X VISIONI

Alvin Junior si svegliò in un bagno di sudore. L’incubo era stato tremendamente realistico, e adesso gli mancava il fiato proprio come dopo una fuga disperata. Ma non c’era modo di fuggire, lo sapeva. Restò disteso a occhi chiusi per qualche tempo, terrorizzato all’idea di aprirli, sapendo che quando l’avesse fatto quella cosa sarebbe stata ancora lì. Molto tempo prima, quando era ancora piccolo, l’incubo lo faceva gridare a squarciagola. Ma quando cercava di spiegarlo a papà e mamma, loro gli dicevano sempre la stessa cosa. «Ma se non è nulla, figliolo! Come mai ti fa così paura, se tu stesso dici che non è nulla!» Così aveva imparato a controllarsi, e ora quando l’incubo arrivava lui non gridava più.

Aprì gli occhi, e la cosa si ritirò immediatamente negli angoli della stanza, dove non era costretto a guardarla direttamente. Era già qualcosa. Resta lì e lasciami stare, disse fra sé.

Poi si rese conto che era giorno fatto, e che la mamma gli aveva disposto ordinatamente sul letto la giacca e i pantaloni di pesante lana nera e una camicia pulita. I vestiti per andare in chiesa la domenica. Quasi quasi avrebbe preferito trovarsi ancora alle prese con l’incubo, piuttosto che svegliarsi per una cosa del genere.

Alvin Junior detestava cordialmente la domenica mattina. Detestava vestirsi bene, così che poi uno non poteva sdraiarsi, inginocchiarsi nell’erba, o addirittura chinarsi senza che qualcosa si sporcasse, e la mamma gli dicesse di avere più rispetto per il giorno del Signore. Detestava dover girare per la casa in punta di piedi per tutta la mattina, perché era domenica, e di domenica non era permesso giocare né fare rumore. E soprattutto detestava l’idea di starsene seduto su una dura panca, in prima fila, col reverendo Thrower che lo fissava diritto negli occhi mentre tuonava sulle fiamme infernali pronte a inghiottire i malvagi che disprezzavano la vera religione e riponevano la loro fede nelle misere capacità di comprensione dell’uomo. Tutte le domeniche la stessa solfa, o almeno così gli sembrava.

Non che Alvin disprezzasse la religione. Disprezzava soltanto il reverendo Thrower. E tutte quelle ore di scuola, adesso che la stagione del raccolto era finita. Alvin Junior leggeva speditamente, e in aritmetica il più delle volte ci azzeccava. Ma questo al vecchio Thrower non bastava. Doveva sempre infilarci la religione. Gli altri bambini — gli svedesi e gli olandesi che abitavano più a monte, gli scozzesi e gl’inglesi che abitavano più a valle — venivano picchiati solo quando rispondevano male o facevano tre errori di fila. Ma con Alvin Junior sembrava che il reverendo Thrower desse di piglio alla canna a ogni minima occasione, e non per le materie di studio, ma sempre per la religione.

Naturalmente il fatto che la Bibbia continuasse a sembrargli divertente nei momenti sbagliati non migliorava certo le cose. Gliel’aveva detto anche Measure, la volta che Alvin era scappato da scuola ed era andato a nascondersi a casa di David, finché Measure non l’aveva trovato poco prima dell’ora di cena. «Basterebbe che non ti mettessi a ridere quando legge la Bibbia, e non ti frusterebbe così tanto».

Ma la Bibbia era divertente. Quando Gionata scagliava tutte quelle frecce nel cielo, e mancava il bersaglio. Quando Geroboamo non scagliava abbastanza frecce dalla finestra. Quando il Faraone trovava ogni sorta d’espedienti per impedire agli Israeliti di partire. Quando Sansone era così scemo da raccontare il suo segreto a Dalila dopo che lei l’aveva già tradito due volte. «Come posso fare a meno di ridere?»

«Immagina che il sedere ti si riempia di foruncoli» disse Measure. «Dovrebbe bastare a farti sparire quel sorriso dalla faccia».

«Ma non me ne ricordo mai finché non mi scappa da ridere».

«E allora probabilmente non avrai bisogno di una sedia fino al tuo quattordicesimo compleanno» ribatté Measure. «Perché la mamma non ti permetterà mai di abbandonare la scuola, e nemmeno Thrower ti lascerà mai perdere, e tu non puoi restartene nascosto a casa di David per sempre».

«Perché no?»

«Perché nascondersi di fronte al nemico è la stessa cosa che lasciarlo vincere».

Così Measure non aveva voluto farlo restare lì al sicuro, e lui era dovuto tornare a casa… e le aveva buscate anche da papà, per la paura che aveva fatto prendere a tutti scappando e restandosene nascosto per tanto tempo. Eppure Measure l’aveva aiutato. Era un sollievo sapere che c’era qualcuno pronto a riconoscere che Thrower era suo nemico. Tutti gli altri invece la facevano un sacco lunga su quant’era bravo e buono e istruito Thrower, e quant’era gentile a lasciare che i bambini si abbeverassero alla fonte della sua sapienza. Se ci pensava, ad Alvin veniva quasi da vomitare.

Anche se da allora Alvin durante le ore di scuola era riuscito a controllarsi di più, e quindi a buscarne di meno, la domenica era per lui la prova più terribile, perché gli toccava starsene seduto su quella dura panca ad ascoltare Thrower, per metà del tempo con la voglia di ridere fino a rotolarsi sul pavimento, e per l’altra metà con la voglia di alzarsi in piedi e gridare: «Questa è praticamente la massima idiozia che io abbia mai sentito dire a un adulto!». Tra l’altro, aveva una mezza idea che se avesse veramente detto a Thrower una cosa del genere, papà non lo avrebbe picchiato troppo forte, visto che anche lui non aveva una grande opinione del pastore. Ma la mamma… non gli avrebbe mai perdonato di aver pronunciato parole blasfeme nella casa del Signore.

La domenica mattina, concluse, era stata inventata perché i peccatori potessero avere un assaggio del loro primo giorno all’inferno.

Oggi probabilmente la mamma non avrebbe permesso a Scambiastorie di raccontare nemmeno la più breve delle sue storie, a meno che non fosse tratta dalla Bibbia. E siccome Scambiastorie, a quanto pareva, non raccontava mai storie tratte dalla Bibbia, Alvin Junior ne concluse che da quella giornata non poteva venir fuori niente di buono.

La voce della mamma squillò su per le scale: «Alvin Junior, sono così stufa di aspettare ogni domenica mattina. tre ore che tu sia vestito, che stavolta ti porterò in chiesa nudo!».

«Non sono nudo!» urlò di rimando Alvin. Ma siccome addosso aveva ancora la camicia da notte di flanella, probabilmente era peggio che essere nudo. Se la sfilò, la appese a un piolo e cominciò a vestirsi in fretta e furia.

Era buffo. Qualsiasi altro giorno della settimana gli bastava allungare la mano verso i vestiti che quelli si trovavano lì, ogni volta esattamente il capo di cui aveva bisogno. Camicia, calzoni, calzini, scarpe. Sempre lì a portata di mano, ogni volta che l’allungava. Ma la domenica mattina era come se i vestiti gli scappassero da sotto le mani. Cercava la camicia, e si ritrovava in mano i pantaloni. Allungava la mano verso un calzino, e regolarmente trovava una scarpa. Era come se i vestiti non ne volessero sapere di essere indossati.

Così quando la mamma spalancò la porta, non era solo colpa di Alvin se non si era ancora infilato i calzoni.

«Non hai fatto colazione! Sei ancora mezzo nudo! Se pensi ch’io sia disposta a far arrivare tutta la famiglia in ritardo per colpa tua…».

«…ti sbagli di grosso» concluse Alvin.

Non era colpa sua se la mamma diceva sempre la stessa cosa. Ma lei si arrabbiò come se lui fosse stato tenuto a fingere di essere sorpreso di sentirle pronunciare quelle parole per la novantesima volta dall’inizio dell’estate. Oh, era proprio sul punto di suonargliele di santa ragione, o di chiamare papà perché gliele suonasse ancora più forte, quando sulla porta fece la sua provvidenziale comparsa Scambiastorie.

