Il Messo era comodamente seduto sull’altare, appoggiato con disinvoltura al braccio sinistro in modo che il busto restasse leggermente inclinato. Una posa così disinvolta il reverendo Thrower l’aveva vista assumere una volta a un elegantone di Camelot, un dissoluto libertino che evidentemente disprezzava tutto ciò che le chiese puritane di Scozia e d’Inghilterra stavano a significare. Nel vedere il Messo in un atteggiamento così irriverente, Thrower si sentì non poco a disagio.
«E perché?» chiese il Messo. «Solo perché l’unico modo in cui tu riesci a mantenere il controllo delle tue passioni carnali consiste nel sedere col busto eretto, le ginocchia unite, le mani delicatamente appoggiate in grembo, le dita strettamente intrecciate, non significa affatto che io sia tenuto a fare lo stesso».
Thrower era imbarazzato. «Non è giusto rimproverarmi per i miei pensieri».
«Certo che lo è, quando i tuoi pensieri mi rimproverano per le mie azioni. Guardati dall’hybris, amico mio, guardati dal vano orgoglio. Chi mai può ritenersi tanto virtuoso da poter giudicare le azioni degli angeli?»
Era la prima volta che il Messo si riferiva a se stesso come a un angelo.
«Non mi sono riferito a me stesso come a un bel niente» disse il Messo. «Devi imparare a controllare i tuoi pensieri, Thrower. Salti troppo facilmente alle conclusioni».
«Perché sei qui?»
«È qualcosa che riguarda colui che ha fabbricato questo altare» disse il Messo. E diede un colpetto a una delle croci che Alvin Junior aveva inciso a fuoco nel legno.
«Ho fatto del mio meglio, ma a quel ragazzo non si può insegnare niente. Dubita di tutto e contesta ogni affermazione teologica come se potesse essere sottoposta al vaglio di quei principi di coerenza e non contraddittorietà che prevalgono nel mondo della scienza».
«In altre parole, vorrebbe che le tue dottrine avessero senso logico».
«Non è disposto ad accettare l’idea che certe cose restino un mistero, comprensibile solo alla mente di Dio. L’ambiguità lo rende impudente, e il paradosso causa in lui aperta ribellione».
«Un ragazzo insopportabile».
«Il peggiore che mi sia mai capitato» ammise Thrower.
Lo sguardo del Messo lampeggiò. Thrower avvertì una fitta al cuore.
«Ho tentato» balbettò Thrower. «Ho tentato di rivolgerlo al servizio del Signore. Ma l’influenza del padre…».
«Chi attribuisce il proprio fallimento alla forza altrui è soltanto un debole» disse il Messo.
«Ma ancora non ho fallito!» esclamò Thrower. «Mi avevi detto che avevo tempo finché il ragazzo non avesse compiuto i quattordici…».
«No. Ti ho detto che io avevo tempo finché il ragazzo non avesse compiuto i quattordici anni. Tu invece hai tempo solo finché egli resta qui».
«Non mi risulta che i Miller vogliano trasferirsi altrove. Hanno appena sistemato la macina del mulino, a primavera cominceranno a macinare il grano, non se ne andrebbero senza…».
Il Messo scese dall’altare ergendosi davanti al pastore. «Lascia che io ti ponga questo caso, reverendo Thrower. Puramente ipotetico. Supponiamo che tu sia nella stessa stanza col peggior nemico di tutto ciò che io rappresento. Supponiamo ch’egli sia infermo, e giaccia impotente nel suo letto. Se guarisse, verrebbe condotto fuori dalla tua portata, e avrebbe via libera per distruggere tutto ciò che tu e io più veneriamo. Ma se morisse, la nostra grande causa sarebbe salva. Adesso supponiamo che qualcuno ti metta in mano un coltello, e t’implori di compiere sul ragazzo un delicato intervento chirurgico. E supponiamo che scivolandoti la mano, anche solo di un capello, il coltello recida un’arteria importante. E supponiamo che, indugiando tu anche solo per qualche istante, il sangue esca tanto copiosamente che in pochi istanti egli ne muoia. In questo caso, reverendo Thrower, quale sarebbe il tuo dovere?»
Thrower era inorridito. Per tutta la vita si era preparato a insegnare, persuadere, esortare, spiegare. Mai a compiere un atto come quello che il Messo gli aveva suggerito. «Non sono adatto a questo genere di cose» farfugliò.
«Non sei adatto al regno di Dio?» chiese il Messo.
«Ma il Signore ha detto: ‘Non uccidere’».
«Davvero? È questo ciò che disse a Giosuè indicandogli la via della Terra Promessa? È questo ciò che disse a Saul quando lo inviò contro gli Amaleciti?»
Thrower ripensò a quei foschi passi del Vecchio Testamento, e tremò di paura al pensiero di prender parte a simili imprese.
Ma il Messo non intendeva dargli tregua. «Samuele, giudice d’Israele, ordinò al re Saul di uccidere tutti gli Amaleciti… uomini, donne e fanciulli. Ma Saul non ebbe il coraggio di farlo. Risparmiò il re degli Amaleciti e lo riportò indietro vivo. Che cosa fece allora il Signore per punirlo della sua disobbedienza?»
«Scelse Davide perché regnasse al suo posto» mormorò Thrower.
Ora il Messo era vicinissimo a Thrower e lo trafiggeva col suo sguardo di fuoco. «E poi che cosa fece Samuele, giudice d’Israele, mite servitore di Dio?»
«Ordinò che Agag, re degli Amaleciti, gli venisse condotto dinanzi».
Il Messo continuò a incalzarlo, implacabile. «E Samuele che cosa fece?»
«Lo uccise» sussurrò Thrower.
«Che cosa dice esattamente la Scrittura? Che cosa fece Samuele?» ruggì il Messo. Le pareti della chiesa tremarono, le vetrate tintinnarono.
Thrower adesso piangeva dalla paura, ma pronunciò le parole che il Messo gli aveva richiesto: «Samuele lo fece a pezzi… dinanzi al Signore».
L’unico rumore nella chiesa era il respiro ansimante di Thrower che cercava di controllare il suo pianto isterico. Il Messo gli sorrise con occhi colmi d’amore e d’indulgenza. Un istante dopo era scomparso.
Thrower cadde in ginocchio davanti all’altare e pregò. O Padre, per Te sarei disposto a morire, ma non chiedermi di uccidere. Allontana questo calice dalle mie labbra, sono troppo debole, sono indegno, non caricare questo fardello sulle mie spalle.
Le sue lacrime caddero sull’altare. Nell’udire uno sfrigolio, Thrower fece un balzo indietro, spaventato. Le lacrime correvano rapide sulla superficie dell’altare come gocce d’acqua su una padella arroventata, fino a consumarsi e scomparire.
