del mondo?»

Alvin continuò a tormentare la coperta tra il pollice e l’indice. «Sto morendo, Scambiastorie».

Scambiastorie studiò il suo viso, cercando di cogliervi i segni della morte. Non ci riuscì. «Non credo».

«Quel punto malato nella gamba. Sta crescendo. Lentamente forse, ma sta crescendo. È invisibile, e intanto pian piano rosicchia la parte dura dell’osso, e dopo un po’ andrà sempre più in fretta e…».

«Il Distruttore avrà partita vinta».

Stavolta Alvin si mise a piangere sul serio, le mani tremanti. «Ho paura di morire, Scambiastorie, ma questa cosa mi è entrata dentro e non riesco a mandarla via».

Scambiastorie gli posò una mano sulla sua, per arrestare il tremito. «Troverai un modo. Hai troppo da fare su questa terra per morire adesso».

Alvin roteò gli occhi. «Questa è la più grossa stupidaggine che abbia sentito da un anno a questa parte. Solo perché uno ha delle cose da fare, questo non vuol dire che non morirà».

«Ma vuol dire che non morirà volentieri».

«Certo che non morirei volentieri».

«Ecco perché troverai un modo per vivere».

Alvin restò in silenzio per qualche secondo. «Ci ho pensato. A quello che farò se non morirò. Come quello che ho fatto per far stare meglio la mia gamba. Scommetto che posso farlo anche per gli altri. Posso toccarli e sentire cosa gli succede dentro e aggiustare quello che non va. Non sarebbe bello?»

«Tutti quelli che guariresti te ne sarebbero eternamente grati».

«Penso che la prima volta sia stata la più difficile, e quando l’ho fatto non ero particolarmente forte. Scommetto che agli altri potrei farlo molto più in fretta».

«Può darsi. Ma anche se guarisci cento malati al giorno, e poi vai da un’altra parte e ne guarisci altri cento, ci saranno sempre diecimila persone che moriranno alle tue spalle, e altre diecimila davanti a te, e quando tu stesso morirai, saranno morti anche quasi tutti quelli che avrai guarito».

Alvin girò il viso dall’altra parte. «Se so come guarirli, bisogna che li guarisca, Scambiastorie».

«Quelli che potrai guarire, farai bene a guarirli» disse Scambiastorie. «Ma non nel senso di farne la missione della tua vita, Alvin. Mattoni nel muro, Alvin, ecco che cosa sarebbero. Nient’altro. Non riusciresti mai a tenerti al passo nel riparare i mattoni che si sgretolano. Guarisci pure chi ti capita sotto le mani, ma la missione della tua vita è un’altra, ben più importante».

«Io so come guarire le persone. Ma non so come sconfiggere il Dis… il Distruttore. Non so nemmeno chi sia».

«Ma finché sei l’unico che riesce a vederlo, sei anche l’unico che abbia qualche speranza di sconfiggerlo».

«Può darsi».

Un altro lungo silenzio. Scambiastorie capì che era il momento di andarsene.

«Aspettate».

«Adesso debbo andare».

Alvin gli afferrò la manica. «Non ancora».

«Presto».

«Almeno… almeno lasciatemi leggere quello che gli altri hanno scritto».

Scambiastorie mise la mano nella bisaccia e ne tirò fuori l’astuccio impermeabile che conteneva illibro. «Non posso prometterti di spiegartene il significato».

Alvin fu lesto a trovare le ultime frasi, che non avevano ancora iniziato a scolorirsi.

Nella calligrafia di sua madre: «Vigor spinge un tronco e non muore finché non nasce il bambino».

Nella calligrafia di David: «Una macina da mulino si divide in due e poi torna intera, nemmeno una crepa».

Nella calligrafia di Cally: «Settimo figlio».

Alvin alzò lo sguardo. «Non si riferisce a me, sapete».

«Lo so» disse Scambiastorie.

Alvin tornò a leggere. Nella calligrafia di suo padre: «Non uccide un ragazzo perché uno straniero arriva in tempo».

«Di che cosa sta parlando?» chiese Alvin.

Scambiastorie gli prese il libro dalle mani e lo richiuse. «Trova il modo di guarire quella gamba» disse. «Non sei l’unico ad aver bisogno che torni forte. Non è per te, ricordi?»

Si chinò a baciare il ragazzo sulla fronte. Alvin alzò le braccia e lo strinse così forte che Scambiastorie non avrebbe potuto drizzarsi senza tirarlo di peso fuori dal letto. Dopo un po’, il vecchio dovette prendergli le braccia e allontanarle da sé. Aveva la guancia bagnata delle lacrime di Alvin, ma non se ne curò. Lasciò che ad asciugarla fosse il vento, mentre arrancava sul sentiero gelido e asciutto, coi campi di neve mezza sciolta che si estendevano a destra e a sinistra.

Si fermò un momento sul secondo ponte coperto. Giusto il tempo necessario a chiedersi se sarebbe più tornato in quel luogo, e se li avrebbe più rivisti. O se Alvin Junior avrebbe mai scritto la sua frase sul libro. Se fosse stato un profeta l’avrebbe saputo. Ma non ne aveva la più pallida idea.

Così riprese il cammino, dirigendo i suoi passi verso oriente.

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