«Comare Faith» disse Scambiastorie, «se volete intanto avviarvi insieme agli altri, ci penserò volentieri io ad accompagnarlo in chiesa».

Nell’udire Scambiastorie, la mamma si voltò di scatto cercando di non fargli vedere quanto fosse arrabbiata. In quello stesso istante Alvin cominciò a praticarle un incantesimo calmante… con la mano destra, in modo da non farsi vedere, perché se lei se ne fosse accorta gli avrebbe rotto un braccio, e quella era l’unica minaccia alla quale Alvin Junior credeva veramente.

«Mi rincresce di darvi questa seccatura» disse la mamma.

«Figuratevi, comare Faith» ribatté Scambiastorie. «Faccio così poco per ricambiare la vostra gentilezza nei miei confronti».

«Così poco!» L’irritazione era quasi completamente scomparsa dalla voce della mamma. «Ma se mio marito dice che fate il lavoro di due uomini adulti! E quando raccontate le vostre storie ai ragazzi… in questa casa ci sono più pace e tranquillità di… di quanto non avrei mai osato sperare». La mamma si voltò di nuovo verso Alvin, ma adesso la sua collera era più simulata che reale. «Mi prometti di fare tutto quello che Scambiastorie ti dirà, e che verrai subito in chiesa?»

«Sì, mamma» disse Alvin Junior. «Prima che posso».

«Va bene, allora. Mille grazie, Scambiastorie. Se riuscite a farvi obbedire da questo ragazzo, sarà più di quanto chiunque sia riuscito a ottenere da quando ha imparato a parlare».

«È un vero monello» disse Mary dal corridoio.

«Chiudi il becco, Mary» disse la mamma, «o ti caccio il labbro inferiore su per il naso e poi te lo cucio, per esser sicura che rimanga chiuso».

Alvin tirò un respiro di sollievo. Quando la mamma lanciava minacce impossibili, voleva dire che non era più così arrabbiata. Mary arricciò il naso e scomparve a precipizio nel corridoio, ma Alvin non se ne curò minimamente. Si limitò a sorridere a Scambiastorie, e Scambiastorie ricambiò il suo sorriso.

«Hai problemi a vestirti per andare in chiesa, ragazzo?» chiese Scambiastorie.

«Preferirei vestirmi di lardo e camminare in mezzo a un branco di orsi affamati» confessò Alvin Junior.

«Mi sembra che sia più facile uscire vivi di chiesa che da un incontro con gli orsi» commentò Scambiastorie.

«Non c’è molta differenza».

Poco dopo aveva finito di vestirsi. Ma riuscì a convincere Scambiastorie a prendere la scorciatoia, che significava tagliare attraverso il bosco sopra la casa anziché fare il giro seguendo la strada. Siccome fuori faceva un bel freddo, non pioveva da diverso tempo, e non pareva che volesse nevicare, non avrebbero trovato fango, e probabilmente la mamma non se ne sarebbe neanche accorta. E ciò che la mamma non sapeva non avrebbe potuto arrecargli alcun danno.

«Ho notato» disse Scambiastorie mentre risalivano il pendio coperto di foglie, «che tuo padre non è andato insieme a tua madre, a Cally e alle ragazze».

«Mio padre in chiesa non ci va» disse Alvin. «Dice che il reverendo Thrower è un asino/Logicamente non lo dice quando la mamma può sentirlo».

«Lo credo bene» annuì Scambiastorie.

Adesso si trovavano sulla sommità della collina, da dove lo sguardo poteva spaziare attraverso campi aperti fino alla chiesa e oltre. Il rilievo su cui sorgeva la chiesa nascondeva alla vista la cittadina di Vigor Church. La brina che ricopriva l’erba bruciata dal gelo aveva appena cominciato a sciogliersi, così che la chiesa sembrava quanto di più bianco potesse esistere in un mondo di candore, e il sole che vi scintillava sopra le conferiva l’aspetto d’un astro gemello. Alvin vide che qualche carro era ancora per la strada, e c’era chi stava legando i cavalli ai pali sul prato. Se si fossero affrettati, avrebbero potuto trovarsi al loro posto prima che il reverendo Thrower intonasse il primo inno.

Ma Scambiastorie non si avviò giù per la discesa. Si mise a sedere su un ceppo e cominciò a recitare una poesia. Alvin lo ascoltò con la massima attenzione, perché spesso le poesie di Scambiastorie gli facevano venire proprio i brividi.

Mi recai nel Giardino dell’Amore

e vidi ciò che mai avevo visto:

una cappella costruita in mezzo al prato

dove una volta usavo giocare.

E la porta della cappella era serrata

e «Tu non farai» era scritto sulla porta,

così mi rivolsi al Giardino dell’Amore

nel quale sbocciavano fiori profumati,

e vidi che il giardino era pieno di tombe

e lapidi sorgevano al posto dei fiori:

facevan la ronda preti intonacati e neri

e fra i pruni serravano gioie e desideri.

Oh, quello di Scambiastorie era proprio un dono, sì, perché mentre recitava quei versi il mondo intero si trasformò sotto gli occhi di Alvin. I prati e gli alberi sembravano adesso in pieno rigoglio primaverile, di un verde smagliante punteggiato dal giallo di diecimila corolle, e il bianco della cappella là nel mezzo non abbagliava più, ma era piuttosto il bianco polveroso e opaco delle ossa calcinate. «E fra i pruni serravano gioie e desideri» ripeté Alvin. «A quanto pare, la religione non vi dice granché».

«Io respiro religione ogni volta che prendo fiato» disse Scambiastorie. «Non c’è cosa che desideri più di una visione; e vado continuamente in cerca di qualche segno della mano di Dio. Ma su questa terra vedo più di frequente le tracce di un’altra mano. Una strisciata di bava scintillante che a toccarla mi scotta. Di questi tempi Dio se ne sta un po’ sulle sue, Al Junior, ma Satana non teme di rotolarsi nel fango insieme all’umanità».

«Thrower dice che la sua chiesa è la casa di Dio».

Scambiastorie restò seduto senza aprir bocca per un sacco di tempo.

Alla fine Alvin si decise a chiederglielo apertamente: «In quella chiesa avete forse visto i segni del demonio?».

Nei giorni trascorsi da quando Scambiastorie era arrivato in casa loro, Alvin aveva imparato che Scambiastorie non diceva mai vere bugie. Ma quando non voleva essere costretto a dire la verità, scantonava recitando una poesia. E una poesia recitò adesso:

O Rosa, sei malata.

Il verme invisibile

che vola nella notte

nella burrasca ululante

ha scoperto il tuo letto

di gioia scarlatta,

e il suo amore oscuro

distrugge la tua vita.

Quelle risposte allusive irritavano Alvin. «Se volessi udire senza capire, tanto varrebbe leggere Isaia».

«Musica per le mie orecchie, caro ragazzo, sentirmi paragonare al più grande dei profeti».

«Non mi sembra un gran profeta, se nessuno riesce a capire un accidente di quello che ha scritto».

«O forse voleva che tutti diventassimo profeti».

«A me i profeti non vanno molto a genio» disse Alvin. «Per quanto ne so, finiscono sotto terra anche loro, come tutti». Era una cosa che aveva sentito dire da suo padre.

«Tutti finiamo sotto terra, certo» ammise Scambiastorie. «Ma tra i morti, c’è chi continua a vivere nelle proprie parole».

«Le parole non restano mai ferme» disse Alvin. «Ecco, quando costruisco qualcosa, quella è la cosa che ho fatto. Come quando intreccio un canestro. È un canestro. Quando si sfascia, è un canestro sfasciato. Ma quando dico qualcosa, le parole possono essere distorte. Thrower può prendere le stesse parole che ho detto un istante prima e distorcerle in modo da far loro significare l’esatto contrario di quello che intendevo io».