Il Signore mi ha respinto, pensò. Ho giurato di obbedirgli in tutto ciò che Egli volesse ordinarmi, e adesso che mi chiede qualcosa di difficile, che mi comanda d’essere forte come gli antichi profeti, scopro d’essere un vaso spezzato nelle Sue mani, incapace di contenere il destino ch’Egli voleva riversare in me.
La porta della chiesa si aprì. Una folata d’aria gelida corse sul pavimento inviando un brivido nelle ossa del pastore. Thrower alzò lo sguardo, temendo che si trattasse d’un angelo venuto a punirlo.
Ma non era un angelo. Era semplicemente Corazza-di-Dio Weaver.
«Non intendevo interrompere le vostre preghiere» disse Armor.
«Entrate» lo invitò Thrower. «Chiudete la porta. Che cosa posso fare per voi?»
«Non è per me» disse Armor.
«Venite. Sedetevi. Di che cosa si tratta?»
Thrower si augurò in cuor suo che la venuta di Armor proprio in quel momento potesse essere un segno di Dio. Un membro della congregazione venuto a chiedere il suo aiuto, subito dopo la sua preghiera… sicuramente il Signore voleva fargli capire che dopotutto lo accoglieva presso di Sé.
«È per mio suocero», disse Armor. «O meglio, per suo figlio, Alvin Junior».
Thrower si sentì attraversare da un brivido di terrore che lo gelò fino al midollo. «Lo conosco. Che gli è successo?»
«Saprete certamente che si è fatto male a una gamba».
«Ne ho sentito parlare».
«Non siete per caso andato a fargli visita prima che guarisse?»
«Sono portato a credere che in quella casa non sarei affatto il benvenuto».
«Be’, lasciate che ve lo dica, era proprio messo male. Un intero lembo di pelle strappato via. Ossa rotte. Ma due giorni dopo era già guarito. Non si vedeva neanche più la cicatrice. Tre giorni dopo camminava».
«Non doveva essere messo male come avevate creduto».
«Vi sto dicendo che la gamba era rotta e la ferita era brutta. In famiglia erano ormai convinti che il ragazzo stesse per morire. Mi avevano già chiesto di procurargli i chiodi per la bara. E, da quanto ci pativano, non ero del tutto sicuro che oltre al ragazzo non avremmo dovuto seppellire anche il padre e la madre».
«Allora la guarigione non può essere ancora completa come dite».
«Be’, in effetti proprio completa non è, ed è questo il motivo per cui sono venuto da voi. So che non credete a queste cose, ma vi assicuro che per far guarire quella gamba debbono aver combinato qualche stregoneria. Secondo Elly è stato il ragazzo stesso. Per qualche giorno ci ha addirittura camminato, senza stecche né nulla. Ma non ha mai smesso di fargli male, e adesso lui dice che nell’osso c’è un punto malato. Gli è anche venuta la febbre».
«Tutto questo può trovare una spiegazione assolutamente naturale» insisté Thrower.
«Be’, sarà anche come dite, ma per come la vedo io il ragazzo, con le sue stregonerie, ha fatto entrare il diavolo dentro di sé, e adesso il diavolo se lo sta mangiando vivo. E visto che siete un ministro consacrato al servizio di Dio, ho pensato che forse potreste scacciare quel diavolo in nome del Signore Gesù».
Tutte quelle superstizioni e quel parlare di stregoneria erano soltanto sciocchezze, beninteso, ma quando Armor aveva parlato della possibilità che il diavolo fosse entrato nel ragazzo la cosa parve a Thrower del tutto credibile e in accordo con quanto aveva saputo dal Messo. Forse il Signore non voleva affatto che egli uccidesse il ragazzo, ma che lo esorcizzasse in modo da purificarlo dal male. Era un’opportunità per redimersi dal cedimento di qualche minuto prima.
«Ci andrò» disse afferrando il pesante mantello e gettandoselo sulle spalle.
«Sarà meglio che vi avverta: nessuno di loro mi ha chiesto d’invitarvi in quella casa».
«Sono preparato ad affrontare l’ira degli infedeli» disse Thrower. «È della vittima delle macchinazioni diaboliche che voglio curarmi, non della sua sciocca e superstiziosa famiglia».
Alvin era disteso a letto, e ardeva di febbre. Adesso ch’era giorno, tenevano le imposte chiuse in modo che la luce non gli ferisse gli occhi. Di notte invece era lui stesso a chiedere che le aprissero in modo da far entrare l’aria fredda e poter respirare più liberamente. Nei pochi giorni in cui era stato in grado di camminare, aveva visto i campi coperti di neve. Adesso cercava d’immaginarsi disteso sotto quella gelida coltre per trovare sollievo dal fuoco che gli bruciava dentro.
Il fatto era che non riusciva a vedere abbastanza in piccolo dentro se stesso. Ciò che aveva fatto con l’osso, con le fibre muscolari e gli strati di. pelle, era stato molto più difficile che cercare le incrinature nella pietra, su alla cava. Eppure alla fine era riuscito a farsi strada a tentoni nel labirinto del suo corpo, a trovare le ferite peggiori, ad aiutarle a chiudersi. La maggior parte di ciò che gli succedeva dentro, però, era troppo piccolo e rapido perché lui riuscisse a comprenderlo. Poteva vedere il risultato, ma non riusciva a scorgere i diversi elementi in gioco, a capirne il funzionamento.
Ecco il perché di quel punto malato nell’osso. Si trattava semplicemente d’un pezzo d’osso che si stava indebolendo, decomponendo. Alvin riusciva a percepire la differenza tra il punto malato e la parte sana e robusta, riusciva a percepire i confini del male. Ma non riusciva a vedere quel che stava succedendo. Non riusciva a impedirlo. Stava morendo.
Non era solo nella stanza, lo sapeva. C’era sempre qualcuno seduto al suo fianco. Apriva gli occhi e vedeva la mamma, o papà, o una delle ragazze. Qualche volta addirittura uno dei suoi fratelli, anche se ciò significava che per venire aveva lasciato moglie e fattoria. Per Alvin era un conforto, ma allo stesso tempo un peso. Non poteva fare a meno di pensare che avrebbe fatto meglio a morire prima possibile, in modo che tutti potessero tornare alla loro vita abituale.
Quel pomeriggio, seduto accanto a lui c’era Measure. Quando era entrato, Alvin l’aveva salutato, ma poi non c’era stato molto di cui parlare. Come va? Sto morendo, grazie, e tu? Un po’ difficile continuare a chiacchierare. Measure gli aveva raccontato che lui e i gemelli avevano cercato di tagliare una mola per il mulino. Nonostante avessero scelto una pietra più morbida di quella su cui aveva lavorato Alvin, non erano riusciti a cavare un ragno dal buco. «Alla fine l’abbiamo piantata lì» aveva detto Measure. «Per avere una mola bisognerà aspettare che ti sia rimesso abbastanza in salute da arrivare fin lassù. Sei l’unico che ce la può procurare».
