IX SCAMBIASTORIE

In quella parte del paese, Scambiastorie se lo ricordava bene, c’era stato un tempo in cui avrebbe potuto arrampicarsi su un albero e spingere lo sguardo su cento miglia quadrate di foresta assolutamente intatta. Un tempo in cui le querce vivevano un secolo o più, con tronchi che s’ingrossavano fino a diventare vere e proprie montagne di legno. Un tempo in cui le chiome degli alberi erano così fitte che il terreno restava spoglio per mancanza di luce.

Quel mondo immerso in un eterno crepuscolo adesso andava scomparendo. Esistevano ancora tratti di foresta primordiale in cui i pellerossa si aggiravano più silenziosi dei cervi, e Scambiastorie aveva la sensazione di trovarsi nella cattedrale di un Dio al quale nessuna opera umana avrebbe potuto rendere omaggio più elevato. Ma simili momenti erano stati rari in quell’ultimo anno di vagabondaggio; non c’era stato un solo giorno in cui Scambiastorie si fosse potuto arrampicare su un albero senza scorgere interruzioni nel tetto della foresta. Tutta la regione tra l’Hio e il Wobbish si andava popolando in maniera rada ma regolare, e anche adesso, dalla cima di un salice che cresceva sulla sommità d’un piccolo rilievo, Scambiastorie poteva scorgere almeno una trentina di comignoli inviare verticalmente le loro colonne di fumò nella fredda aria invernale. E in ogni direzione larghe strisce di foresta erano state disboscate, il terreno era stato arato, le messi erano state seminate, sarchiate e raccolte, e dove una volta alberi giganteschi avevano riparato il terreno dagli sguardi del cielo, adesso il terreno irto di stoppie era nudo, in attesa che l’inverno coprisse le sue vergogne.

Scambiastorie ricordò la sua visione di Noè ubriaco. Ne aveva tratto un’incisione per un’edizione della Genesi destinata alle scuole di catechismo di rito scozzese. Noè, nudo, con la bocca spalancata, una ciotola mezza vuota ancora stretta fra le dita contratte; Cam, non lontano, che rideva beffardo; e Jafet e Sem che, camminando all’indietro per non guardarlo, andavano a gettare un mantello addosso al padre, per coprire ciò che egli aveva esibito nella sua ebbrezza. Con un brivido elettrizzante, Scambiastorie si rese conto che quel profetico momento gli aveva preannunciato proprio la scena che adesso gli si spalancava davanti agli occhi. Che lui, Scambiastorie, appollaiato in cima a un albero, in quel momento scorgeva la terra nuda e stordita, in attesa della pudica copertura dell’inverno. Era una profezia che si realizzava, qualcosa che uno poteva sperare, ma non certo aspettarsi con sicurezza nell’arco della propria vita.

Oppure, la storia di Noè ebbro poteva non essere affatto la rappresentazione figurata di quel momento. Perché non l’inverso? Perché non la terra disboscata e dissodata come rappresentazione figurata del Noè ubriaco?

Quando rimise piede a terra, Scambiastorie era di pessimo umore. Pensò e ripensò, cercando di aprire la propria mente per scorgere qualche visione, per essere un vero profeta. Ogni volta che s’illudeva di esserci arrivato, di stringere in mano qualcosa, quel qualcosa cambiava, si trasformava. Un pensiero di troppo, e l’intero tessuto si disfaceva e lui veniva rigettato nella più completa incertezza.

Ai piedi dell’albero aprì lo zaino. Ne trasse il Libro delle Storie, quello che aveva inaugurato col vecchio Ben anni addietro, nell’85. Slacciò con delicatezza la fibbia che racchiudeva la parte segreta, quindi chiuse gli occhi e ne scorse rapidamente le pagine. Quando riaprì gli occhi, vide che le sue dita riposavano tra i Proverbi dell’Inferno. C’era da aspettarselo, in un momento come quello. L’indice toccava due proverbi, ambedue scritti di sua mano. Il primo non gli disse nulla. Il secondo invece gli parve più appropriato. «Lo sciocco non vede lo stesso albero del saggio».

Eppure più cercava di estrarne il significato in riferimento a quel preciso momento, meno collegamenti’ scorgeva, tranne il riferimento agli alberi. Perso per perso, decise di provare il primo. «Se lo sciocco persistesse nella sua follia, diventerebbe saggio».

Ah. Questo cominciava a dirgli qualcosa. Era la voce della profezia, registrata quando ancora viveva a Filadelfia, prima d’iniziare i suoi vagabondaggi, una sera in cui il Libro dei Proverbi aveva preso vita dinanzi a lui, ed egli aveva visto quasi fossero scritte a lettere di fuoco le parole che avrebbero dovuto esservi contenute. Quella notte era rimasto sveglio finché le prime luci dell’alba non avevano spento il fuoco della pagina. Quando il vecchio Ben era sceso dabbasso col suo passo pesante per affrontare le fatiche della colazione, si era fermato di colpo fiutando l’aria. «Fumo» aveva detto. «Non è che per caso hai cercato di dar fuoco alla casa, Bill?»

«Nossignore» aveva risposto Scambiastorie. «Ma ho avuto una visione di ciò che Dio avrebbe voluto che il Libro dei Proverbi dicesse, e ho scritto tutto quanto».

«Sei ossessionato dalle visioni» aveva detto il vecchio Ben. «L’unica vera visione non proviene da Dio, ma dai più intimi recessi dell’animo umano. Metti anche questo fra i tuoi proverbi, se vuoi. È un po’ troppo agnostico per inserirlo nell’Almanacco del Povero Richard».

«Guarda qui» aveva detto Scambiastorie.

Il vecchio Ben aveva guardato, e aveva visto estinguersi le ultime fiammelle. «Be’, ecco, è il più bel giochetto che abbia mai visto fare. E mi avevi assicurato di non essere un mago!»

«Non lo sono, infatti. È stato Dio a inviarmi questo dono».

«Dio o il diavolo? Quando sei circondato dalla luce, Bill, come fai a sapere se è la gloria di Dio o la fornace infernale?»

«Non lo so, infatti» aveva ammesso Scambiastorie, incerto. Giovane com’era — non aveva ancora compiuto trent’anni — si sentiva spesso in soggezione al cospetto del grand’uomo.

«O forse, visto che desideravi così ardentemente la verità, te la sei procurata da solo». Il vecchio Ben aveva inclinato all’indietro la testa per esaminare le pagine dei Proverbi attraverso la metà inferiore delle lenti bifocali. «Queste lettere sono state scritte a fuoco. Non è curioso che io, che non sono un mago, venga definito tale, mentre tu che lo. sei rifiuti di ammetterlo?»

«Io sono un profeta. O… vorrei esserlo».

«Se una sola delle tue profezie si avvererà, Bill Blake, allora ci crederò. Ma non prima».

Negli anni trascorsi da allora, Scambiastorie era andato in cerca della realizzazione di qualcuna delle sue profezie. Eppure ogni volta che pensava di esserci arrivato, udiva in un angolino della mente la voce del vecchio Ben che forniva una spiegazione alternativa, e lo derideva per aver pensato che vi potesse essere un vero legame tra profezia e realtà.

«Vero, mai e poi mai» avrebbe detto il vecchio Ben. «Utile… può darsi. Sì, può darsi che la tua mente riesca a stabilire un collegamento utile. Ma vero è un’altra faccenda. Vero significherebbe che hai trovato un collegamento che esiste indipendentemente dal fatto che tu l’abbia colto, che esisterebbe anche se tu non te ne fossi accorto. E debbo dire che in vita mia un simile collegamento non l’ho mai trovato. Certe volte sospetto che collegamenti del genere non esistano, che tutti i legami, i vincoli, i rapporti e simili siano solo creature del pensiero prive d’ogni sostanza».

«E allora perché il terreno non si dissolve sotto i nostri piedi?» gli aveva chiesto una volta Scambiastorie.