«Pensala in un altro modo, Alvin. Quando intrecci un canestro, questo non potrà mai diventare nient’altro che un canestro. Ma quando dici qualcosa, le tue parole possono essere ripetute più e più volte, e riempire il cuore degli uomini a mille miglia di distanza da dove le hai pronunciate per la prima volta. Le parole possono ingrandirsi; le cose non sono mai più di quello che sono».

Alvin cercò di visualizzare la cosa, e, siccome era stato Scambiastorie a dirla, l’immagine gli venne quasi da sola alla mente. Parole invisibili come l’aria, che uscivano dalle labbra di Scambiastorie e si diffondevano passando di bocca in bocca, diventando sempre più grandi, ma restando sempre invisibili.

Poi, all’improvviso, la visione si trasformò. Vide le parole uscire dalle labbra del pastore, come un tremito nell’aria, che si diffondeva e s’infiltrava dappertutto… e ad un tratto quell’immagine si mutò nel suo incubo, nel sogno spaventoso che lo assaliva, da sveglio o nel sonno, inchiodandogli il cuore alla spina dorsale finché non gli sembrava di morire. Il mondo che si riempiva di un terribile, tremolante nulla che s’infiltrava dappertutto e distruggeva ogni cosa. Alvin lo vide avventarsi contro di lui come un’immensa palla che diventava sempre più grande. Da tutte le sue esperienze dello stesso incubo, Alvin sapeva che anche se stringeva i pugni quella cosa si sarebbe assottigliata fino a sfuggirgli tra le dita, e anche se chiudeva la bocca e gli occhi avrebbe cominciato a premergli sul viso insinuandosi nel naso e nelle orecchie e…

Scambiastorie lo stava scuotendo. Scuotendo forte. Alvin spalancò gli occhi. L’aria tremolante si ritirò ai margini del suo campo visivo, là dove poteva scorgerla per la maggior parte del tempo, in agguato appena fuori della sua portata, subdola come una donnola, pronta a guizzar via non appena lui girava l’occhio.

«Che cos’hai, ragazzo?» chiese Scambiastorie. Dall’espressione sembrava spaventato.

«Nulla» disse Alvin.

«Nulla non è possibile» disse Scambiastorie. «Tutt’a un tratto ti ho visto sbiancare di paura, come di fronte a una visione tremenda».

«Non era una visione» mormorò Alvin. «Una visione l’ho avuta, una volta, e so com’è».

«Davvero? E che visione era?»

«Un Uomo Luminoso. Non ne ho mai parlato con nessuno, e non ho intenzione di cominciare adesso».

Scambiastorie non insisté. «E adesso che cos’hai visto, se non era una visione?… be’, che cos’era?»

«Nulla». Come risposta era sincera, anche se Alvin sapeva benissimo che non era una risposta. Ma non voleva rispondere. Ogni volta che ne parlava con qualcuno, lo rimbrottavano perché faceva tutte quelle storie per nulla.

Ma Scambiastorie non era disposto a mollare. «È da quando sono nato che spero di avere una vera visione, Al Junior, e tu ne hai appena avuta una, qui, in pieno giorno, a occhi spalancati, hai visto qualcosa di così spaventoso che hai smesso di respirare, e adesso devi dirmi che cos’era».

«Ve l’ho detto! Nulla!» Poi, più calmo: «Non è nulla, ma io riesco a vederlo. Come se l’aria si mettesse a ondeggiare».

«Non è nulla, ma non è invisibile?»

«Entra dappertutto. Penetra nelle più minuscole fessure e poi sgretola tutto. Si mette a tremare, e trema finché non resta altro che polvere, e poi fa tremare anche la polvere, e io cerco di tenerlo lontano, ma quello diventa sempre più grande, ricopre tutto, finché sembra ricoprire cielo e terra». Alvin non riusciva a trattenersi. Adesso tremava di freddo, anche se era infagottato come un orso.

«Quante volte l’hai visto prima d’ora?»

«Da quando ho memoria. Mi capita ogni tanto. Il più delle volte mi metto a pensare a qualcos’altro, e in questo modo riesco a tenerlo lontano».

«Dove?»

«Lontano. Dove non lo vedo più». Alvin si tirò in ginocchio, quindi ricadde su un fianco, esausto. Si era messo a sedere sull’erba bagnata con i calzoni della domenica, ma neanche se ne accorse. «Quando avete parlato di come le parole vanno sempre più lontano… è stato allora che l’ho visto di nuovo».

«Un sogno che torna a presentarsi cerca di dirti la verità» commentò Scambiastorie.

Il vecchio era evidentemente così interessato che Alvin si chiese se si rendesse davvero conto dell’orrore della cosa. «Questa non è una delle vostre storie, Scambiastorie».

«Lo diventerà» assicurò Scambiastorie, «appena l’avrò capita».

Si mise a sedere accanto ad Alvin e meditò in silenzio per un tempo lunghissimo.

Alvin si limitò a restarsene seduto, piegando i fili d’erba fra le dita. Dopo un po’ cominciò a sentirsi impaziente. «Forse capire tutto è impossibile» disse. «Forse è soltanto una mia pazzia. Forse ogni tanto mi dà di balta il cervello».

«Ecco» disse Scambiastorie, senza nemmeno accorgersi che Alvin gli aveva detto qualcosa. «Ho pensato a un possibile significato. Ora te lo dico, e vediamo se possiamo crederci».

Ad Alvin non piaceva essere ignorato. «O forse è a voi che ogni tanto dà di balta il cervello; ci avete mai pensato, Scambiastorie?»

Scambiastorie ignorò il dubbio di Alvin. «L’intero universo non è altro che un sogno nella mente di Dio, e finché Egli è addormentato ci crede e le cose restano reali. Quello che vedi è Dio che si sveglia, che gradualmente si sveglia, e questo suo svegliarsi si diffonde nel sogno e disfa l’universo, finché finalmente Egli non si tirerà a sedere, si strofinerà gli occhi e dirà: ‘Santo cielo che sogno, vorrei potermelo ricordare’, e in quell’istante scompariremo tutti». Guardò Alvin con espressione ansiosa. «Che ne dici?»

«Se ci credete, Scambiastorie, allora siete proprio un idiota patentato, come dice sempre Corazza-di-Dio».

«Allora è così che la pensa, eh?». All’improvviso la mano di Scambiastorie guizzò in avanti afferrando Alvin per il polso. Alvin ne fu così sorpreso da lasciar cadere ciò che teneva in mano. «No! Raccoglilo! Guarda che cosa stavi facendo!»

«Stavo solo giocando, accidenti!»

Scambiastorie allungò la mano per raccogliere ciò che Alvin aveva lasciato cadere. Era un cestino minuscolo, non più largo di un pollice, fatto d’erba autunnale. «L’hai intrecciato tu, mentre parlavamo».

«Penso di sì» disse Alvin.

«E perché l’hai fatto?»

«L’ho fatto e basta».

«Senza nemmeno pensarci?»

«Come cestino non è un granché, sapete. Li facevo sempre per Cally. Da piccolo li chiamava ‘cestini da formiche’. Si disfano quasi subito».

«Hai avuto una visione del nulla, e hai subito dovuto costruire qualcosa».

Alvin guardò il cestino. «Penso di sì».

«E lo fai sempre?»

Alvin ripensò a tutte le volte che aveva visto l’aria tremolante. «Costruisco cose in continuazione» disse. «Non mi sembra così importante».

«Ma non ti senti a posto finché non hai costruito qualcosa. Dopo avere avuto la visione del nulla, non ti senti tranquillo finché non hai messo qualcosa insieme».

«Forse è soltanto per scaricarmi».

«Non è solo per scaricarti, eh, ragazzo? Spaccar legna non ti servirebbe a nulla. Raccogliere le uova, attingere l’acqua dal pozzo, falciare l’erba, non ti darebbe alcun sollievo».