Alvin non aveva risposto, e da quel momento nessuno dei due aveva più detto una parola. Alvin se ne stava lì disteso a sudare e a sentire il marciume nell’osso che lentamente cresceva e si diffondeva. Suo fratello sedeva accanto al letto, e gli stringeva delicatamente una mano.
Measure cominciò a fischiettare.
Quel suono fece sobbalzare Alvin. Era stato così profondamente immerso dentro se stesso che quella musica gli era parsa venire da una distanza immensa, e ci aveva messo un po’ a capire quale ne fosse l’origine.
«Measure» disse, ma il suono della sua voce non era più forte di un sussurro.
La melodia s’interruppe. «Scusa» disse Measure. «Ti dà noia?»
«No».
Measure riprese a fischiettare. Era una strana melodia, che Alvin non ricordava di avere mai udito prima d’allora. A dire il vero non sembrava neanche una melodia. Non si ripeteva mai, ma continuava ad andare avanti con combinazioni di note sempre nuove, come se Measure la inventasse strada facendo. Mentre Alvin se ne stava lì disteso ad ascoltarla, la melodia assunse l’aspetto di un sentiero che avanzava serpeggiando attraverso regioni selvagge, e lui cominciò a seguirlo. Non che vedesse niente, come sarebbe accaduto nel caso di una vera mappa. Semplicemente sembrava che quella melodia volesse mostrargli il centro delle cose, e tutto ciò che pensava, lo pensava come se si fosse trovato proprio là. Gli parve quasi di poter vedere tutto ciò che aveva pensato fino allora, nel tentativo di trovare il modo di aggiustare quel punto malato nel suo osso, solo che adesso vedeva tutto da una certa distanza, come se si fosse trovato più in alto sul pendio d’un monte, o in una radura aperta, insomma un posto da dove riusciva a vedere di più.
D’un tratto gli venne in mente qualcosa a cui prima d’allora non aveva mai pensato. Quando si era rotto la gamba e la pelle si era squarciata, tutti si erano resi conto che era grave, ma nessuno l’aveva potuto aiutare tranne lui stesso. Aveva dovuto aggiustare tutto quanto dall’interno. Adesso, però, nessun altro poteva vedere la ferita che lo stava uccidendo. E anche se lui poteva vederla, non poteva fare assolutamente nulla per farla guarire.
Perciò forse stavolta avrebbe dovuto farsi aiutare da qualcun altro. Senza nessun genere di arti segrete. Con una normalissima, banale, cruenta operazione chirurgica.
«Measure» mormorò.
«Sono qui».
«Forse ho capito come fare a guarire quella gamba» disse Alvin.
Measure si chinò accostando il viso a quello del fratello. Alvin non aprì gli occhi, ma avvertì il suo respiro sulla guancia.
«Quel punto malato nell’osso sta crescendo, ma il male non si è ancora diffuso» disse Alvin. «Io non posso farci niente, ma penso che se qualcun altro mi tagliasse via quel pezzo d’osso e me lo togliesse dalla gamba, io potrei fare il resto».
«Tagliarlo via?»
«La sega da ossa che usa papà quando taglia la carne, penso che quella andrebbe benissimo».
«Ma se non c’è un chirurgo nel giro di trecento miglia».
«Allora credo che qualcuno farà meglio a imparare, e in fretta, perché altrimenti sono morto».
Measure adesso respirava più in fretta. «Pensi che tagliare l’osso ti salverebbe la vita?»
«È la migliore soluzione che sia riuscito a trovare».
«Potresti rovinarti la gamba per sempre».
«Se muoio, non credo che me ne importerà molto. E se vivo, ne sarà valsa la pena».
«Vado a chiamare papà». Measure spinse indietro la sedia e uscì alla svelta dalla stanza.
Thrower lasciò che Armor lo precedesse sulla veranda dei Miller. Gli sembrava difficile che potessero respingere il genero. Le sue preoccupazioni si rivelarono però infondate. Fu comare Faith ad aprire la porta, non quel pagano di suo marito.
«Ebbene, reverendo Thrower, siete molto gentile a venirci a trovare» disse, ma il tono allegro delle sue parole era smentito dal viso stanco e tirato. Negli ultimi tempi non sembrava che in quella casa si fosse dormito molto bene.
«Sono io che l’ho portato, mamma Faith» disse Armor. «È venuto solo perché gliel’ho chiesto».
«Il pastore della nostra chiesa sarà sempre il benvenuto in casa mia tutte le volte che vorrà farvi sosta» asserì Faith.
Così dicendo, li fece entrare nella sala grande. Alcune ragazze sedute in gruppo davanti al camino a tagliare i riquadri di stoffa per una coperta alzarono lo sguardo su di lui. Il figlio più piccolo, Cally, stava facendo esercizio di scrittura su un’assicella con un carboncino preso dal focolare.
«Sono contento di vederti scrivere» disse Thrower.
Cally si limitò a lanciargli un’occhiata da sotto in su. Nel suo sguardo Thrower lesse una vaga ostilità. Evidentemente al ragazzo non piaceva affatto che il maestro venisse a rivedergli i compiti proprio lì, nella casa che fino a quel momento aveva considerato un rifugio inviolabile.
«Sei bravo» lo elogiò Thrower, cercando di metterlo a suo agio. Calvin non rispose, ma riabbassò lo sguardo sulla lavagna improvvisata e riprese a tracciare faticosamente una lettera dopo l’altra.
Armor giunse subito al punto. «Mamma Faith, siamo venuti per via di Alvin. Voi sapete quali siano le mie idee sulla stregoneria, ma prima d’ora non ho mai detto una sola parola contro quello che voialtri fate in questa casa. Ho sempre pensato che fossero affari vostri, e non miei. Ma quel ragazzo sta pagando l’intero prezzo per quanto di riprovevole avete lasciato accadere qui dentro. Di sicuro ha perpetrato qualche stregoneria sulla propria gamba, e adesso dentro di lui c’è un diavolo che lo uccide lentamente, e io ho portato qui il reverendo Thrower perché lo scacci».
Comare Faith parve sconcertata. «In questa casa non ci sono diavoli».
Ah, povera donna, disse silenziosamente Thrower. Se solo tu sapessi da quanto tempo qui risiede Satana. «È possibile abituarsi alla presenza di un diavolo fino a non rendersene più conto» mormorò.
Una porta di fianco alle scale si aprì, e il signor Miller ne uscì camminando all’indietro. «No» disse rivolto a chiunque si trovasse nella stanza. «Se qualcuno deve tagliare la gamba del ragazzo, non sarò certo io».