«Perché siamo riusciti a persuaderlo a non lasciar passare i nostri corpi. Forse è stato Sir Isaac Newton. Era un tipo così persuasivo. Mentre gli esseri umani possono dubitare delle sue affermazioni, il terreno ne è rimasto convinto, quindi resiste». Il vecchio Ben aveva riso. Con lui, tutto si volgeva in burla. Non riusciva a prendere sul serio nemmeno il proprio scetticismo.

Adesso, seduto ai piedi dell’albero, a occhi chiusi, Scambiastorie stabilì un altro collegamento. La storia di Noè e il vecchio Ben. Il vecchio Ben era Cam, che vedeva la nuda verità, pendula e oscena, e ne rideva, mentre i figli devoti della Chiesa e dell’Università camminavano all’indietro per coprirla. Così il mondo, non avendo mai veduto la verità in un momento di debolezza, avrebbe continuato a crederla salda e orgogliosa.

Ecco un vero collegamento, pensò Scambiastorie. Ecco il vero significato della storia. Ecco la realizzazione della profezia. Quando scorgiamo la verità, essa ci appare ridicola; se vogliamo adorarla, non dobbiamo mai permetterci di vederla.

In preda all’eccitazione, Scambiastorie balzò in piedi. Doveva trovare immediatamente qualcuno a cui comunicare la sua grande scoperta finché ancora ci credeva. Come diceva uno dei suoi stessi proverbi: «La cisterna trattiene, la fonte dilaga». Se non avesse raccontato la sua storia, questa si sarebbe raffreddata, irrancidita e rattrappita dentro di lui, mentre, a raccontarla, sarebbe restata fresca e vigorosa.

Da che parte? Il sentiero nella foresta, a non più di tre pertiche di distanza, conduceva verso una grande chiesa bianca con un campanile alto come una quercia. L’aveva vista, a non più d’un miglio, dal suo osservatorio arboreo. Era l’edificio più grande che Scambiastorie avesse visto dall’ultima volta che era stato a Filadelfia. Un edificio così grande significava che gli abitanti della zona ritenevano opportuno avere spazio in abbondanza per i nuovi arrivi. Buon segno per un narratore ambulante di storie, che per vivere doveva affidarsi alla generosità degli estranei che lo alloggiavano e lo nutrivano, mentre lui non aveva altro da offrire in cambio che il suo libro, la sua memoria, due buone braccia e gambe robuste che lo avevano portato per diecimila miglia e gli sarebbero durate per altre cinquemila almeno.

La strada era profondamente solcata dalle ruote dei carri, il che significava che veniva usata di frequente; nei punti più bassi era rinforzata da traversine in modo che i carri non s’impantanassero nel terreno fradicio di pioggia. Così quella si avviava a diventare una città, eh? Una chiesa così grande poteva non significare affatto generosità, bensì ambizione. Ecco il pericolo insito nel giudicare, pensò Scambiastorie. Esistono cento possibili cause per ogni effetto, e cento possibili effetti per ogni causa. Questo pensiero pensò di metterlo per iscritto, ma subito lasciò perdere. Non recava alcuna traccia, tranne quelle della sua stessa anima; né i segni del paradiso né quelli dell’inferno. Da questo capì che non gli era stato inviato. Si era solo costretto a pensarlo. Perciò non poteva essere una profezia, e non poteva essere vero.

La strada terminava in un pascolo comune, non lontano da un fiume. Scambiastorie lo capì dall’odore dell’acqua corrente. Aveva sempre avuto buon naso, lui. Intorno al pascolo comune erano sparsi diversi edifici, ma il più grande di tutti era una costruzione di legno a due piani dipinta di bianco con una piccola insegna che recava scritto: Weaver’s.

Orbene, Scambiastorie sapeva che quando su una casa c’era un’insegna, ciò generalmente significava che i proprietari volevano che gli altri riconoscessero il posto anche se non c’erano mai stati prima, il che equivaleva a dire che la casa era aperta agli estranei. Perciò Scambiastorie si avvicinò alla porta e bussò senza esitare.

«Un attimo!» gridò qualcuno dall’interno. Scambiastorie attese sulla veranda. A un’estremità di quest’ultima erano appesi diversi cesti pieni di terra dai quali pendevano le lunghe foglie di varie erbe medicinali. Scambiastorie ne riconobbe alcune, utilizzate in arti quali guarire, trovare, sigillare e ricordare. Si avvide inoltre che i cesti erano disposti in modo che, guardandoli da un punto situato vicino alla base della porta, formassero un perfetto talismano. L’effetto era anzi così pronunciato che per vedere meglio Scambiastorie prima si accovacciò, poi si distese sul pavimento della veranda. I colori applicati sulle ceste esattamente nei punti giusti dimostravano che non si trattava d’un caso. Era un perfetto talismano protettivo, orientato verso la soglia.

Scambiastorie si chiese perché qualcuno avesse sentito il bisogno di creare un talismano così potente, e allo stesso tempo di mimetizzarlo. D’altra parte lui era probabilmente l’unica persona da quelle parti in grado di percepire il fremito proveniente da qualcosa di passivo come un talismano, tanto da essere indotto a notarne la presenza. Era ancora disteso sul pavimento, intento a meditare sulla questione, quando la porta si aprì e una voce d’uomo gli chiese: «Così stanco siete, straniero?».

Scambiastorie balzò in piedi. «Stavo ammirando la vostra composizione di erbe. Un interessante giardino pensile, signore».

«È di mia moglie» disse l’uomo. «Praticamente non pensa ad altro. E non vuole assolutamente che glielo si tocchi».

Quell’uomo stava forse mentendo? No, si disse Scambiastorie. Non stava cercando di nascondere il fatto che quei cesti costituissero un talismano, e che le foglie pendule fossero intrecciate in modo da unirli in un unico disegno. Semplicemente, non lo sapeva. Qualcuno — probabilmente sua moglie, visto che il giardino era suo — l’aveva collocato lì a protezione della casa, e il marito non ne aveva il minimo sentore.

«A me sembra che vada benissimo così» disse Scambiastorie.

«Mi ero chiesto com’era possibile che fosse arrivato qualcuno e io non avessi udito né un carro né un cavallo. Ma dal vostro aspetto immagino che siate arrivato a piedi».

«È così, signore» disse Scambiastorie.

«E il vostro zaino non sembra così pieno da contenere articoli da offrire in vendita».

«Io non vendo oggetti, signore» disse Scambiastorie.

«E che cosa, allora? Che altro si può vendere, se non oggetti?»

«Il proprio lavoro, tanto per cominciare» disse Scambiastorie. «Offro il mio lavoro in cambio di vitto e alloggio».

«Mi sembrate un po’ troppo anziano per fare la vita del vagabondo».

«Sono nato nel cinquantasette, perciò mi restano diciassette anni buoni prima di avere esaurito i miei settanta. E poi ho qualche piccolo talento».

Sull’istante l’uomo parve rattrappirsi. Non nel corpo. Fu il suo sguardo ad allontanarsi, mentre diceva: «Io e mia moglie ci occupiamo di tutto, visto che i nostri figli sono ancora molto piccoli. Non abbiamo bisogno di aiuto».

Alle sue spalle adesso c’era una donna, o meglio una ragazza il cui viso, nonostante l’espressione solenne, non era ancora stato segnato e indurito dal trascorrere degli anni. La donna si rivolse al marito. «Armor, non siamo così poveri da non poterci permettere un ospite per cena…».

A queste parole l’espressione del marito si fece dura e ostinata. «Mia moglie è più generosa di me, straniero. Voglio dirvelo apertamente. Avete detto di avere qualche piccolo talento, e secondo la mia esperienza ciò significa che pretendete di possedere poteri nascosti. E in una casa cristiana non vi è posto per simili ciarlatanerie».