Adesso anche Alvin cominciava a intravedere il senso di quanto Scambiastorie aveva scoperto. I suoi stessi ricordi glielo confermavano. Si svegliava di notte dopo uno di quei sogni, e l’inquietudine non gli passava finché non aveva intrecciato qualcosa, o innalzato un mucchio di fieno, o costruito una bambola di pannocchie di granturco per una delle nipotine. Lo stesso gli succedeva quando la visione gli veniva di giorno… non riusciva più a combinare nulla finché non aveva costruito qualcosa che prima non c’era, sia pure un semplice mucchio di sassi o un pezzo di muro a secco.

«È vero, allora? Lo fai tutte le volte, no?»

«Mi pare di sì».

«Allora lascia che ti dica che cos’è il tuo nulla. È il Distruttore».

«Non ne ho mai sentito parlare» disse Alvin.

«Nemmeno io, finora. Questo perché fa di tutto per restare nascosto. È il nemico di tutto ciò che esiste. La sua maggiore aspirazione è quella di fare a pezzi tutto, e poi fare a pezzi anche i pezzi, finché non ne resta più nulla».

«Se fai a pezzi qualcosa, e poi fai a pezzi anche i pezzi, non è vero che non resta nulla» lo contraddisse Alvin «Restano semplicemente tanti pezzi piccolissimi».

«Sta’ zitto e ascolta il resto della storia» disse Scambiastorie.

Non era la prima volta che Alvin glielo sentiva dire. Anzi, Alvin Junior era quello a cui Scambiastorie doveva dirlo più spesso, più ancora che ai nipotini.

«Non sto parlando di bene e di male» disse Scambiastorie. «Nemmeno il diavolo può permettersi di distruggere tutto, non è vero? O smetterebbe di esistere, esattamente come tutto il resto. Nemmeno le creature più malvagie possono desiderare la distruzione di tutto… desiderano soltanto sfruttare ogni cosa a proprio vantaggio».

Alvin non aveva mai udito la parola sfruttare prima d’allora, ma dal suono giudicò che doveva essere una brutta cosa.

«Perciò nella grande guerra fra il Distruttore e tutto il resto, Dio e il diavolo dovrebbero trovarsi dalla stessa parte. Ma il diavolo non lo sa, e di conseguenza il più delle volte si mette al servizio del Distruttore».

«Volete dire che il diavolo lavora per la propria sconfitta?»

«Questa storia non parla del diavolo» disse Scambiastorie. Una volta che aveva cominciato a raccontare, non c’era verso di smuoverlo. «Nella grande guerra contro il Distruttore, quello della tua visione, tutti gli uomini e le donne del mondo dovrebbero essere uniti. Ma il grande nemico resta invisibile, in modo che nessuno possa rendersi conto che sta involontariamente combattendo al suo fianco. Nessuno si rende conto che la guerra è la migliore alleata del Distruttore, perché manda in rovina tutto ciò che tocca. Nessuno si rende conto che il fuoco, le stragi, la violenza, la cupidigia e la concupiscenza spezzano i fragili legami che trasformano gli esseri umani in nazioni, città, famiglie, amici e anime».

«Dovete proprio essere un profeta» borbottò Alvin Junior, «perché non capisco una sola parola di quel che dite».

«Un profeta, sì» mormorò Scambiastorie, «ma sono stati i tuoi occhi a vedere. Ora conosco la sofferenza di Aronne: pronunciare parole di verità, ma non accedere mai direttamente alla visione».

«Ne state tirando fuori di cose, dai miei incubi».

Scambiastorie restò in silenzio, seduto per terra, i gomiti sulle ginocchia, il mento mestamente appoggiato sulle mani. Alvin cercò di cogliere il senso di ciò che il vecchio gli aveva appena detto. Certamente ciò che aveva visto nei suoi brutti sogni non era una cosa di nessun genere, e quindi parlare del Distruttore come se fosse stato una persona era solo un’invenzione poetica. Ma forse era vero, forse il Distruttore non era semplicemente frutto della sua immaginazione, forse era qualcosa di reale e Al Junior era l’unico a poterlo vedere. Forse il mondo intero correva un terribile pericolo, e Alvin era chiamato a combatterlo, a respingerlo, a tenerlo a bada. Sicuramente, quando faceva quel sogno Alvin non riusciva a sopportarlo, e cercava di mandarlo via. Ma non era mai riuscito a capire come fare.

«Supponiamo che io vi creda» disse infine. «Supponiamo che il Distruttore esista davvero. Io però non posso farci un accidente di niente».

Sulle labbra di Scambiastorie affiorò un lento sorriso mentre abbassava lentamente una mano per raccogliere il minuscolo cestino da formiche abbandonato nell’erba. «Questo ti sembra forse un accidente di niente?»

«È solo un ciuffetto d’erba».

«Era un ciuffetto d’erba» disse Scambiastorie. «E se tu lo strappassi, tornerebbe a essere un ciuffetto d’erba. Ma adesso, in questo preciso istante, è qualcosa di più».

«Un cestino da formiche, nient’altro».

«Qualcosa che hai costruito tu».

«Be’, sicuramente l’erba non cresce così da sola».

«E quando l’hai costruito, hai respinto il Distruttore».

«Non di molto» disse Alvin.

«No» disse Scambiastorie. «Hai fabbricato semplicemente un cestino da formiche. E di tanto l’hai respinto».

A un tratto nella mente di Alvin tutti i pezzi del rompicapo andarono a posto. Quello che Scambiastorie stava cercando di spiegargli. Alvin conosceva opposti di ogni genere: bene e male, luce e buio, libertà e schiavitù, amore e odio. Ma sotto tutti questi opposti si celavano quelli della creazione e della distruzione. E si celavano così a fondo che quasi nessuno si rendeva conto che era quella l’opposizione più importante di tutte. Ma lui se n’era accorto, e questo aveva fatto sì che il Distruttore diventasse suo nemico. Ecco perché il Distruttore lo perseguitava nel sonno. In fin dei conti, Alvin aveva il suo dono. Il dono di mettere le cose a posto, di dare alle cose la forma che avrebbero dovuto assumere.

«Penso che la mia vera visione parlasse della stessa cosa» disse Alvin.

«Non sei obbligato a parlarmi dell’Uomo Luminoso» lo interruppe Scambiastorie. «Non ho l’abitudine d’impicciarmi degli affari altrui».

«Volete dire impicciarvi degli affari altrui per sbaglio?» disse Alvin.

Era il genere di osservazione che in famiglia gli sarebbe costato un sonoro schiaffone, ma Scambiastorie rise soltanto.

«Avevo commesso una cattiva azione senza saperlo» disse Alvin. «Allora l’Uomo Luminoso mi è comparso ai piedi del letto, e prima mi ha mostrato una visione di ciò che avevo fatto, per farmi capire che era male. E io mi sono messo a piangere, scoprendo quanto ero stato cattivo. Poi mi ha fatto vedere a cosa poteva servirmi il mio dono, e adesso capisco che è la stessa cosa di cui mi state parlando voi. Ho visto una pietra, l’avevo estratta da una montagna, ed era tonda come una palla, e quando ho guardato meglio ho visto che era il mondo intéro, con boschi e animali e oceani e pesci e tutto quanto. Ecco a che cosa serve il mio dono, a cercare di mettere le cose a posto».

A Scambiastorie brillavano gli occhi. «E l’Uomo Luminoso ti ha mostrato una visione come questa» mormorò. «Per una visione così, avrei dato la vita».

«Solo perché avevo usato il mio dono per fare del male a qualcun altro, a mio esclusivo vantaggio» sottolineò Alvin. «Allora ho fatto una promessa. Ho giurato solennemente che non avrei più usato il mio dono per me stesso. Solo per gli altri».

«Una buona promessa» disse Scambiastorie. «Vorrei che tutti gli uomini e le donne del mondo potessero pronunciare un simile giuramento, e mantenerlo».

«A ogni modo, ecco perché so che il… il Distruttore non è solo una visione. Nemmeno l’Uomo Luminoso era una visione. Quella che mi ha mostrato, quella era una visione, ma lui, lì davanti a me, era vero».

«E il Distruttore?»

«Vero anche lui. Non è che lo veda soltanto nella mia testa, esiste veramente».