Udendo la voce del padre, Cally balzò in piedi e corse da lui. «Papà, Armor ha portato qui il vecchio Thrower per ammazzare il diavolo».
Il signor Miller si voltò col viso contorto in un’espressione difficile da interpretare, e guardò i visitatori come se a stento riuscisse a riconoscerli.
«Questa casa è protetta da potenti talismani» affermò comare Faith.
«Quei talismani non sono che un richiamo per il diavolo» la corresse Armor. «Voi credete che proteggano la vostra casa, ma in realtà ne scacciano il Signore».
«In questa casa non sono mai entrati diavoli» insisté Faith.
«Certo non da soli» disse Armor. «Siete stati voi a chiamarli con le vostre arti magiche. Con la stregoneria e l’idolatria avete costretto lo Spirito Santo ad abbandonare la vostra casa, e una volta scacciato il bene, è naturale che i diavoli facciano il loro ingresso. Non appena scorgono un’occasione per far danno, subito si precipitano».
Thrower cominciò a temere che Armor stesse parlando troppo di cose che in realtà non capiva affatto. Sarebbe stato molto meglio che si fosse limitato a chiedere se Thrower poteva pregare al capezzale di Alvin. Adesso invece Armor delimitava il terreno per uno scontro che non sarebbe mai dovuto avvenire.
E qualsiasi cosa stesse accadendo nella testa del signor Miller, era evidente che quello non era il momento migliore per provocarlo. Miller avanzò lentamente verso Armor. «Stai forse affermando che chi entra a far danno in casa altrui può essere soltanto un servo di Satana?»
«Vi offro la mia testimonianza come quella di colui che ama il Signore Gesù…» cominciò a dire Armor, ma prima che potesse procedere oltre con la sua testimonianza, Miller lo aveva agguantato per la spalla del soprabito e la cintura dei pantaloni, e lo aveva costretto a girarsi verso la porta.
«Sarà meglio che qualcuno apra la porta!» ruggì Miller. «O tra un istante là nel mezzo ci sarà soltanto un buco!»
«Che cosa crederesti di fare, Alvin Miller?» urlò sua moglie.
«Scacciare i diavoli!» esclamò Miller. Nel frattempo Cally aveva spalancato la porta, e Miller, accompagnato il genero fin sulla veranda, lo scaraventò di sotto. Il grido oltraggiato di Armor venne soffocato dalla neve, dopo di che non fu più possibile udire granché perché Miller aveva chiuso e sbarrato la porta.
«Una bella azione davvero» disse comare Faith. «Cacciare fuori tuo genero in questo modo».
«Non ho fatto altro che la volontà del Signore» ribatté Miller. Quindi rivolse lo sguardo sul pastore.
«Armor non stava parlando per me» disse pacatamente Thrower.
«Se osi mettere le mani addosso a un uomo che indossa l’abito talare» intervenne comare Faith, «dormirai in un letto freddo per il resto dei tuoi giorni».
«Lungi da me l’idea di toccarlo» disse Miller. «Ma a mio modo di vedere, se io me ne sto alla larga da lui, anche lui farebbe meglio a starsene alla larga da me».
«Può darsi che voi non crediate al potere della preghiera» disse Thrower.
«Penso che dipenda da chi è colui che prega, e da chi è colui che ascolta» lo rimbeccò Miller.
«Eppure» proseguì Thrower, «vostra moglie crede nella religione di Gesù Cristo, alla quale sono stato chiamato e nella quale sono stato ordinato pastore. È sua e mia convinzione che se io pregassi al capezzale di vostro figlio, ciò potrebbe lenirne le sofferenze e promuoverne la guarigione».
«Se vi esprimete così anche nelle vostre preghiere» disse Miller, «c’è da stupirsi che il Signore riesca a capire quel che dite».
«Anche se non credete che le preghiere possano aiutarlo» proseguì Thrower, «certamente non potranno fargli male, non vi sembra?»
Miller guardò Thrower, quindi sua moglie, infine di nuovo Thrower. Quest’ultimo non dubitava che se Faith non fosse stata presente, anche lui si sarebbe trovato a mangiar neve a fianco di Corazza-di-Dio. Ma Faith era presente, e aveva già pronunciato la minaccia di Lisistrata. Un uomo con quattordici figli non può non provare una certa attrazione per la moglie. «Fate pure» cedette infine Miller, «ma non infastidite il ragazzo troppo a lungo».
Thrower annuì benignamente. «Non ci starò più di qualche ora».
«Minuti!» insisté Miller. Ma Thrower si era già diretto verso la porta di fianco alle scale, e Miller non provò a fermarlo. Se voleva trascorrere qualche ora col ragazzo, erano affari suoi.
Thrower si chiuse la porta alle spalle. Non era certo il caso che quei pagani s’intromettessero.
«Alvin» disse.
Il ragazzo era disteso sotto le coperte, la fronte imperlata di sudore. Aveva gli occhi chiusi. Poco dopo, tuttavia, le sue labbra si schiusero. «Reverendo Thrower» sussurrò.
«Proprio io. Alvin, sono venuto a pregare per te, affinché il Signore liberi il tuo corpo dal diavolo che ti ha fatto ammalare».
Di nuovo una pausa, come se fosse necessario un certo tempo affinché le parole di Thrower raggiungessero Alvin e questi potesse rispondergli. «Non è un diavolo».
«Non si può certo aspettarsi che un bambino come te sia addentro alle cose della religione» replicò Thrower. «Ma è mio dovere avvisarti che la guarigione premia soltanto coloro che hanno fede sufficiente». Dedicò quindi qualche minuto a narrare l’episodio della figlia del centurione e quello della donna che soffriva di perdite di sangue e si era limitata a toccare la veste del Salvatore. «Ricorderai le parole di Gesù. ‘La tua fede ti ha salvata’, le disse. Perciò, Alvin Miller, bisogna che la tua fede sia grande prima che il Signore possa salvarti».
Il ragazzo non rispose. Poiché, nel narrare i due episodi, Thrower non aveva risparmiato la sua notevole eloquenza, provò un certa irritazione all’idea che il ragazzo potesse essersi addormentato. Così allungò la mano e cacciò un dito ossuto sotto l’omero di Alvin.
Il ragazzo si ritrasse di scatto. «Vi ho sentito» bofonchiò.
Non era buon segno che dopo aver udito la parola illuminante del Signore il ragazzo potesse ancora mostrarsi così scontroso. «Be’?» chiese Thrower. «Allora, credi o no?»
«In che cosa?» mormorò il ragazzo.
«Nel Vangelo! Nel Signore che ti guarirebbe, se soltanto tu volessi ammorbidire il tuo cuore!»