Scambiastorie lo guardò fissamente, quindi rivolse alla moglie uno sguardo un po’ più affabile. Dunque era così che stavano le cose: lei praticava tranquillamente le arti magiche senza darlo a vedere al marito, mentre lui ne respingeva energicamente ogni minima manifestazione. Scambiastorie si chiese che cosa sarebbe accaduto alla moglie se lui si fosse reso conto di quel che faceva. L’uomo — Armor? — non sembrava tipo da abbandonarsi a furie omicide, ma d’altra parte non c’era modo di sapere quale violenza si sarebbe potuta scatenare nelle vene d’un uomo se il torrente dell’ira avesse rotto gli argini.

«Comprendo la vostra cautela, signore» disse Scambiastorie.

«Immagino che abbiate addosso qualche amuleto protettivo» disse Armor. «Come avreste fatto altrimenti ad arrivare fin qui, a piedi, da solo, attraverso regioni selvagge? Il solo fatto che abbiate ancora i capelli in testa dimostra che avete tenuto a bada i Rossi con qualche incantesimo».

Scambiastorie sorrise e si tolse di testa il berretto, mettendo in mostra la propria calvizie. «Vi sembra forse un incantesimo, accecarli con lo sfolgorante riflesso del sole?» chiese. «Per il mio scalpo, non potrebbero rivendicare nessuna ricompensa».

«A dire il vero» ammise Armor, «i Rossi di questa zona sono più pacifici degli altri. Quel Profeta orbo ha costruito sull’altra sponda del Wobbish una città in cui insegna ai Rossi a non bere alcolici».

«Ottimo consiglio per chiunque» mormorò Scambiastorie. E pensò: un Rosso che si definisce profeta. «Prima di lasciare questi luoghi mi piacerebbe incontrarlo e scambiare qualche parola con lui».

«Impossibile» disse Armor. «A meno che non riusciate a cambiare colore alla vostra pelle. Non ha più rivolto la parola a un bianco da quando ha avuto la sua prima visione, qualche anno fa».

«Se ci provassi mi ucciderebbe?»

«Improbabile. Alla sua gente insegna anche a non uccidere gli uomini bianchi».

«Anche questo un ottimo consiglio» disse Scambiastorie.

«Ottimo per gli uomini bianchi, ma per i Rossi potrebbe rivelarsi controproducente. C’è gente come il cosiddetto governatore Harrison, giù a Carthage City, che verso i Rossi, pacifici o bellicosi che siano, nutre solo cattive intenzioni». L’espressione truce non era ancora scomparsa dal viso di Armor, ma questi stava pur sempre parlando, e col cuore in mano. Scambiastorie riponeva grandissima fiducia in colui che diceva sempre quel che pensava, persino a un estraneo, persino a un nemico. «Del resto» proseguì Armor, «non tutti i Rossi danno retta alle parole di pace del Profeta. I seguaci di Ta-Kumsaw stanno dando parecchie noie giù dalle parti dell’Hio, e un sacco di gente si sta trasferendo a nord verso il corso superiore del Wobbish. Non vi mancheranno dunque le case disposte ad ospitare un mendicante… anche di questo dovete ringraziare i Rossi».

«Non sono un mendicante, signore» disse Scambiastorie. «Come vi ho detto, sono disposto a lavorare».

«Con i vostri piccoli doni e i vostri talenti nascosti, senza dubbio».

L’ostilità dimostratagli dall’uomo era l’esatto contrario dell’atteggiamento benevolo e accogliente della moglie. «E quale sarebbe il vostro talento, signore?» chiese quest’ultima. «Dal vostro modo di parlare, si direbbe che abbiate studiato. Non sarete per caso un maestro di scuola?»

«Il mio dono è espresso dal nome che porto» le spiegò. «Mi chiamo Scambiastorie. Ho il talento delle storie».

«Volete dire che le inventate? Da queste parti le chiamiamo menzogne». Più la moglie cercava di mostrarsi gentile, più il marito si faceva scostante.

«Ho il dono di ricordarle. Ma racconto solo quelle della cui verità sono convinto, signore, e vi assicuro che convincermi non è facile. Se mi raccontate le vostre storie, io vi racconterò le mie, e da questo scambio usciremo tutt’e due arricchiti, poiché nessuno dei due avrà perso ciò che aveva all’inizio».

«Non ho storie da raccontarvi» disse Armor, anche se ne aveva già raccontate due, quella del Profeta e quella di Ta-Kumsaw.

«Ciò mi rattrista, e se è davvero così, allora ho bussato alla porta sbagliata». Adesso Scambiastorie vedeva chiaramente che quella casa non faceva per lui. Anche se Armor si fosse rabbonito e l’avesse lasciato entrare, Scambiastorie sarebbe stato circondato dal sospetto, e lui non poteva vivere dove la gente lo guardava in continuazione con aria sospettosa. «Buona giornata a voi».

Ma Armor non era disposto a lasciarlo andare così facilmente. Le parole di Scambiastorie avevano avuto su di lui l’effetto di una sfida. «Vi rattrista? E perché? Io conduco una vita normale, del tutto tranquilla».

«Nessuno considera normale la propria vita» lo contraddisse Scambiastorie, «e se dice altrimenti, allora è una storia di quelle che io mi guardo bene dal raccontare».

«Mi state dando del bugiardo?» domandò Armor.

«Vi sto chiedendo se conoscete un luogo in cui il mio talento possa trovare buona accoglienza».

Scambiastorie si avvide, a differenza di Armor, che con le dita della mano destra la moglie aveva lanciato al marito un incantesimo tranquillizzante, mentre con la sinistra gli aveva afferrato il polso. L’aveva fatto con grande abilità, e il marito doveva esserci abituato, perché si rilassò visibilmente mentre lei faceva un piccolo passo avanti per rispondere.

«Amico» disse, «se prendete il sentiero dietro quella collinetta e lo seguite sino in fondo superando due ruscelli, ambedue varcati da un ponte, giungerete alla casa di Alvin Miller. Sono sicura che lui vi accoglierà».

«Bella roba» disse Armor.

«Grazie» disse Scambiastorie. «Ma come fate a saperlo con tanta certezza?»

«Vi ospiteranno per tutto il tempo che vorrete rimanere, e non vi metteranno mai fuori della porta, purché vi mostriate disponibile a dare una mano».

«Disponibile lo sarò sempre, signora» disse Scambiastorie.

«Sempre disponibile?» chiese Armor. «Nessuno è sempre disponibile. Pensavo che non diceste mai bugie».

«Io dico solo ciò di cui sono convinto. Che sia anche vero, non posso dirlo con maggiore certezza di chiunque altro».

«E allora perché mi chiamate ‘signore’, se non sono un cavaliere, e mia moglie la chiamate ‘signora’, quando non ha più sangue nobile di me?»

«Ebbene, io non credo ai cavalieri nominati dal re, ecco perché. Il re deve un favore a un tale e lo nomina ‘cavaliere’, che questi si comporti come tale oppure no. E tutte le sue amanti vengono chiamate ‘signora’ per ciò che fanno tra le regali lenzuola. Ecco come vengono usate le parole dai realisti… menzogne la metà delle volte. Ma vostra moglie, signore, si è comportata con vera nobiltà, mostrandosi benevola e ospitale. E voi, signore, vi siete comportato come un vero cavaliere, che protegge la propria casa dai pericoli che egli più teme».

Armor scoppiò in una risata. «Parlate in modo così suadente che per togliervi il dolce dalla bocca scommetto che dovete succhiare sale per mezz’ora».

«È il mio dono» disse Scambiastorie. «Ma conosco altri modi di parlare, e non altrettanto amabili, quand’è il momento. Buon pomeriggio a voi, a vostra moglie, ai vostri figli, e alla vostra cristiana dimora».

Scambiastorie s’incamminò sull’erba del pascolo comune. Le mucche non lo degnarono di un’occhiata, perché un amuleto ce l’aveva, sì, anche se non del genere che Armor conosceva. Scambiastorie si mise seduto al sole per qualche tempo, per riscaldarsi il cervello e vedere se ne veniva fuori qualche pensiero. Ma non funzionò. Dopo mezzogiorno non gli venivano quasi mai pensieri che valesse la pena di ricordare. Come diceva il proverbio: «Al mattino pensa, a mezzodì agisci, la sera mangia e la notte dormi». Adesso era troppo tardi per pensare, e troppo presto per mangiare.