Scambiastorie annuì, senza mai abbandonare con lo sguardo la faccia di Alvin.

«Debbo costruire delle cose» disse Alvin. «Più in fretta di quanto lui possa distruggerle».

«Nessuno può costruire così in fretta» disse Scambiastorie. «Se tutti gli uomini che ci sono al mondo trasformassero la Terra in un milione di milioni di milioni di milioni di mattoni e si mettessero a costruire un muro lavorando giorno e notte senza mai smettere, il muro si sgretolerebbe più in fretta di quanto loro sarebbero in grado di costruirlo. Anzi, ci sarebbero parti di quel muro che crollerebbero prima ancora di essere costruite».

«Questa è una stupidaggine. Un muro non può crollare prima di essere costruito».

«Se gli uomini continuassero abbastanza a lungo, i mattoni si trasformerebbero in polvere non appena loro li toccherebbero, le loro stesse mani andrebbero in putrefazione e colerebbero dalle ossa come viscida melma, finché mattoni e carne e ossa non sarebbero tutti ugualmente ridotti in polvere. Allora il Distruttore starnutirebbe, e la polvere si disperderebbe nello spazio infinito in modo da non poter mai più tornare unita. L’universo sarebbe freddo, immobile, silenzioso e buio, e finalmente il Distruttore troverebbe pace».

Alvin cercò di trovare un senso in ciò che Scambiastorie andava dicendo. Era la stessa cosa che faceva quando a scuola Thrower parlava di religione, perciò Alvin la considerava un’attività abbastanza pericolosa. Ma non poteva fare a meno di provarci, come non poteva evitare di fare domande, anche se poi gli altri s’infuriavano. «Se le cose si distruggono più in fretta di quanto sia possibile costruirle, allora com’è possibile che esista ancora qualcosa? Com’è che il Distruttore non ha già vinto? Che ci stiamo a fare noi, qui?»

Scambiastorie non era il reverendo Thrower. Le domande di Alvin non lo facevano infuriare. Si limitò ad aggrottare la fronte e a scuotere la testa. «Non lo so. Hai ragione. Noi non possiamo essere qui. La nostra esistenza è impossibile».

«Ma noi siamo qui, in caso non ve ne siate accorto» disse Alvin. «Che razza di stupida storia sarebbe, se basta guardarsi in viso a vicenda per rendersi conto che non è vera?»

«Ha dei difetti, lo ammetto».

«Pensavo che raccontaste solo storie alle quali credete».

«Mentre la raccontavo ci credevo».

Scambiastorie sembrava così addolorato che Alvin allungò una mano e gliela posò sulla spalla, anche se la giubba del vecchio era così spessa e la mano di Alvin così piccola che il ragazzo non poteva esser sicuro che Scambiastorie avesse avvertito il suo tocco. «Anch’io ci ho creduto. A certe parti. Per un po’».

«Allora nella storia c’era un fondo di verità. Forse non molta, ma un po’ sì». Scambiastorie parve sollevato.

Ma Alvin non seppe rinunciare all’ultima parola. «Non è detto che solo perché uno ci crede, la storia diventi vera».

Scambiastorie spalancò gli occhi. L’ho combinata bella, pensò Alvin. Adesso l’ho fatto arrabbiare, proprio come mi succede col reverendo Thrower. Proprio come mi succede con tutti. Perciò non restò sorpreso quando Scambiastorie tese ambedue le braccia verso di lui, gli prese il viso tra le mani, e parlò con tale forza che parve volergli conficcare le parole nella fronte. «Qualsiasi cosa che si possa credere è immagine di verità».

E, strano a dirsi, quelle parole gli penetrarono dentro, e lui le capì, anche se non avrebbe saputo esprimere a parole ciò che aveva capito. Qualsiasi cosa che si possa credere è immagine di verità. Se mi dà la sensazione di essere vero, allora contiene qualcosa di vero, anche se non è completamente vero. E se lo studio a fondo, allora forse posso capire quali parti sono vere, e quali false, e…

E Alvin si rese conto di un’altra cosa. Che tutte le sue discussioni con Thrower si riducevano a questo: che se ad Alvin qualcosa sembrava assurdo, lui non ci credeva, e non c’era citazione della Bibbia capace di convincerlo. Adesso Scambiastorie gli diceva che faceva bene a rifiutarsi di credere a cose senza senso. «Scambiastorie, questo forse significa che ciò a cui non credo non può essere vero?»

Scambiastorie inarcò le sopracciglia e gli rispose con un altro proverbio. «La verità non può mai essere detta in modo da poter essere compresa e non creduta».

Alvin era stufo di proverbi. «Per una volta, potreste rispondermi chiaramente?»

«Il proverbio è la pura verità, ragazzo. Mi rifiuto di distorcerlo per adattarlo a una mente confusa».

«Be’, se ho la mente confusa è tutta colpa vostra. Tutti quei discorsi sui mattoni che si sgretolano prima che il muro venga costruito…».

«Non ci hai creduto?»

«Forse sì. Penso che se mi mettessi a intrecciare tutta l’erba di questo prato per farne cestini da formiche, prima di arrivare dall’altra parte del prato l’erba sarebbe tutta morta e sbriciolata e non ne resterebbe più nulla. Penso che se mi mettessi in mente di trasformare tutti gli alberi da qui al Noisy in case di tronchi, gli alberi sarebbero tutti morti e caduti prima che io potessi arrivare all’ultimo. E non si può costruire una casa con dei tronchi marci».

«Un momento fa stavo per dire: ‘L’uomo non può costruire cose permanenti con pezzi temporanei’. La legge è questa. Ma come l’hai espresso tu, era il proverbio della legge: ‘Non. si può costruire una casa con dei tronchi marci’».

«Ho inventato un proverbio?»

«E quando saremo a casa, lo scriverò nel mio libro».

«Nella parte chiusa con la fibbia?» chiese Alvin. Poi si ricordò che quel libro l’aveva visto solo attraverso una fessura del pavimento, di notte, una volta che Scambiastorie si era messo a scrivere a lume di candela nella stanza sotto la sua.

Scambiastorie gli lanciò un’occhiata penetrante. «Mi auguro che non cercherai mai di aprire quella fibbia con le tue arti magiche».

Alvin era offeso. Poteva guardare attraverso una fessura, ma non sarebbe mai andato a frugare di nascosto nelle cose degli altri. «Per me, sapere che non volete che io legga quella parte vale molto di più di qualsiasi fibbia, e se non lo capite, non siete mio amico. Non ho intenzione di ficcare il naso nei vostri segreti».

«I miei segreti?» Scambiastorie rise. «Il solo motivo per cui chiudo la seconda parte del libro è che lì ci scrivo io, e non voglio che ci scriva nessun altro».

«Allora nella prima parte ci scrivono gli altri?»

«Sì».

«E che cosa ci scrivono? Posso scriverci qualcosa anch’io?»

«Ciascuno scrive una frase riguardo alla cosa più importante che abbia fatto in vita sua, o a cui abbia assistito coi suoi stessi occhi. E, da quel momento in poi, quell’unica frase mi basta per ricordare l’intera storia.

Perciò quando mi reco in un’altra città, in un’altra casa, posso aprire il libro, leggere la frase e raccontare la storia».

Ad Alvin venne in mente una possibilità straordinaria. Scambiastorie aveva abitato con Ben Franklin, no? «Anche Ben Franklin ha scritto qualcosa nel vostro libro?»

«Ha scritto la prima frase».

«E quella frase parla della cosa più importante che abbia mai fatto?»

«Certo».

«Be’, e che cos’era?»

Scambiastorie si tirò in piedi. «Torna a casa con me, ragazzo, e te la mostrerò. E mentre andiamo, ti racconterò la storia in modo da spiegarti quello che ha scritto».