«Credo» sussurrò Alvin. «In Dio».
Questo sarebbe dovuto bastargli. Ma Thrower conosceva troppa storia delle religioni per accontentarsi. Professare la propria fede in una divinità non era sufficiente. Di divinità ce n’erano tante, e tutte false tranne una. «In quale Dio credi, Alvin Junior?»
«Dio» ripeté il ragazzo.
«Perfino il miscredente saraceno prega verso la pietra nera della Mecca attribuendole il nome di Dio! Credi o no nel vero Dio, e credi in Lui nella maniera giusta? No, capisco, sei troppo debole e febbricitante per spiegare in che cosa consista la tua fede. Ti aiuterò, giovane Alvin. Ti rivolgerò delle domande, e tu mi risponderai soltanto sì o no, a seconda che tu ci creda o meno».
Alvin giacque immobile, in attesa.
«Alvin Miller, credi tu in un Dio privo di corpo, di parti e di passioni? Nel grande Creatore increato, il cui centro si trova ovunque, ma del quale è impossibile trovare la circonferenza?»
Il ragazzo parve meditare la questione per qualche tempo prima di rispondere. «Mi sembra che non abbia nessun senso» disse.
«Per una mente terrena è logico che non abbia senso» disse Thrower. «Ti ho chiesto soltanto se credi in Colui che siede sul Trono senza Vetta; in un Essere increato così immenso da riempire l’universo eppure così penetrante da risiedere nel tuo cuore».
«Come può sedere su qualcosa che non ha vetta?» chiese il ragazzo. «Come può qualcosa di così immenso trovare posto nel mio cuore?»
Evidentemente il ragazzo era troppo ingenuo e ignorante per afferrare quei raffinati paradossi teologici. Eppure qui non erano in gioco soltanto una vita o un’anima… ma tutte le anime che secondo il Messo quel ragazzo avrebbe condotto alla rovina se non fosse stato convertito alla vera fede. «È proprio questa la Sua bellezza» disse Thrower, lasciando che la voce gli si riempisse d’emozione. «Dio è oltre le nostre facoltà di comprensione; eppure, nel Suo infinito amore, ha acconsentito a salvarci nonostante la nostra ignoranza e la nostra stupidità».
«L’amore non è forse una passione?»
«Se ti trovi in difficoltà di fronte all’idea di Dio» riprese Thrower, «lascia allora che ti rivolga un’altra domanda, che potrebbe essere più appropriata. Credi tu nell’abisso senza fondo dell’inferno, in cui i malvagi si contorcono tra le fiamme senza mai bruciare? Credi tu in Satana, l’eterno nemico di Dio, che cerca di rapirti l’anima e trascinarti prigioniero nel suo regno, per tormentarti per tutta l’eternità?»
Il ragazzo parve rianimarsi un poco, e volse la testa verso Thrower, anche se aveva ancora gli occhi chiusi. «In qualcosa del genere potrei anche crederci» disse.
Ecco, pensò Thrower, allora è vero. Il ragazzo, del diavolo ne sa veramente qualcosa. «L’hai mai visto, figliolo?»
«Com’è fatto il vostro diavolo?» sussurrò Alvin.
«Non è il mio diavolo» disse Thrower. «E se tu avessi ascoltato le mie prediche, lo sapresti, perché l’ho descritto più di una volta. Mentre gli uomini sulla testa hanno i capelli, il diavolo ha corna di toro. Al posto delle mani, il diavolo ha enormi zampe di orso. Al posto dei piedi ha zoccoli fessi di caprone, e la sua voce è il ruggito di un leone affamato».
Con grande meraviglia di Thrower, le labbra del ragazzo s’incurvarono e il suo petto venne scosso da un riso silenzioso. «E saremmo noi i superstiziosi» mormorò.
Se non avesse visto il ragazzo ridere di gusto alla mostruosa descrizione di Lucifero, Thrower non avrebbe mai creduto che il diavolo potesse esercitare una simile presa sull’anima di un fanciullo. Quelle risa dovevano cessare! Erano un’offesa a Dio!
Thrower sbatté la Bibbia sul petto del ragazzo, mozzandogli per un attimo il respiro. Quindi, con la mano premuta sul libro, Thrower si sentì colmare da parole ispirate, e con maggior passione di quanta ne avesse mai provata in vita sua esclamò: «Satana, in nome del Signore io ti scaccio! Ti ordino di uscire da questo fanciullo, da questa stanza, da questa casa, per sempre! Non osare mai più d’impossessarti di un’anima tra queste mura, o la potenza divina si scatenerà devastante e implacabile fin negli ultimi recessi dell’inferno!».
Poi scese il silenzio. Eccetto per il respiro del ragazzo, che sembrava affannoso. Nella stanza vi era una tale pace, nel cuore di Thrower una tale esausta rettitudine, che il pastore fu certo che il diavolo avesse dato ascolto alla sua perorazione e fosse immediatamente fuggito.
«Reverendo Thrower» mormorò Alvin.
«Sì, figliolo?»
«Adesso potreste togliermi la Bibbia dal petto? Se lì dentro c’erano dei diavoli, penso proprio che se ne siano andati».
Poi il ragazzo cominciò a ridere, facendo sobbalzare il volume sotto la mano di Thrower.
In quel momento l’esultanza di Thrower si mutò in amara delusione. Il fatto stesso che il ragazzo potesse abbandonarsi a quella diabolica risata con la Bibbia ancora posata sul suo corpo, era prova sicura che niente e nessuno avrebbe potuto purificarlo dal male. Il Messo aveva ragione. Thrower non avrebbe mai dovuto rifiutare la nobile impresa che era stato chiamato a compiere. Gli era stata offerta l’occasione di uccidere la Bestia dell’Apocalisse, ed era stato troppo debole, troppo sentimentale, per accettare il richiamo divino. Avrei potuto essere un Samuele, capace di fare a pezzi il nemico di Dio. Invece sono un Saul, un pavido, che non riesce a uccidere chi per volontà del Signore deve morire. Adesso dovrò vedere questo ragazzo elevarsi grazie al potere di Satana, e saprò ch’egli prospera solo a causa della mia debolezza.
Il caldo nella stanza era soffocante. Solo allora Thrower si accorse di avere gli abiti inzuppati di sudore. Non riusciva a respirare. Ma che avrebbe dovuto aspettarsi? In quella stanza spirava il fiato rovente dell’inferno. Rantolando, prese la Bibbia, la sollevò come uno scudo tra sé e il fanciullo satanico che giaceva ridacchiando febbrilmente sotto la coperta, e fuggì.