S’incamminò sul sentiero in salita che portava alla chiesa. Questa sorgeva a una certa distanza dal pascolo comune, in cima a una collina. Se fossi un vero profeta, pensò, saprei già tutto. Saprei se rimarrò qui per un giorno, una settimana o un mese. Saprei se Armor diventerà mio amico, come spero, o mio nemico, come temo. Saprei se sua moglie prima o poi riuscirà a imporsi e a usare apertamente i suoi poteri. Saprei se riuscirò davvero a incontrare di persona il Profeta Rosso.

Ma sapeva che erano tutte assurdità. Per questo genere di visione ci sarebbe voluta una fiaccola… l’aveva visto fare in varie occasioni, a più d’una, e la cosa l’aveva riempito di sgomento perché sapeva che per un uomo era meglio non conoscere troppo bene ciò che lo attendeva sul cammino della vita. No, il dono che avrebbe voluto possedere era quello della profezia, per scorgere non le piccole azioni degli uomini e delle donne nei loro cantucci di mondo, ma piuttosto la grande, impetuosa marea degli eventi così come veniva diretta dalla volontà del Signore. O di Satana… Scambiastorie non si sarebbe fatto troppi scrupoli, poiché ambedue avevano un’idea ben chiara dei loro progetti per il mondo, e di conseguenza ciascuno dei due avrebbe potuto conoscere diverse cosette a proposito del futuro. Certo, probabilmente sarebbe stato più piacevole avere notizie da Dio. I segni del demonio che fino a quel momento aveva avuto occasione di sperimentare si erano dimostrati tutti molto sgradevoli, ciascuno a modo suo.

Era una tiepida giornata d’autunno e il portale della chiesa era spalancato. Scambiastorie entrò senza esitare, accompagnato dal ronzio delle mosche. All’interno l’edificio non era meno elegante che all’esterno. La chiesa era evidentemente di rito scozzese, quindi priva di ogni decorazione, ma ciò la rendeva ancora più accogliente, un ambiente pieno d’aria e di luce, dalle pareti dipinte di bianco e con finestre dalle vetrate colorate. Persino i banchi e il pulpito erano di legno chiaro. L’unico oggetto scuro era l’altare. Naturale quindi che il suo sguardo ne venisse attratto. E siccome aveva un dono per questo genere di cose, scorse immediatamente sulla sua superficie qualcosa di liquido.

Avanzò lentamente verso l’altare. Verso l’altare, perché doveva accertarsi di ciò che gli era parso di vedere; lentamente, perché quel genere di cosa non avrebbe dovuto esistere in una chiesa cristiana. Anche da vicino, tuttavia, non c’era modo di sbagliarsi. Era la stessa traccia che aveva visto sul viso dell’uomo di Dekane che aveva torturato a morte i propri figli, per poi darne la colpa ai Rossi. La stessa traccia che aveva visto indugiare sulla spada che aveva decapitato George Washington. Era come un velo sottilissimo di acqua sporca, invisibile a meno che non lo si guardasse da una certa angolazione, con una certa luce. Ma per Scambiastorie, che ormai vi aveva fatto l’occhio, era sempre visibile.

Allungò cautamente la mano fino a posare l’indice sulla traccia più evidente. Il bruciore fu tale da fargli tremare di dolore tutto il braccio fino alla spalla. Per tenercelo per un istante dovette far ricorso a tutta la sua forza di volontà.

«Benvenuto nella dimora del Signore» disse una voce.

Succhiandosi il dito ustionato, Scambiastorie si volse verso colui che aveva parlato. Il suo abbigliamento era quello di un pastore di rito scozzese, o presbiteriano, come dicevano qui in America.

«Vi è per caso entrata una scheggia nel dito?» chiese il pastore.

Sarebbe stato molto più facile dire che sì, gli era entrata una scheggia. Ma Scambiastorie raccontava solo storie alle quali credeva. «Pastore» disse, «il diavolo ha posto la sua mano su quest’altare».

Immediatamente il lugubre sorriso del pastore scomparve. «Come potete riconoscere l’impronta del demonio?»

«È un dono di Dio» disse Scambiastorie. «Quello di vedere».

Il pastore lo scrutò attentamente, non sapendo se credergli o no. «Allora sapreste anche vedere se qualcosa è stato toccato da un angelo?»

«Se fossero intervenuti spiriti benigni, credo che potrei scorgerne le tracce. Non sarebbe la prima volta».

Il pastore fece una pausa, come se avesse voluto rivolgergli una domanda molto importante, ma avesse paura della risposta. Poi rabbrividì, il desiderio di sapere evidentemente lo abbandonò, e quando riprese a parlare lo fece in tono sprezzante. «Sciocchezze. Potrete anche raggirare la gente comune, ma io sono stato educato in Inghilterra, e queste storie di poteri segreti non mi fanno né caldo né freddo».

«Ah» disse Scambiastorie. «Siete un uomo istruito».

«Anche voi lo siete, a giudicare dal vostro modo di parlare» ribatté il pastore. «Inghilterra del sud, direi».

«Ho frequentato l’Accademia d’Arte del Lord Protettore» disse Scambiastorie. «Lì ho appreso l’arte dell’incisione. Giacché siete di rito scozzese, mi azzardo a dire che avrete visto un saggio della mia opera nel vostro libro di catechismo».

«Io non noto mai quel genere di cose» replicò il pastore. «Le incisioni sono uno spreco di carta che potrebbe essere utilizzata per parole di verità. A meno che non illustrino cose che l’occhio dell’artista ha realmente veduto, come le tavole anatomiche. Ma quel che l’artista concepisce nella propria immaginazione non ha maggior diritto di accedere al mio sguardo di ciò che posso immaginare da solo».

Scambiastorie seguì il concetto fino alle radici. «E se l’artista fosse anche profeta?»

Il pastore socchiuse gli occhi. «L’epoca dei profeti è finita. Oggi chiunque affermi di essere un profeta — come quel miscredente di Rosso orbo e ubriacone dall’altra parte del fiume — non è altro che un ciarlatano. E non dubito che se Dio dovesse concedere il dono della profezia anche a un solo artista, ben presto avremmo uno stuolo d’imbrattatele desiderosi di essere presi per profeti, specie se ciò procurasse loro più lauti compensi».

Scambiastorie rispose mitemente, ma senza trascurare l’accusa implicita nelle parole del pastore. «Colui che predica la parola di Dio in cambio di un salario non dovrebbe criticare chi cerca di guadagnarsi da vivere rivelando la verità».

«Io sono stato ordinato» disse il pastore. «Gli artisti non vengono ordinati da nessuno. Si ordinano da soli».

Proprio come Scambiastorie si era aspettato. Non appena aveva temuto che le sue idee non riuscissero a stare in piedi da sole, il pastore aveva fatto appello all’autorità. Quando arbitro della discussione diventava il principio di autorità, il ricorso alla razionalità diventava impossibile. Scambiastorie tornò all’argomento da cui erano partiti. «Il diavolo ha posato le sue dita su questo altare» disse. «Solo a toccarlo, mi sono scottato».

«A me non è mai successo» disse il pastore.

«Non me ne stupisco» osservò Scambiastorie. «Siete voi quello che ha ricevuto gli ordini».

Scambiastorie non fece il minimo sforzo per nascondere il disprezzo nel proprio tono di voce, e questo evidentemente punse sul vivo il pastore, che ribatté con asprezza. Ma a Scambiastorie non dispiaceva che gli altri se la prendessero con lui. Ciò significava che lo stavano ascoltando, e almeno in parte gli credevano. «E allora, visto che avete occhi così penetranti» scattò il pastore, «ditemi se questo altare è mai stato toccato da un messaggero di Dio».

Era evidente che intendeva metterlo alla prova. Scambiastorie non aveva la minima idea di quale sarebbe dovuta essere, secondo il pastore, la risposta giusta. Ma non aveva nessuna importanza: Scambiastorie avrebbe risposto sempre e comunque con sincerità. «No» disse.