Alvin balzò in piedi tutto allegro e, afferrato il vecchio per la manica di stoffa pesante, quasi lo trascinò verso il sentiero che riportava a casa. «Forza, allora!» Non sapeva se Scambiastorie avesse deciso di non andare in chiesa, o si fosse semplicemente dimenticato per quale motivo si trovavano lì… Qualunque ne fosse la ragione, era più che soddisfatto della piega presa dagli eventi. Una domenica senza chiesa era una domenica per cui valeva la pena di essere vivi. Aggiungendovi i racconti di Scambiastorie e una frase scritta di pugno da Ben il Creatore, la giornata diventava pressoché perfetta.

«Non c’è fretta, ragazzo. Nessuno di noi due morirà prima di mezzogiorno, e ogni storia ha bisogno del suo tempo».

«Era qualcosa che aveva fabbricato?» chiese Alvin. «La cosa più importante?»

«Proprio così».

«Lo so! Le lenti bifocali? La stufa?»

«La gente gli diceva sempre: Ben, sei un vero creatore. Ma lui si ostinava a negare. Proprio come negava di essere un mago. Non ho nessun talento per le arti segrete, diceva. Mi limito a prendere i pezzi di cui le cose sono fatte, e a metterli insieme in maniera migliore. Le stufe esistevano anche prima che inventassi la mia. Gli occhiali esistevano anche prima che inventassi i miei. In realtà non ho mai fatto niente in vita mia, nel senso in cui lo farebbe un vero Creatore. Io vi ho dato le lenti bifocali, ma un Creatore vi darebbe un paio di occhi nuovi».

«Secondo lui, non aveva mai fatto nulla

«Un giorno glielo chiesi. Proprio il giorno in cui ho cominciato il libro. Gli dissi: Ben, qual è la cosa più importante che tu abbia mai fatto? Lui allora cominciò a dire quello che ti ho appena detto, ossia che in realtà non aveva mai fatto nulla, e io gli dissi: Ben, tu non ci credi affatto, e nemmeno io. Lui allora disse: Bill, mi hai smascherato. Una cosa l’ho fatta, ed è la cosa più importante che io abbia mai fatto, e al tempo stesso la cosa più importante che io abbia mai visto».

Scambiastorie tacque, procedendo a lunghi passi giù per la discesa, in mezzo alle foglie che gli frusciavano rumorosamente sotto i piedi.

«E che cos’era?»

«Non preferiresti aspettare fino a casa, in modo da poterlo leggere tu stesso?»

Alvin allora si arrabbiò sul serio, più di quanto avrebbe voluto. «Non sopporto quando la gente sa qualcosa e non me lo vuol dire!»

«Non c’è bisogno di dare in escandescenze, ragazzo. Te lo dirò. Ciò che scrisse era: L’unica cosa che io abbia veramente creato sono gli americani».

«Che assurdità! Gli americani nascono».

«Be’, ecco, in realtà non è così, Alvin. I bambini nascono. In Inghilterra esattamente come in America. Perciò non è il fatto di nascere a renderli americani».

Alvin ci pensò su qualche istante. «È il fatto di nascere in America».

«Sì, anche questo. Ma una cinquantina d’anni fa, di un bambino nato a Filadelfia non si diceva che era americano. Si diceva che era pennsylvaniano. E i bambini nati a Nuova Amsterdam erano olandesi, e quelli nati a Boston erano yankee, e quelli nati a Charleston erano giacobiani, o realisti, o roba del genere».

«È ancora così» osservò Alvin.

«Sì, certo, ma c’è anche dell’altro. Secondo il vecchio Ben, tutti quei nomi ci dividevano in virginiani, orangisti e gente del Rhode Island, in bianchi, neri e rossi, in quaccheri e papisti, puritani e presbiteriani, in olandesi, svedesi, francesi e inglesi. Il vecchio Ben vedeva che un virginiano non arrivava mai a fidarsi fino in fondo di uno che venisse dal Netticut, e che un Bianco non arrivava mai a fidarsi fino in fondo di un Rosso, perché si sentivano diversi. Così si disse: se abbiamo tutti questi nomi che ci dividono, perché non trovare un nome che ci unisca? Perciò giocherellò con un sacco di nomi che già venivano usati. ‘Coloniali’, per esempio. Ma l’idea non gli piaceva, perché questo nome richiamava in qualche modo l’Europa, e per di più i Rossi non possono certo essere chiamati coloniali, no? E nemmeno i Neri, visto che sono arrivati qui come schiavi. Capito il problema?»

«Voleva trovare un nome che tutti quanti potessimo usare».

«Precisamente. E una cosa in comune ce l’avevamo. Vivevamo tutti nello stesso continente. Il Nordamerica. Allora pensò che avremmo potuto chiamarci nordamericani. Ma era troppo lungo. Perciò…».

«Americani».

«È un nome adatto al pescatore che vive sulla selvaggia costa dell’Anglia Occidentale come al barone schiavista di Dryden. È adatto al capo Mohawk dell’Irrakwa come al mercante olandese di Nuova Amsterdam. Il vecchio Ben sapeva che se tutti quanti avessimo cominciato a pensare a noi stessi come a degli americani, saremmo diventati una nazione. Non soltanto un pezzo di qualche vecchio e stanco paese europeo, ma una nuova nazione unitaria, qui, in una nuova terra. Così cominciò a usare quella parola in tutto ciò che scriveva. L’Almanacco del povero Richard era tutto una chiacchiera sugli americani, gli americani qui e gli americani lì. E il vecchio Ben scrisse a tutti quanti lettere in cui per esempio diceva: ‘I conflitti sui diritti di proprietà della terra sono un problema che gli americani debbono risolvere tutti insieme. L’Europa non può assolutamente capire di che cosa gli americani abbiano bisogno per sopravvivere. Perché gli americani dovrebbero morire per le guerre degli europei? Per quale motivo in tribunale gli americani dovrebbero essere vincolati dai precedenti europei?’. Nel giro di cinque anni non c’era praticamente più nessuno, dalla Nuova Inghilterra alla Jacobia, che non si ritenesse, almeno in parte, americano».

«Era soltanto un nome».

«Ma è il nome con cui chiamiamo noi stessi. E che include chiunque altro in questo continente sia disposto ad accettarlo. Il vecchio Ben lavorò duramente per far sì che questo nome includesse il maggior numero di persone possibile. Senza mai detenere alcuna carica pubblica se non quella di direttore di un ufficio postale, quasi senza sforzo trasformò un nome in una nazione. Col re che conservava il possesso delle colonie meridionali, e gli uomini del Lord Protettore che governavano sulla Nuova Inghilterra a nord, nel futuro non vedeva che caos e guerra, con la Pennsylvania esattamente nel mezzo. Franklin voleva impedire quella guerra, e a questo scopo usò la parola ‘americano’. Fece sì che gli abitanti della Nuova Inghilterra temessero di offendere la Pennsylvania, e che i realisti facessero di tutto per conquistarsi l’appoggio della Pennsylvania. Fu lui a propagandare l’idea di un Congresso Americano che stabilisse le politiche di scambio e leggi fondiarie uguali per tutti.

«E alla fine» continuò Scambiastorie, «poco prima d’invitarmi a raggiungerlo dall’Inghilterra, scrisse il Patto Americano, e convinse le sette colonie originarie a firmarlo. Non fu facile, capisci… persino il numero degli stati fu all’origine di un’infinità di discussioni. Gli olandesi si erano accorti che la maggior parte di coloro che adesso emigravano in America era composta da inglesi, irlandesi e scozzesi, e non avevano nessuna intenzione di farsi travolgere; allora il vecchio Ben permise loro di dividere la Nuova Olanda in tre colonie, in modo che potessero avere un maggior numero di voti in Congresso. Con la scissione del Suskwahenny dalle regioni su cui accampavano diritti tanto la Nuova Svezia quanto la Pennsylvania, venne messa a tacere un’altra polemica».

«Finora hai nominato soltanto sei stati» disse Alvin.