Nella sala grande si fermò, respirando affannosamente. Aveva interrotto una conversazione, ma non se ne curò. Cosa contava la conversazione di quella gente ignorante in confronto all’esperienza appena vissuta? Sono stato al cospetto del beniamino di Satana in sembianza di fanciullo; ma il modo in cui mi ha schernito lo ha smascherato. Avrei dovuto capirlo anni or sono, quando gli ho toccato la testa e ne ho rilevato il perfetto equilibrio. Solo un falso può essere così perfetto. Quel ragazzo non è mai stato reale. Ah, se avessi la forza dei grandi profeti di un tempo, così da poter confondere il mio nemico e riportarne le spoglie al cospetto del Signore degli Eserciti!
Qualcuno lo stava tirando per la manica. «Tutto bene, reverendo?». Era comare Faith, ma il reverendo Thrower non sapeva come risponderle. Nel tirarlo, tuttavia, Faith lo costrinse a fare un mezzo giro su se stesso, così che Thrower si trovò a guardare il camino. Là, sulla mensola, vide un’immagine incisa a fuoco su una tavoletta di legno e, sconvolto com’era, sulle prime non riuscì a capire di che cosa si trattasse. Sembrava il viso di un’anima dannata circondata da un groviglio di tentacoli. Fiamme, ecco che cosa sono, pensò, e quella è un’anima che annega nello zolfo ardente, che brucia tra le fiamme dell’inferno. Quell’immagine lo angosciava e al tempo stesso lo gratificava, perché la sua presenza in quella casa era un chiaro segno degli stretti legami intercorrenti fra la famiglia Miller e le potenze infernali. Thrower si trovava in mezzo ai suoi più acerrimi nemici. Gli tornò in mente una frase del salmista: «I tori di Bashan mi fissano, e io riesco a scorgere le mie ossa una per una». Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
«Su, su» lo esortò comare Faith. «Mettetevi a sedere».
«Come sta il ragazzo?» chiese Miller.
«Il ragazzo?» chiese Thrower. Quasi non riusciva a spiccicar parola. Quel ragazzo è un demonio di Sheol, e voi mi chiedete come sta? «Come c’era da aspettarsi» si limitò a mormorare.
Gli altri si voltarono per riprendere la conversazione. Gradualmente Thrower si rese conto di che cosa stessero parlando. A quanto pareva, Alvin avrebbe voluto che qualcuno gli segasse via la parte malata dell’osso. Measure era perfino andato nel capanno dove si macellavano le bestie a prendere una sega da ossa a denti fini. La discussione era tra Measure e Faith — che non aveva la minima intenzione di far operare suo figlio da chicchessia — e tra Miller e gli altri due, perché Miller si rifiutava di farlo, e Faith era disposta a dare il proprio consenso solo se a tagliare fosse stato lui.
«Se pensi che si debba fare» disse Faith, «allora non vedo come tu possa permettere che a operarlo sia uno sconosciuto, un estraneo».
«Non ci penso nemmeno» ribatté Miller.
Thrower capì all’improvviso che l’uomo aveva paura. Paura di affondare un coltello nelle carni del figlio.
«È lui che vuole te, papà. Ha detto che segnerà sulla gamba i punti dove bisogna tagliare. Non devi far altro che tagliare un lembo di pelle e sollevarlo; subito sotto la pelle c’è l’osso, e per eliminare la parte malata basterà segarne via appena uno spicchio».
«Non sono tipo da svenimenti» disse Faith, «ma confesso che mi gira un po’ la testa»…
«Se Al Junior dice che bisogna farlo, allora fatelo!» esclamò Miller. «Ma non posso farlo io!»
Poi, come un raggio accecante di luce in una stanza buia, il reverendo Thrower scorse la propria redenzione. Evidentemente il Signore gli stava offrendo proprio l’opportunità profetizzata dal Messo. L’occasione di avere un coltello in mano, di affondarlo nelle carni del ragazzo, e accidentalmente recidere l’arteria così da farlo morire dissanguato. Ciò che aveva ricusato di fare in chiesa pensando ad Alvin come a un ragazzo qualsiasi, adesso che aveva visto il Male celato sotto le sembianze d’un fanciullo l’avrebbe fatto col cuore colmo di letizia.
«Ci sono io» disse.
Tutti lo guardarono.
«Non sono un chirurgo» continuò, «ma ho qualche conoscenza di anatomia, e so qualcosa di scienza».
«Un esperto di bernoccoli» commentò Miller.
«Avete mai macellato un vitello o un maiale?» chiese Measure.
«Measure!» si scandalizzò sua madre. «Tuo fratello non è un animale».
«Voglio soltanto esser sicuro che alla vista del sangue non si metta a vomitare».
«Conosco il sangue» rispose Thrower. «E quando si tratta di salvare una vita, non posso permettermi di avere paura».
«Oh, reverendo Thrower, vi stiamo chiedendo troppo» mormorò comare Faith.
«Adesso vedo che forse è stata proprio un’ispirazione divina a condurmi qui, dopo essere stato tanto a lungo lontano da questa casa».
«A condurvi qui è stato solo quello scriteriato di mio genero» bofonchiò Miller.
«Be’» disse Thrower, «è stato solo un pensiero che mi ha attraversato la mente. Vedo bene che non volete affidarmi questo compito, e non posso darvi torto. Anche se significa salvare la vita di un figlio, è pur sempre rischioso permettere a un estraneo di affondare una lama nelle carni di un consanguineo».
«Ma voi non siete un estraneo» insisté Faith.
«E se qualcosa andasse storto? Il coltello potrebbe sfuggirmi di mano. Oppure la ferita potrebbe aver cambiato la disposizione dei vasi sanguigni. Potrei recidere un’arteria, e in pochi istanti il ragazzo morirebbe dissanguato. E io avrei sulle mani il sangue di vostro figlio».
«Reverendo Thrower» disse Faith, «non potremmo mai incolparvi d’un imprevisto. Non possiamo far altro che tentare».
«Se non tentiamo qualcosa morirà, questo è certo» intervenne Measure. «Alvin dice che dobbiamo tagliare subito, prima che il male si diffonda».
«Potrebbe farlo uno dei vostri figli più grandi» propose Thrower.
«Non c’è tempo di andarli a chiamare!» esclamò Faith. «Oh, Alvin, è proprio a lui che hai deciso di dare il tuo nome. Sei forse deciso a lasciarlo morire solo perché non vai d’accordo col pastore?»
Miller scosse miseramente la testa. «Fatelo, allora».
«Il pastore preferirebbe che lo facessi tu, papà» disse Measure.
«No!» esclamò Miller con veemenza. «Chiunque altro, ma non io. Prima che lo faccia io, è meglio che lo faccia lui».
Nell’espressione di Measure, Thrower scorse la delusione, se non addirittura il disprezzo. Il pastore si alzò e si avvicinò a Measure, che sedeva stringendo in mano il coltello e la sega da ossa. «Giovanotto» disse, «non affrettarti a tacciare gli altri di vigliaccheria, giacché non puoi sapere quali motivi si celino nel loro cuore».