Era la risposta sbagliata. Il pastore fece un sorrisetto compiaciuto. «Ah, è così? Ne siete proprio sicuro?»

Scambiastorie pensò per un istante che forse il pastore era convinto che le proprie mani consacrate potessero lasciare tracce che testimoniassero la volontà divina. La questione era da mettere in chiaro immediatamente. «La maggioranza dei pastori non lascia tracce di luce su ciò che tocca. Solo pochi di loro sono dotati di sufficiente santità».

Ma il pastore non aveva inteso riferirsi a se stesso. «Avete detto abbastanza» disse. «Adesso so per certo che siete un impostore. Fuori dalla mia chiesa».

«Non sono un impostore» disse Scambiastorie. «Posso sbagliarmi, ma non mentisco mai».

«E io per abitudine non credo a chi afferma di non mentire mai».

«Tutti quanti tendiamo ad attribuire agli altri le nostre stesse virtù» mormorò Scambiastorie.

Il viso del pastore s’imporporò di rabbia. «Fuori di qui, o dovrò ricorrere alla forza».

«Ben volentieri». Di buon passo, Scambiastorie si avviò verso la porta. «Spero di non dover più entrare in una chiesa il cui pastore non resta sorpreso nel sapere che Satana ha toccato il suo altare».

«Non sono rimasto sorpreso per il semplice fatto che non ci credo».

«Ci avete creduto, invece. Ma siete convinto che l’altare sia stato toccato anche da un angelo. È questa la storia che ritenete vera. Ma vi dico che nessun angelo avrebbe potuto toccarlo senza lasciare una traccia che io non potessi scorgere. E la traccia che vi scorgo è una soltanto».

«Mentitore! Voi stesso siete inviato dal demonio e cercate di compiere atti negromantici nella casa del Signore! Fuori! Via di qui! Vi ordino di sparire!»

«Sparire? Non credevo che un uomo di chiesa come voi praticasse le arti magiche».

«Fuori!» urlò il pastore, con le vene del collo gonfie fino a scoppiare. Scambiastorie si rimise il berretto e se ne andò. Udì la porta sbattere alle sue spalle. Risalito il pendio ricoperto di erba autunnale ormai essiccata, trovò il sentiero che portava verso la casa della quale gli aveva parlato la donna. Dove ella era certa che lo avrebbero accolto.

Scambiastorie non ne era affatto sicuro. In ciascuno dei luoghi che visitava, non faceva mai più di tre tentativi. Se al terzo non trovava una casa ospitale, ciò significava che era meglio levare le tende. Stavolta la prima sosta era stata insolitamente sfortunata, e la seconda era andata ancora peggio.

Ma la sua inquietudine non dipendeva solo dal fatto che le cose gli stessero andando male. Anche se stavolta gli si fossero prostrati davanti e gli avessero baciato i piedi, all’idea di restare da quelle parti Scambiastorie provava adesso una curiosa sensazione. Ecco una cittadina cristiana al punto che il più influente dei suoi abitanti non permetteva alla moglie di praticare le arti segrete, eppure l’altare della chiesa recava i segni del demonio. Ancora più preoccupante era il modo in cui gli abitanti s’ingannavano a vicenda. Le arti segrete venivano praticate proprio sotto il naso di Armor, e dalla persona ch’egli più amava e nella quale riponeva più fiducia; in chiesa, invece, il pastore era convinto che Dio, e non il diavolo, avesse preso possesso del suo altare. Che cosa poteva attendersi Scambiastorie, in quella casa sulla collina, se non altre pazzie, altri inganni? Una mente malata chiama l’altra, questa era la conclusione a cui Scambiastorie era giunto in base all’esperienza passata.

La donna aveva detto il vero. I ruscelli erano attraversati da ponti. Ma neanche quello era un buon segno. Costruire un ponte su un fiume era una necessità; costruire un ponte su un torrente, una cortesia verso il viandante. Ma perché costruire ponti così elaborati su ruscelli così stretti che persino un uomo anziano come Scambiastorie avrebbe potuto superarli con un salto senza neanche bagnarsi i piedi? Quei ponti erano costruiti a regola d’arte, ancorati nel terreno a una buona distanza dalla riva, e tutt’e due erano muniti di un tetto di paglia solidamente intrecciata. C’è gente che paga per dormire in locande meno riparate e asciutte di questi ponti, pensò Scambiastorie.

Sicuramente ciò significava che la gente che avrebbe trovato alla fine del sentiero non sarebbe stata meno strana di quella che aveva incontrato fino a quel momento. Indubbiamente avrebbe fatto meglio a girare i tacchi. La prudenza esigeva una rapida partenza.

Ma la prudenza non era una delle caratteristiche dominanti di Scambiastorie. Gliel’aveva detto anche il vecchio Ben, anni prima. «Caro Bill, un giorno o l’altro t’infilerai nella bocca dell’inferno, solo per scoprire come mai il diavolo ha tanti denti guasti». Quei ponti erano stati costruiti per un motivo, e Scambiastorie sentiva che lì sotto c’era una storia meritevole di essere scritta nel suo libro.

Non era più di un miglio, in fin dei conti. Proprio quando sembrava che il sentiero stesse per infilarsi in un bosco impenetrabile, piegò decisamente verso nord per fare ingresso in un podere che non aveva niente da invidiare a quelli che Scambiastorie aveva ammirato nelle pacifiche campagne del Nuovo Orange o della Pennsylvania. La casa era grande ed elegante, fatta di tronchi squadrati, il che mostrava che era stata costruita per durare, e c’erano capanni, fienili, stabbioli e pollai che ne facevano già quasi un villaggio. Un filo di fumo che s’innalzava sul sentiero a circa mezzo miglio di distanza gli disse che la sua ipotesi non era del tutto sbagliata. Nelle immediate vicinanze c’era un’altra casa, e i suoi abitanti usavano lo stesso sentiero, il che probabilmente indicava un legame di parentela. Qualche figlio sposato, senza dubbio, e tutti quanti coltivavano insieme la terra, per la maggiore prosperità di tutti. Era una buona cosa, Scambiastorie lo sapeva, quando i fratelli nel crescere continuano ad apprezzarsi a vicenda al punto di arare ciascuno i campi dell’altro.

Scambiastorie aveva l’abitudine di dirigersi immediatamente verso la casa. Meglio annunciarsi subito anziché aggirarsi furtivamente nei paraggi col rischio di esser preso per un ladro. Ma stavolta, quando fece per avviarsi verso la casa, si sentì invadere da una sorta di torpore che gl’impediva di ricordare ciò che aveva avuto intenzione di fare. L’incantesimo era così potente che Scambiastorie non si rese conto di essere stato respinto finché non si trovò a metà della discesa, diretto verso una costruzione di pietra accanto a un ruscello. Si fermò di colpo, spaventato, perché nessun incantesimo poteva essere così potente da respingerlo senza che lui se ne accorgesse. Quel posto non era meno strano degli altri, e lui non voleva averci niente a che fare.

Eppure, quando cercò di tornare sui suoi passi, gli successe di nuovo la stessa cosa. Si ritrovò diretto giù per la discesa, verso la costruzione dalle mura di pietra.

Di nuovo si fermò, e questa volta borbottò: «Chiunque tu sia, e qualunque cosa tu voglia, ci andrò di mia spontanea volontà o non ci andrò affatto».

Immediatamente alle sue spalle avvertì come una brezza che lo spingeva verso la costruzione. Allo stesso tempo capì che, volendo, avrebbe potuto tornare indietro. Contro la brezza, sì, ma avrebbe potuto farlo. Questo lo tranquillizzò parecchio. La costrizione alla quale era stato sottoposto, qualsiasi cosa fosse, non aveva lo scopo di ridurlo in schiavitù. E questo, lo sapeva bene, era uno dei segni distintivi di un incantesimo benigno… non delle catene nascoste di un aguzzino.