«Il vecchio Ben si rifiutò di far firmare il Patto a chiunque, se non si concedeva all’Irrakwa di entrare nella federazione come settimo stato, con confini ben definiti entro i quali i Rossi si governavano da soli. Molti volevano una nazione esclusivamente bianca, ma il vecchio Ben non cedette d’un pollice. L’unico modo di assicurare la pace, diceva, era che tutti gli americani si unissero con pari diritti. Ecco perché il suo Patto non consente la schiavitù, e nemmeno la servitù della gleba. Ecco perché il suo Patto non permette a nessuna religione di proclamarsi superiore alle altre. Ecco perché il suo Patto non consente allo Stato di chiudere tipografie o d’impedire ai cittadini di esprimere la propria opinione. Bianco, nero e rosso; papista, puritano e presbiteriano; ricco, povero, mendicante e ladro… tutti quanti viviamo sotto le stesse leggi. Una sola nazione, creata a partire da un’unica parola».

«Americano».

«Adesso capisci perché la riteneva la sua più grande impresa?»

«Ma non è il Patto, la cosa più importante?»

«Il Patto è solo una sfilza di parole. ‘Americano’ è l’idea che ha creato le parole».

«Ancora però non comprende gli yankee e i realisti, e non ha nemmeno impedito la guerra, visto che gli Appalachi stanno ancora combattendo contro il re».

«Ma certo che li comprende, Alvin. Ti ricordi la storia di George Washington a Shenandoah? In quei giorni portava il titolo di Lord Potomac, e conduceva il grosso delle truppe di re Roberto contro quella banda di straccioni che era tutto ciò che era rimasto a Ben Arnold. Era evidente che il mattino seguente i realisti di Lord Potomac avrebbero espugnato il piccolo forte, segnando il definitivo fallimento della ribellione dei liberi montanari di Tom Jefferson. Ma Lord Potomac aveva combattuto al fianco di quei montanari contro i francesi. E in quei giorni lontani Tom Jefferson era stato suo amico. In cuor suo non riusciva a sopportare l’idea della battaglia dell’indomani. Chi era re Roberto perché in suo nome si versasse tanto sangue? Quei ribelli chiedevano soltanto di essere padroni delle proprie terre, senza baroni imposti a forza dal re che li dissanguassero a forza di tasse, fino a trasformarli in schiavi esattamente come i neri delle colonie della Corona. Quella notte non riuscì a chiudere occhio».

«Pregava» disse Alvin.

«Così la racconta Thrower» ribatté asciutto Scambiastorie. «Ma nessuno può saperlo. E quando rivolse la parola alle sue truppe, il mattino dopo, non parlò certamente di preghiere. Parlò invece della parola inventata da Ben Franklin. Quella notte aveva scritto una lettera al re, rinunciando al comando e con esso alle sue terre e ai suoi titoli. E quella lettera non l’aveva firmata ‘Lord Potomac’, ma ‘George Washington’. Poi la mattina si alzò, e di fronte ai soldati del re con le loro uniformi azzurre rivelò quel che aveva fatto, e disse loro che erano Liberi di scegliere, tutti quanti, se obbedire ai loro ufficiali e marciare in battaglia, o invece schierarsi in difesa della Dichiarazione d’Indipendenza di Tom Jefferson. ‘Sta a voi scegliere’ disse. ‘Ma per quanto mi riguarda…’».

Alvin quelle parole le sapeva a memoria, come ogni uomo, donna o bambino del continente. Ma adesso avevano acquisito per lui un nuovo significato, e le gridò con quanto fiato aveva in gola: «La mia spada americana non verserà mai una sola goccia di sangue americano!».

«E poi, dopo che la maggior parte dei suoi uomini si era unita ai ribelli degli Appalachi, con fucili e munizioni, carri e provviste, ordinò all’ufficiale di grado superiore tra coloro che erano rimasti fedeli al re di arrestarlo. ‘Ho infranto il mio giuramento verso il re’ disse. ‘È stato in nome di un bene superiore, ma ho pur sempre infranto un giuramento, e pagherò il prezzo del mio tradimento’. E lo pagò, sissignore, lo pagò con una sciabolata sul collo. Ma quanti, al di fuori della corte del re, pensano che sia stato veramente un tradimento?»

«Nessuno» disse Alvin.

«E da allora il re è forse riuscito a combattere una sola battaglia contro gli Appalachi?»

«Nemmeno una».

«Nemmeno un uomo sul campo di battaglia di Shenandoah era cittadino degli Stati Uniti. Nemmeno uno di loro viveva sotto il Patto Americano. Eppure, quando George Washington parlò di spade americane e di sangue americano, capirono che intendeva riferirsi proprio a loro. E adesso dimmi, Alvin Junior, il vecchio Ben si sbagliava forse nel dire che la sua più grande creazione era una parola?»

Alvin avrebbe voluto rispondere, ma in quel preciso istante lui e Scambiastorie si ritrovarono sui gradini della veranda di casa Miller, e prima che potessero arrivare alla porta questa si spalancò, e lui si trovò di fronte la mamma, che lo squadrò da capo a piedi. Dall’espressione del suo viso, Alvin capì di essere davvero nei guai, e ne sapeva il perché.

«Ma io in chiesa ci volevo andare, mamma!»

«Sai quanti defunti avrebbero voluto andare in paradiso» rispose lei, «e non ci sono mai arrivati?»

«È stata colpa mia, comare Faith» intervenne Scambiastorie.

«Sono sicura di no, Scambiastorie».

«Io e il ragazzo ci siamo messi a chiacchierare, comare Faith» insisté Scambiastorie, «e temo di averlo distratto».

«Il ragazzo è nato distratto» replicò Faith, senza mai distogliere lo sguardo dal viso di Alvin. «Ha preso da suo padre. Se non lo selli e gli metti le briglie e lo cavalchi fino in chiesa, non c’è verso che ci arrivi; e se non gl’inchiodi i piedi al pavimento della chiesa, un istante dopo è già fuori. Un ragazzo di dieci anni che odia il Signore è sufficiente a far desiderare a sua madre che non fosse mai nato».

Quelle parole colpirono al cuore Alvin Junior.

«Terribile desiderio, per una madre» disse pacatamente Scambiastorie. La mamma finalmente alzò lo sguardo sul viso del vecchio.

«No, non lo desidero veramente» disse alla fine.

«Mi dispiace, mamma» balbettò Alvin Junior.

«In casa» disse lei. «Sono venuta via di chiesa per cercarti, e adesso non facciamo più in tempo a tornare laggiù prima che finisca il sermone».

«Abbiamo parlato di un sacco di cose, mamma» disse Alvin. «Dei miei sogni, e di Ben Franklin, e…».

«L’unica cosa che voglio sentire da te» lo interruppe la mamma, «sono le note degli inni. Visto che non sei andato in chiesa, adesso te ne starai seduto in cucina insieme a me, e mentre preparo il pranzo mi canterai degli inni».

Così Alvin non poté leggere la frase scritta dal vecchio Ben nel libro di Scambiastorie, almeno per diverse ore. La mamma lo trattenne a cantare e a lavorare fino all’ora di pranzo, e dopo pranzo papà, i ragazzi più grandi e Scambiastorie sedettero a discutere della spedizione dell’indomani, quando sarebbero andati alla cava di granito a tagliare una macina da mulino.

«Lo faccio per voi» disse papà a Scambiastorie. «Quindi mi sembra giusto che veniate».

«Non mi sembra di avervi mai chiesto una macina da mulino».

«Da quando siete qui, non è passato un solo giorno senza che abbiate osservato quale vergogna sia che un mulino così bello venga usato come un volgare fienile, quando la gente della zona ha bisogno di buona farina».

«Che io ne sappia, l’ho detto una volta sola».

«Può anche darsi» ribatté papà, «ma ogni volta che vi vedo, mi viene da pensare a quella macina».

«È perché avreste preferito che la macina fosse al suo posto, quando mi avete atterrato».

«Non lo preferisce affatto!» esclamò Cally. «Perché allora sareste morto!»

Scambiastorie si limitò a sorridere, e papà a restituirgli il sorriso. E continuarono a chiacchierare di questo e di quello. Poi arrivarono le mogli con nipotini e nipotine per la cena domenicale, e Scambiastorie fu costretto a cantare la canzone della risata tante di quelle volte che Alvin pensò si sarebbe messo a urlare, se avesse udito un altro coro di: «Ah, ah, ih!».