Voltandosi verso Miller, Thrower colse sul viso dell’uomo un’espressione di sorpresa e gratitudine. «Dagli il coltello e la sega» ordinò Miller.
Measure gli porse gli strumenti. Thrower tirò fuori un fazzoletto perché Measure ve li collocasse sopra.
Era stato tutto così facile. In pochi istanti aveva fatto in modo che tutti lo implorassero di prendere il coltello, assolvendolo in anticipo di qualsiasi possibile incidente. Si era perfino guadagnato un primo barlume d’amicizia da parte di Alvin Miller. Ah, sono riuscito a ingannarvi tutti quanti, pensò trionfante. Sono un degno avversario di Satana, vostro padrone. Ho ingannato il grande ingannatore, e nel giro di un’ora avrò rispedito all’inferno la sua corrotta progenie.
«Chi reggerà il ragazzo?» chiese Thrower. «Anche sotto l’effetto del vino, il dolore lo indurrà a contorcersi, se nessuno lo regge».
«Lo farò io» disse Measure.
«Il vino non lo vuole» spiegò Faith. «Dice che deve restare lucido».
«Ha solo dieci anni» disse Thrower. «Se insistete perché lo beva, dovrà obbedirvi per forza».
Faith scosse la testa. «Meglio lasciarlo fare. Sopporta il dolore meglio di un adulto. Una cosa da non credersi».
Ci credo eccome, disse Thrower dentro di sé. Il demonio che è in lui sicuramente gode della sofferenza e non vuole che l’alcol ne diminuisca l’estasi. «Benissimo allora. Non c’è motivo d’indugiare oltre». Precedette gli altri in camera da letto, e senza esitare sollevò la coperta che copriva il corpo di Alvin. Il ragazzo cominciò immediatamente a tremare per il freddo improvviso, pur continuando a sudare per la febbre. «Dite che ha segnato il punto dove debbo tagliare?»
«Al» disse Measure. «Sarà il reverendo Thrower a operarti».
«Papà» disse Alvin.
«Gliel’abbiamo chiesto, ma non è servito a niente» disse Measure. «Non vuole e basta».
«Sei sicuro di non volere un po’ di vino?» chiese Faith.
Alvin si mise a piangere. «No. Basta che papà sia qui a tenermi».
«D’accordo» si arrese Faith. «Passi che non sia lui a tagliare, ma adesso dovrà scegliere se stare col ragazzo o finire su per il camino». E uscì come una furia dalla stanza.
«Avete detto che sarebbe stato il ragazzo a segnare il punto» ripeté Thrower.
«Vieni, Al, adesso ti tiro su. Ti ho portato un pezzo di carbone. Adesso tu segna sulla gamba il punto esatto dove dobbiamo tagliare».
Alvin gemette mentre Measure lo metteva a sedere, ma fu con mano ferma che tracciò un grande rettangolo un po’ sopra la caviglia. «Tagliate partendo dal basso, lasciando attaccata la parte di sopra» disse con voce lenta e impastata, ogni parola uno sforzo evidente. «Measure, mentre lui taglia, tu solleva la pelle».
«Questo dovrà farlo la mamma» disse Measure. «Io debbo reggerti in modo che tu non faccia movimenti improvvisi».
«Non ne farò» disse Alvin. «Purché a reggermi sia papà».
Miller entrò lentamente nella stanza, immediatamente seguito dalla moglie. «Sì, ti reggerò io» disse. Preso il posto di Measure, si mise a sedere dietro il ragazzo in modo da stringerlo tra le braccia. «Ti reggerò io» ripeté.
«Benissimo, allora» disse Thrower. E rimase lì in piedi, in attesa del passo successivo.
L’attesa si prolungò.
«Non avete dimenticato qualcosa, reverendo?» chiese Measure.
«Che cosa?»
«Il coltello e la sega».
Thrower guardò il fazzoletto ripiegato che teneva nella sinistra. Vuoto. «Che strano, li avevo proprio qui».
«Li avete appoggiati sulla tavola prima d’entrare» disse Measure.
«Vado a prenderli» intervenne comare Faith, affrettandosi fuori della stanza.
Gli altri l’attesero a lungo. Finalmente Measure si alzò. «Non capisco che cosa la trattenga».
Thrower lo seguì fuori della porta. Trovarono comare Faith nella sala grande, che, seduta insieme alle figlie, cuciva i riquadri di stoffa di una coperta.
«Mamma» disse Measure. «Non eri venuta a prendere la sega e il coltello?»
«Santo cielo» esclamò Faith. «Non capisco che mi sia preso. Mi ero completamente scordata perché fossi venuta qui». Presi la sega e il coltello, rientrò a passo deciso nella stanza di Alvin; Measure guardò Thrower, quindi la seguì con un’alzata di spalle. Ora, pensò Thrower. Ora farò tutto ciò che il Signore mi ha chiesto di fare. Il Messo testimonierà che sono un servo fedele del Salvatore, e questo mi assicurerà un posto in paradiso. Non come questo povero, miserabile peccatore, avvolto dalle fiamme dell’inferno.
«Reverendo» lo riscosse Measure, «che cosa state facendo?»
«Questo disegno» disse Thrower.
«Ebbene?»
Thrower guardò da vicino il disegno sulla mensola del camino. Non rappresentava affatto un’anima dannata, bensì il primogenito dei Miller, Vigor, travolto dalle acque del fiume. Aveva udito quella storia almeno una dozzina di volte. Ma perché se ne stava lì a guardarlo quando nell’altra stanza lo attendeva una grande, terribile missione?
«Siete sicuro di star bene?»
«Sto benissimo» mormorò. «Avevo solo bisogno di un attimo di raccoglimento e di preghiera prima di affrontare il compito che mi attende».
Quindi rientrò senza esitare nella stanza e prese posto a sedere sulla sedia accanto al letto nel quale giaceva tremante la progenie di Satana, in attesa del coltello. Si guardò intorno in cerca degli strumenti della sua santa missione. Ma non riuscì a vederli. «Dov’è il coltello?» chiese.
Faith guardò Measure. «Non li avevi presi tu?»
«Sei tu che li hai portati dentro» replicò Measure.
«Ma quando sei tornato fuori a chiamare il pastore, li hai ripresi» insisté lei.
«Davvero?». Measure parve confuso. «Debbo averli posati là fuori». Si alzò e uscì dalla stanza.
Thrower cominciò a rendersi conto che stava accadendo qualcosa di strano, anche se non riusciva a capire esattamente che cosa. Si alzò e si affacciò sulla soglia in attesa del ritorno di Measure.