Il sentiero piegava leggermente a sinistra, costeggiando il ruscello. Qui Scambiastorie vide chiaramente che l’edificio era un mulino, perché c’erano la caratteristica gora e la struttura di una grande ruota che s’innalzava là dove avrebbe dovuto scorrere l’acqua. Ma nella gora non scorreva acqua, e quando si avvicinò abbastanza da gettare lo sguardo all’interno, oltre una porta larga come quella di un fienile, ne capì il perché. Non era semplicemente chiuso per l’inverno. Non era mai stato usato come mulino. Gli ingranaggi erano a posto, ma mancava la grande macina di pietra. C’era solo una base di ciottoli rullati, spianati, pronti, in attesa.

Ed era molto tempo che attendevano. A giudicare dai rampicanti e dal muschio sulle pietre, la costruzione aveva almeno cinque anni. Quel mulino aveva richiesto un sacco di lavoro, eppure veniva utilizzato come un comune fienile.

Proprio all’interno della grande porta, un carro ondeggiava mentre due ragazzi lottavano sul fieno che lo riempiva per metà. Era un incontro amichevole; i ragazzi erano evidentemente fratelli. Uno aveva circa dodici anni, l’altro forse nove, e l’unico motivo per cui il più piccolo non era stato ancora buttato giù dal carro e fuori dalla porta era perché il più grande non riusciva a trattenere le risa. Nessuno dei due, naturalmente, s’era accorto di Scambiastorie.

Non si erano accorti nemmeno dell’uomo in piedi sul bordo del soppalco, che li osservava dall’alto con un forcone in mano. Sulle prime Scambiastorie pensò che l’uomo li guardasse con l’orgoglio di un padre. Poco dopo però fu abbastanza vicino per vedere come reggeva il forcone. Come un giavellotto, pronto a colpire. Per un istante Scambiastorie vide con gli occhi della mente ciò che stava per accadere… il forcone scagliato con violenza che affondava nelle carni di uno dei ragazzi uccidendolo, se non subito, certamente in breve tempo, per cancrena o perforazione intestinale. Quello a cui Scambiastorie stava per assistere era né più né meno che un omicidio.

«No!» urlò. D’un balzo superò la soglia per fermarsi accanto al carro, alzando lo sguardo sull’uomo in piedi sul soppalco.

L’uomo conficcò il forcone nel mucchio di fieno accanto a sé, e sollevatolo oltre il bordo del soppalco lo gettò sul carro, seppellendo a metà i due ragazzi. «Ehi, orsacchiotti, vi ho portati qui perché mi deste una mano, non perché vi annodaste a vicenda». Sorrideva con aria canzonatoria.

Strizzò l’occhio a Scambiastorie. Proprio come se un istante prima nel suo sguardo non vi fosse stata quella luce omicida.

«Salve, giovanotto» disse l’uomo.

«Giovanotto proprio non direi» replicò Scambiastorie. Si tolse il berretto, in modo che la zucca pelata rivelasse la sua vera età.

I ragazzi si tirarono fuori dal mucchio di fieno. «Perché gridavate, signore?» chiese il più piccolo.

«Avevo paura che qualcuno si facesse male» disse Scambiastorie.

«Oh, noi lottiamo in continuazione» disse il più grande. «Permettetemi di presentarmi, amico. Mi chiamo Alvin, proprio come il mio papà». Il sorriso del ragazzo era contagioso. Dopo la paura che si era preso, e dopo tutte le oscure macchinazioni che quel giorno aveva visto svolgersi sotto i suoi occhi, Scambiastorie non poté che restituire il sorriso e stringere la mano che gli veniva offerta. La stretta di Alvin Junior era quella d’un adulto, forte e decisa. Scambiastorie gli fece i suoi complimenti.

«Oh, stavolta vi ha fatto la mano da pesce lesso. Quando strizza sul serio, se non ci stai attento ti schiaccia la mano come una susina matura». Il più piccolo gli strinse a sua volta la mano. «Ho sette anni, e Al Junior ne ha dieci». A vederli, si sarebbero detti più grandi. Tutt’e due emanavano l’odore acre e sgradevole dei ragazzi che hanno giocato, ma Scambiastorie non se ne curò. Era il padre a sconcertarlo. Quando aveva pensato che avesse intenzione di ammazzare i ragazzi era stato solo uno scherzo della sua immaginazione? Chi mai avrebbe potuto levare una mano omicida su due figli dei quali chiunque sarebbe andato fiero?

Lasciando il forcone sul soppalco, l’uomo scese la scala a pioli e si avvicinò a lunghi passi a Scambiastorie con le braccia spalancate come per abbracciarlo. «Benvenuto, straniero» disse l’uomo. «Io sono Alvin Miller, e questi sono i miei due figli più piccoli, Alvin Junior e Calvin».

«Cally» lo corresse il minore.

«Non gli piace che i nostri nomi facciano rima» disse Alvin Junior. «Alvin e Calvin. Sapete, gli hanno dato un nome che somigliava al mio sperando che nel crescere diventasse bello e forte come me. Peccato che non abbia funzionato».

Calvin gli diede uno spintone, fingendosi arrabbiato. «Per quel che ne so, lui è stato il primo tentativo; poi sono arrivato io, e finalmente sono riuscito bene!»

«Di solito li chiamiamo Al e Cally» disse il padre.

«Di solito ci chiamate ‘sta’ zitto’ e ‘vieni qui’» protestò Cally.

Al Junior gli mollò una pacca sulle spalle che lo fece ruzzolare nella polvere. Suo padre allora gli appioppò una pedata nel fondoschiena che lo fece capitombolare direttamente fuori dalla porta. Tutto per gioco. Nessuno si era fatto male. Come può essermi venuto in mente che qui si macchinasse un omicidio?

«Siete qui con un messaggio? Una lettera?» chiese Alvin Miller. Adesso che i ragazzi erano usciti e si rincorrevano gridando sul prato, gli adulti potevano finalmente scambiarsi due parole.

«Mi spiace» disse Scambiastorie. «Sono soltanto un viaggiatore. Una giovane signora, giù in paese, mi ha detto che forse qui avrei trovato da dormire. In cambio di qualsiasi lavoro vogliate affidare alle mie braccia».

Alvin Miller sorrise. «Vediamo quanto lavoro possono fare, quelle braccia». Gli porse un braccio, ma non per stringergli la mano. Afferrò Scambiastorie per l’avambraccio piantando il piede destro contro il piede dell’altro. «Pensate di potermi atterrare?» chiese Alvin Miller.

«Basta che prima d’iniziare mi diciate se per cenare meglio mi conviene atterrarvi oppure no» disse Scambiastorie.

Alvin Miller gettò indietro la testa e lanciò un grido selvaggio, da pellerossa. «Come vi chiamate, straniero?»

«Scambiastorie».

«Be’, signor Scambiastorie, spero che il gusto della polvere sia di vostro gradimento, perché è esattamente quella che assaggerete prima di qualsiasi altra cosa!»

Scambiastorie sentì la presa all’avambraccio irrigidirsi. Anche le sue braccia erano robuste, ma non come quelle dell’uomo. D’altra parte un incontro di quel genere non era solo questione di forza. Ci voleva anche astuzia, una risorsa che a Scambiastorie non difettava. Così cedette lentamente sotto la spinta di Alvin Miller, molto prima che l’altro dovesse far ricorso a tutta la sua forza. Poi all’improvviso tirò con tutte le forze nella stessa direzione in cui Miller stava spingendo. Di solito ciò bastava a far perdere l’equilibrio a un avversario più massiccio, utilizzando il suo stesso peso contro di lui… ma Alvin Miller era pronto e diede uno strattone nella direzione opposta, facendo volare Scambiastorie così lontano da farlo atterrare in mezzo ai sassi che costituivano la base della futura macina.

Nella mossa però non c’era stata cattiveria, solo amore del confronto. Scambiastorie aveva appena toccato terra che Miller già lo aiutava a rialzarsi, chiedendogli premurosamente se per caso non si era rotto qualcosa.