Fu soltanto dopo cena, quando i nipotini e le nipotine se ne furono andati, che Scambiastorie si decise a tirare fuori il suo libro.

«Mi chiedevo se lo avreste mai aperto» osservò papà.

«Stavo solo aspettando il momento adatto» disse Scambiastorie. Poi spiegò come in quel libro ciascuno scrivesse l’azione più importante mai vista o compiuta.

«Non vi aspetterete che io ci scriva qualcosa, spero» disse papà.

«Oh, non vi permetterei di scriverci nulla, per lo meno non ancora. La storia della vostra azione più importante non me l’avete ancora neanche raccontata». La voce di Scambiastorie si fece più suadente. «Forse la vostra azione più importante non l’avete ancora compiuta».

A quelle parole papà parve un po’ irritato, o forse un po’ impaurito. A ogni modo si alzò e si avvicinò a Scambiastorie. «Fatemi vedere che cosa ci ha scritto di così maledettamente importante tutta questa gente».

«Oh» disse Scambiastorie. «Sapete leggere?»

«Per vostra norma e regola, prima di sposarmi e mettermi a fare il mugnaio nell’Hampshire Orientale, e molto prima di venire qui, ho ricevuto una educazione yankee nel Massachusetts. Può anche darsi che a uno che ha studiato a Londra come voi non faccia un grande effetto, ma state certo che non potreste scrivere parola che io non sappia leggere, a meno che non sia in latino».

Scambiastorie non rispose. Si limitò ad aprire il libro. Papà lesse la prima frase. «L’unica cosa che io abbia mai veramente creato sono gli americani». Papà alzò lo sguardo su Scambiastorie. «E questo chi l’ha scritto?»

«Il vecchio Ben Franklin».

«Per come l’ho sentita raccontare io, l’unico americano che sia mai riuscito a creare era illegittimo».

«Forse potrà spiegarvelo Al Junior» disse Scambiastorie.

Intanto Alvin si era insinuato pian piano davanti a loro, e adesso fissava la calligrafia del vecchio Ben. Non gli parve molto diversa dalle altre che aveva visto. Alvin provò una certa delusione, anche se non avrebbe saputo dire che cosa si fosse aspettato. Le lettere avrebbero forse dovuto essere d’oro? Certo che no. Non c’era motivo per cui sulla pagina le parole di un grand’uomo dovessero apparire diverse da quelle di uno sciocco.

Eppure non riusciva a superare la frustrazione dovuta al fatto che quelle parole avessero un aspetto così banale. Così allungò la mano e voltò la pagina, voltò molte pagine, facendole scorrere con le dita. Le parole erano tutte uguali, scritte in inchiostro grigio sulla carta ingiallita.

Un lampo di luce scaturì dal libro, accecandolo per un istante.

«Non giocare con le pagine» lo rimproverò papà, «o finirai per strapparle».

Alvin si voltò verso Scambiastorie. «Che cos’è quella pagina con la luce?» chiese. «Che cosa c’è scritto?»

«Luce?» chiese Scambiastorie.

Allora Alvin capì che soltanto lui l’aveva vista.

«Cercala tu stesso» disse Scambiastorie.

«Riuscirà solo a strapparla» commentò papà.

«Ci starà attento» disse Scambiastorie.

Ma papà sembrava arrabbiato. «Ti ho detto di lasciar stare quel libro, Alvin Junior».

Alvin fece per obbedire, ma sentì sulla spalla la mano di Scambiastorie. La voce del vecchio era ferma, e Alvin avvertì le dita muoversi in segno di avvertimento. «Il ragazzo ha visto qualcosa nel libro» disse Scambiastorie, «e voglio che me lo ritrovi».

E, con gran sorpresa di Alvin, papà si ritirò in buon ordine. «Se non vi scoccia farvi strappare il libro da quello sbadato di mio figlio…» borbottò, quindi tacque.

Alvin si avvicinò di nuovo al volume, e con cautela voltò le pagine una alla volta. Finalmente una di esse andò a posto, e ne scaturì una luce che sulle prime lo abbagliò, ma a poco a poco si affievolì finché Alvin non la vide provenire da un’unica frase, le cui lettere parevano ardere.

«Non le vedete bruciare?» chiese Alvin.

«No» disse Scambiastorie. «Ma sento odore di fumo. Tocca il punto che vedi bruciare».

Alvin allungò la mano e toccò cautamente l’inizio della frase. La fiamma, con sua grande sorpresa, non bruciava, anche se ne avvertì il calore. Ne avvertì il calore fino all’osso. Rabbrividì, mentre l’ultimo freddo autunnale abbandonava il suo corpo. Sentendosi dentro tutta quella luce, Alvin sorrise. Ma un istante dopo che lui l’ebbe toccata, la fiamma si affievolì, si raffreddò, scomparve.

«Che cosa dice?» chiese la mamma. Adesso era in piedi dall’altra parte del tavolo. Non era una grande lettrice, e da dov’era vedeva le lettere capovolte.

Scambiastorie le lesse ad alta voce. «È nato un Creatore».

«Su questa terra non esistono più creatori» disse la mamma, «da quando Colui che trasformò l’acqua in vino l’ha lasciata».

«Può darsi, ma questo è ciò che ha scritto» disse Scambiastorie.

«Chi l’ha scritto?» domandò la mamma.

«Uno scricciolo di ragazzina. Circa cinque anni fa».

«E qual era la storia che accompagnava la frase?» chiese Alvin Junior.

Scambiastorie scosse la testa.

«Avete detto che nel libro non ci lasciavate scrivere nessuno che prima non vi avesse raccontato la sua storia».

«L’ha scritto senza che me n’accorgessi» spiegò Scambiastorie. «Me ne sono accorto solo la sera dopo, quand’ero ormai lontano».

«E allora come fate a sapere ch’è stata lei?» chiese Alvin.

«È stata lei» rispose il vecchio. «Era l’unica, laggiù, in grado di schiudere il talismano che in quei giorni tenevo sul libro».

«Così non sapete che cosa significhi? Non sapete nemmeno dirmi perché quelle lettere le ho viste bruciare?»

Scambiastorie scosse il capo. «Se ricordo bene, era la figlia d’un locandiere. Parlava pochissimo, e quando parlava diceva solo ed esclusivamente la verità. Mai una bugia, nemmeno per delicatezza. La consideravano un po’ bisbetica. Ma come dice il proverbio, se uno dice sempre quel che pensa, il malvagio resterà alla larga. O qualcosa del genere».

«E come si chiamava?» chiese la mamma. Alvin alzò lo sguardo, sorpreso. La mamma non aveva visto le lettere ardenti; perché allora sembrava tanto desiderosa di sapere chi le aveva scritte?

«Mi spiace» disse Scambiastorie. «In questo momento non ricordo il suo nome. E anche se me lo ricordassi, non lo direi, né direi niente a proposito del luogo in cui viveva. A qualcuno potrebbe venire in mente di cercarla, per disturbarla chiedendole risposte che lei potrebbe non essere disposta a dare. Ma una cosa posso dirla. Era una fiaccola, e vedeva con sguardo veritiero. Perciò se ha scritto che era nato un Creatore, io le credo, ed ecco perché ho lasciato che le sue parole restassero nel mio libro».

«Un giorno vorrei sentire la sua storia» disse Alvin. «Vorrei sapere perché quelle lettere erano così luminose».

Alzò lo sguardo, e vide che la mamma e Scambiastorie si guardavano dritto negli occhi. Nessuno dei due abbassò lo sguardo.

E poi, proprio ai margini del suo campo visivo, dove riusciva quasi a scorgerlo, ma non del tutto, avvertì la presenza del Distruttore, tremolante, invisibile, bramoso di scrollare il mondo fino a distruggerlo. Senza nemmeno accorgersene, Alvin tirò fuori dai calzoni la parte anteriore della camicia e ne annodò i due lembi. Il Distruttore vacillò e scomparve.

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