«Meno male che la macina non era ancora a posto» disse Scambiastorie, «o adesso sareste occupato a rimettermi in testa i pezzi di cervello».

«Che dite? Siamo nel territorio del Wobbish, amico! Da queste parti se ne può benissimo fare a meno, del cervello».

«Be’, mi avete atterrato» disse Scambiastorie. «Questo forse significa che non mi permetterete di guadagnarmi vitto e alloggio?»

«Guadagnarvelo? Nossignore. Non permetterò mai niente del genere». Ma il sorriso che aveva sulle labbra smentiva l’asprezza delle sue parole. «No, no, se volete potete anche lavorare, perché a tutti piace avere la sensazione di pagarsi da vivere. Ma la verità è che vi permetterei di restare anche se vi foste rotto tutt’e due le gambe e non poteste dare il minimo aiuto. C’è un letto già pronto che vi aspetta, proprio accanto alla cucina, e scommetto un maiale intero contro un mirtillo che i ragazzi hanno già detto a Faith di aggiungere una scodella per cena».

«Questo è molto gentile da parte vostra, signore».

«Sciocchezze» disse Alvin Miller. «Siete sicuro di non esservi rotto niente? Siete piombato su quei sassi come un bolide».

«Allora immagino che fareste meglio a controllare che siano ancora tutti interi, signore».

Alvin rise di nuovo, gli diede una pacca sulle spalle e gli fece strada verso casa.

E che casa. Un chiasso così non si sarebbe udito neanche all’inferno. Tra urla e strilli, Miller cercò di presentargli il resto della famiglia. Le quattro ragazze più grandi erano le sue figlie, indaffarate a svolgere una mezza dozzina d’incombenze a testa, ciascuna impegnata a condurre una discussione a tutto volume con ciascuna delle sorelle, passando da un litigio all’altro via via che il lavoro la portava in una stanza diversa. Il lattante che strillava a pieni polmoni era un nipotino, come i cinque bambinetti che giocavano a ‘realisti e cromwelliani’ sotto il tavolo da pranzo. La madre, Faith, sfaccendava in cucina apparentemente al di sopra di tutto. Ogni tanto allungava uno scappellotto a qualche ragazzino, ma per il resto non permetteva loro d’interrompere il suo lavoro… o il flusso costante di ordini, rimproveri, minacce e lamenti. «Come fate a mantenervi in senno con tutta questa confusione?» le chiese Scambiastorie.

«Senno?» ribatté lei aspramente. «Pensate che una persona con un minimo di senno sopporterebbe tutto questo?»

Miller gli mostrò la sua camera. Così la chiamò: «la vostra camera, per tutto il tempo che vorrete rimanere». Nella stanza c’era un immenso letto completo di coperte e cuscino di piume, e metà di una parete corrispondeva alla parte posteriore del camino, per cui era anche riscaldata. A Scambiastorie non era mai stato offerto un letto così sontuoso in tutti i suoi vagabondaggi. «Siamo sicuri che in realtà non vi chiamate Procuste?» chiese.

Miller non capì l’allusione mitologica, ma non importava, aveva colto l’espressione sul viso di Scambiastorie. Evidentemente non era la prima volta. «Noi agli ospiti non diamo la stanza peggiore, Scambiastorie, ma la migliore. E non ne parliamo più».

«Allora bisognerà proprio che domani mi permettiate di lavorare per voi».

«Oh, di cose da fare ce ne sono, se ci sapete fare con le mani. E se non v’imbarazzano i lavori da donne, mia moglie non rifiuterà certo una mano. Vedremo». Così dicendo, Miller uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.

La confusione era solo parzialmente attutita dalla porta chiusa, ma era una musica che a Scambiastorie non dispiaceva affatto. Si era solo di primo pomeriggio, ma non seppe resistere. Con un movimento deciso si tolse lo zaino dalle spalle, poi si sfilò gli stivali e finalmente si distese sul letto. Il fruscio gli disse che sotto c’era un saccone di paglia che, ricoperto da un materasso di piume, era morbido e confortevole. La paglia era fresca, e le erbe essiccate appese alla parete conferivano alla stanza il profumo del timo e del rosmarino. Mi sono mai disteso su un letto così morbido a Filadelfia? O prima ancora, in Inghilterra? No, non mi è mai successo da quando ho lasciato il ventre di mia madre, pensò.

In quella casa le arti segrete venivano usate senza ritrosia. Il talismano era dipinto in bella evidenza proprio sopra la porta. Scambiastorie ne riconobbe il disegno. Non era un talismano pacificatore, creato per placare qualsiasi violenza che albergasse nell’animo di chi dormisse in quella stanza. Non era un avvertimento, e non era una difesa. Insomma, non era assolutamente inteso a proteggere la casa dall’ospite, o l’ospite dalla casa. Serviva solo ad assicurare benessere. Ed era perfetto, di fattura squisita, mirabilmente proporzionato. Un talismano basato sul numero tre non era facile da disegnare, ma Scambiastorie non ricordava di averne mai visti di altrettanto perfetti.

Perciò non fu sorpreso, mentre se ne stava disteso sul letto, di sentire che i muscoli di tutto il corpo gli si scioglievano, come se quel letto e quella stanza stessero cancellando la stanchezza di venticinque anni di vagabondaggi. Gli venne da pensare che sarebbe stato bello se da morto la tomba gli fosse sembrata comoda come quel letto.

Quando Alvin Junior lo scosse per svegliarlo, tutta la casa profumava di salvia, pepe e manzo stufato. «Avete giusto il tempo di usare il gabinetto, lavarvi e venire a mangiare» disse il ragazzo.

«Debbo essermi addormentato» mormorò Scambiastorie.

«È proprio per questo che ho disegnato quel talismano» disse il ragazzo. «Funziona, non è vero?». Quindi uscì al galoppo dalla stanza.

Quasi immediatamente Scambiastorie udì una delle sorelle maggiori rivolgere al ragazzo una serie impressionante di minacce. Il litigio proseguì a tutto volume mentre Scambiastorie usciva per andare al gabinetto, e quando rientrò non era ancora terminato… anche se Scambiastorie credette di capire che forse adesso a urlare era una sorella diversa.

«Alvin Junior, ti giuro che stanotte mentre dormi ti cucio una puzzola alle piante dei piedi!». La risposta di Al, che gli giunse attutita dalla distanza, provocò un altro scoppio di grida. Non era certo la prima volta che Scambiastorie sentiva urlare. Qualche volta era odio, qualche volta amore. Quando era odio, cercava di svignarsela il prima possibile. In quella casa, sarebbe potuto restare.

Dopo essersi lavato mani e viso, era sufficientemente pulito perché comare Faith gli permettesse di portare in tavola il pane appena sfornato… «purché non vi appoggiate il pane su quella camicia lurida». Poi. Scambiastorie prese il suo posto nella fila, scodella in mano, mentre l’intera famiglia marciava in cucina emergendone con la maggior parte di un maiale divisa in parti uguali.

Fu Faith, non Miller, a invitare una delle ragazze a condurre la preghiera, e Scambiastorie prese nota del fatto che Miller non aveva nemmeno chiuso gli occhi, anche se tutti i suoi figli stavano a testa china e a mani giunte. Apparentemente la preghiera era qualcosa ch’egli tollerava, ma non incoraggiava. Senza bisogno di chiederlo, Scambiastorie capì che tra Alvin Miller e il pastore di quell’elegante chiesa bianca non doveva correre buon sangue. Scambiastorie decise che Miller avrebbe forse potuto apprezzare uno dei proverbi del suo libro: «Come il bruco sceglie le più belle foglie per deporvi sopra le sue uova, così il prete scaglia le sue maledizioni sulle gioie più incontaminate».

Con grande sorpresa di Scambiastorie, il pasto non fu affatto caotico. A turno, ciascuno dei figli raccontò che cosa aveva fatto quel giorno. Gli altri ascoltavano, talvolta offrendo consigli o elogi. Alla fine, quando lo stufato fu terminato e Scambiastorie stava ripulendo la ciotola dalle ultime tracce di sugo con una mollica di pane, Miller si rivolse anche a lui come aveva fatto con tutti gli altri membri della famiglia.

«E la vostra giornata, Scambiastorie? L’avete trascorsa bene?»

«Stamattina prima di mezzogiorno ho camminato per qualche miglio, e poi mi sono arrampicato su un albero» disse Scambiastorie. «Da lassù ho visto un campanile, che mi ha portato fino a una cittadina. Qui un buon cristiano ha avuto paura dei miei talenti nascosti, anche senza avermeli visti praticare, e lo stesso ha fatto un pastore, pur affermando di non credere che io li possedessi. Però ero sempre in cerca di un pasto e di un letto, e dell’opportunità di lavorare per guadagnarmeli, e una donna mi ha detto che coloro che abitavano in fondo a una certa carrareccia mi avrebbero sicuramente dato ospitalità».

«Doveva essere nostra figlia Eleanor» osservò Faith.

«Sì» disse Scambiastorie. «Adesso vedo che ha gli occhi di sua madre, sempre sereni qualsiasi cosa accada».

«No, amico» ribatté Faith. «È solo che questi occhi hanno visto cose tali che da allora non è stato facile mettermi in agitazione».

«Prima di andarmene di qui, spero di udirne il racconto» disse Scambiastorie.

Faith distolse lo sguardo per mettere un’altra fetta di formaggio sul pane di uno dei nipotini.

Non volendo che gli altri pensassero che la mancata risposta di Faith lo avesse messo in imbarazzo, Scambiastorie proseguì senza esitare il suo racconto. «Quel sentiero aveva una strana particolarità» disse. «C’erano ponti coperti su ruscelli che un bambino avrebbe guadato senza difficoltà, e un adulto avrebbe facilmente attraversato con un salto. Prima di andarmene di qui, spero di udire anche la storia di quei ponti».

Anche stavolta, tutti distolsero lo sguardo.

«E quando sono uscito dal bosco ho trovato un mulino senza macina, e due ragazzi che facevano la lotta su un carro, e un mugnaio che mi ha scaraventato a terra come mai mi era successo in vita mia, e una famiglia che mi ha accolto e mi ha offerto la più bella stanza della casa, anche se ero un estraneo e non sapevano se ero buono o cattivo».

«Che siete buono si capisce lontano un miglio» disse Al Junior.

«Vi spiace se vi faccio qualche domanda? In vita mia ho conosciuto molte persone ospitali, e sono stato ospite in molte case felici, ma nessuna era felice come questa, e nessuno si è mai mostrato così contento di ospitarmi».

L’intera famiglia era ancora riunita intorno alla tavola. Alla fine Faith alzò la testa e gli sorrise. «Sono contenta che ci giudichiate felici» disse. «Ma tutti quanti ricordiamo anche altri tempi, e forse la nostra attuale felicità è resa più dolce dal ricordo della sofferenza».

«Ma perché avete dato ospitalità a uno come me?»

Stavolta fu Miller a rispondere. «Perché anche noi una volta siamo stati stranieri, e gente di buon cuore ci ha dato ospitalità».

«Ho soggiornato a Filadelfia per qualche tempo, e questo mi induce a farvi una domanda: appartenete forse alla Società degli Amici?»

Faith scosse la testa. «Sono presbiteriana. E così molti dei miei figli».

Scambiastorie guardò Miller.

«Io non sono niente» disse questi.

«Essere cristiani non è essere niente» replicò Scambiastorie.

«Non sono nemmeno cristiano».

«Ah. Un deista, allora, come Tom Jefferson». Un mormorio si levò intorno alla tavola alla menzione del grand’uomo.

«Scambiastorie, io sono un padre che ama i suoi figli, un marito che ama sua moglie, un contadino che paga i suoi debiti, e un mugnaio senza macina per il suo mulino». Poi l’uomo si alzò da tavola e se ne andò. Si udì chiudersi una porta. Miller era uscito di casa.

Scambiastorie si rivolse a Faith. «Oh, signora, temo che rimpiangerete di avermi accolto in casa vostra».

«Non vi sembra di fare un po’ troppe domande?» chiese lei.

«Vi ho detto il mio nome, e il mio nome è quello che sono. Ogni volta che sento che c’è una storia, una storia importante, una storia vera, non mi do pace finché non l’ho udita. E se me la raccontano, e io ci credo, allora la ricordo per sempre, e la racconto a mia volta ovunque io vada».

«È così che vi guadagnate da vivere?» chiese una delle ragazze.

«Mi guadagno da vivere dando una mano ad aggiustare carri, scavare fosse, filare la lana, qualunque cosa ci sia da fare. Ma il mio vero lavoro sono le storie, e io le baratto alla pari. Può darsi che in questo momento pensiate che non volete raccontarmi niente, e mi sta bene, perché non ho mai voluto ascoltare una storia che non mi venisse raccontata volentieri. Non sono un ladro. Ma, vedete, una storia l’ho già avuta… tutto quello che mi è successo da stamattina a ora. Le persone più gentili e il letto più morbido che io abbia mai incontrato tra il Mizzipy e l’Alph».

«E l’Alph dove sarebbe? È un fiume?» chiese Cally.

«Come hai detto? Vuoi che ti racconti una storia?» chiese Scambiastorie.

«Sì» rumoreggiarono i bambini.

«Ma non sul fiume Alph» disse Al Junior. «Non è un fiume vero».

Scambiastorie lo guardò, genuinamente sorpreso. «Come fai a saperlo? Hai forse letto le poesie di Coleridge raccolte da Lord Byron?»

Al Junior si guardò intorno, disorientato.

«Non abbiamo granché da leggere» spiegò Faith. «Il pastore tiene lezioni di catechismo, e loro imparano a leggere sulla Bibbia».

«E allora come facevi a sapere che il fiume Alph non esiste?»

Al Junior fece una smorfia, come a dire: non farmi domande alle quali nemmeno io saprei rispondere. «Non potreste raccontarci di Jefferson? Da come l’avete nominato si direbbe che l’avete conosciuto di persona».

«Certo che l’ho conosciuto. E Tom Paine, e Patrick Henry prima che lo impiccassero, e ho visto la spada con cui è stato decapitato George Washington. Ho visto persino re Roberto II prima che i francesi affondassero la sua nave nell’Uno, e lo spedissero in fondo al mare».

«Come si meritava» mormorò Faith.

«Se non più in fondo ancora» aggiunse una delle figlie grandi.

«E così sia. Negli Appalachi dicono che le sue mani erano così lorde di sangue che le ossa ne recano ancora le tracce, e neanche i pesci meno schifiltosi si azzardano a rosicchiarle».

I bambini risero.

«E più ancora di Tom Jefferson» disse Al Junior, «vorrei sentir raccontare del più grande mago che sia mai vissuto in America. Scommetto che avete conosciuto anche Ben Franklin».

Ancora una volta il ragazzo lo aveva colto di sorpresa. Come aveva fatto a capire che di tutte le storie che conosceva, le sue preferite erano proprio quelle che parlavano di Ben Franklin? «Se l’ho conosciuto? Be’, un pochino» ammise Scambiastorie, sapendo che il modo in cui lo diceva prometteva loro storie a non finire. «Ho vissuto con lui per sei anni soltanto, e ogni notte trascorrevano otto ore senza che io lo vedessi… per cui non posso dire di saperne molto».

Al Junior si chinò in avanti sul tavolo, gli occhi sgranati e accesi d’entusiasmo. «Era veramente un creatore?»

«Ogni storia a suo tempo» disse Scambiastorie. «Finché i vostri genitori saranno disposti a vedermi qui intorno, e finché sarò convinto di potermi rendere utile, resterò qui a raccontarvi storie giorno e notte».

«Cominciando da Ben Franklin» insisté Alvin Junior. «È vero che riusciva a tirare giù i fulmini dal cielo?»

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