Fuori della porta c’era Cally, con la lavagna in mano. «Volete ammazzare mio fratello?» chiese alzando lo sguardo sul pastore.
«Una cosa del genere non devi nemmeno pensarla» rispose Thrower.
Measure gli porse gli strumenti con aria imbarazzata. «Non so come, li avevo messi sulla mensola del camino». Poi il giovane scostò Thrower e rientrò nella stanza.
Un istante dopo il pastore lo seguì e riprese il proprio posto di fronte alla gamba scoperta, col rettangolo disegnato in nero.
«Be’, dove li avete messi?» chiese Faith.
Thrower si rese conto di non avere più né la sega né il coltello. Era totalmente confuso. Measure glieli aveva dati proprio fuori della soglia. Come aveva fatto a perderli?
Cally era ritto sulla soglia. «Perché mi avete dato questa roba?» chiese. In mano aveva gli attrezzi scomparsi.
«Domanda intelligente» disse Measure, osservando il pastore con la fronte aggrottata. «Perché glieli avete dati?»
«Non sono stato io a darglieli» scattò Thrower. «Devi essere stato tu».
«Ma se ve li ho messi in mano» replicò Measure.
«È stato il pastore a darmeli» disse Cally.
«Va bene, ma adesso portali qui» intervenne sua madre.
Obbediente, Cally fece il suo ingresso nella stanza, brandendo sega e coltello come trofei di guerra. Come l’avanguardia di un grande esercito all’attacco. Sì, un grande esercito, come quello degli israeliti condotto da Giosuè alla conquista della Terra Promessa. Era così che reggevano le armi, alte sopra la testa, mentre marciavano attorno alle mura di Gerico. E continuarono a marciare per sette giorni. E il settimo giorno si fermarono e diedero fiato alle trombe e lanciarono un immenso grido, e le mura vennero giù, e loro tennero le spade e i coltelli alti sopra la testa e si avventarono sulla città, facendo a pezzi uomini donne fanciulli, tutti nemici di Dio, così che la Terra Promessa fosse purificata dalla loro immonda presenza, pronta ad accogliere il popolo del Signore. Al termine della giornata erano tutti coperti di sangue, e Giosuè era ritto in mezzo a loro, grande profeta di Dio, con una spada insanguinata sopra la testa, e urlava. Che cosa urlava?
Non riesco a ricordare che cosa urlasse. Se solo riuscissi a ricordare che cosa urlava, capirei perché me ne sto qui in mezzo alla strada fiancheggiata dagli alberi carichi di neve.
Il reverendo Thrower si guardò le mani, poi guardò gli alberi. Senza rendersene conto, s’era allontanato dalla casa di un buon mezzo miglio. Non aveva indosso nemmeno il suo pesante mantello.
Poi la verità gli balzò agli occhi. Non era affatto riuscito a ingannare il diavolo. In un batter d’occhio Satana lo aveva trasportato fin lì per impedirgli di uccidere la Bestia. Aveva mancato la sua unica opportunità di raggiungere la grandezza. Si appoggiò a un tronco freddo e nero e pianse amaramente.
Cally entrò nella stanza reggendo coltello e sega alti sopra la testa. Measure si stava preparando a stringere la gamba con tutte le sue forze, quando a un tratto il vecchio Thrower si alzò e uscì dalla stanza con la stessa premura di uno a cui scappi improvvisamente un bisogno.
«Reverendo Thrower!» esclamò la mamma. «Dove andate?»
Ma Measure aveva capito. «Lascialo andare, mamma» disse.
Udirono la porta di casa aprirsi e i passi pesanti del pastore sulle assi della veranda.
«Cally, va’ a chiudere la porta d’ingresso» disse Measure.
Per una volta, Cally obbedì senza piantar grane. La mamma guardò Measure, poi papà, poi di nuovo Measure. «Non capisco proprio perché se ne sia andato in questo modo» mormorò.
Measure le rivolse un mezzo sorrisetto, quindi guardò papà. «Tu lo sai, vero papà?»
«Forse» disse Miller.
E allora Measure lo spiegò anche a sua madre. «Quelle lame e quel pastore non possono stare in questa stanza con Al Junior».
«E perché mai? Era lui che doveva operarlo!»
«Be’, adesso puoi star sicura che non lo farà» disse Measure.
La sega e il coltello riposavano sulla coperta.
«Papà» disse Measure.
«No».
«Mamma».
«Non posso» disse Faith.
«Be’» concluse Measure, «allora penso proprio di essermi appena laureato chirurgo». Guardò Alvin.
Il viso del ragazzo era soffuso d’un pallore mortale, ancor più impressionante del rossore della febbre. Ma riuscì ad abbozzare una specie di sorriso, e sussurrò: «Penso anch’io».
«Mamma, quel lembo di pelle dovrai reggerlo tu».
Faith annuì.
Measure prese il coltello e ne posò la lama sulla linea di base del rettangolo.
«Measure» sussurrò Al Junior.
«Sì, Alvin?» chiese Measure.
«Per sopportare il dolore e restare immobile, ho bisogno che tu ti metta a fischiare».
«E come faccio a restare intonato se intanto debbo tagliare?»
«Non importa se stoni».
Measure lo guardò negli occhi e capì di non avere altra scelta se non fare ciò che gli era stato chiesto. In fin dei conti la gamba era di Alvin, e se voleva un chirurgo fischiettante erano affari suoi. Trasse un respiro profondo e cominciò a fischiettare, ma senza seguire una melodia precisa, solo una serie di note. Posò di nuovo il coltello sulla linea nera e cominciò a tagliare. All’inizio con delicatezza, perché aveva sentito Al inspirare bruscamente.
«Continua a fischiare» sussurrò Alvin. «Fino all’osso».
Measure riprese a fischiettare, e stavolta tagliò in fretta e a fondo. Fino all’osso al centro della linea. Una profonda incisione sui due lati. Poi inserì il coltello sotto gli angoli per sollevare la pelle e il muscolo. All’inizio il sangue uscì copiosamente, ma ben presto l’emorragia si arrestò. Measure immaginò che per fermare il sangue in quel modo Alvin avesse fatto qualcosa dentro di sé.
«Faith» disse papà.
La mamma allungò il braccio, prese il lembo sanguinante di pelle e lo sollevò. Al protese una mano tremante e disegnò un triangolo sull’osso striato di rosso della sua stessa gamba. Measure depose il coltello e prese la sega. Nel tagliare, la lama produceva un rumore sgradevole e stridente. Ma Measure continuò a fischiettare e a segare, a segare e a fischiettare. E ben presto si ritrovò in mano un cuneo d’osso. Apparentemente non aveva niente di speciale.
«Sei sicuro che fosse il punto giusto?» chiese.
Alvin annuì lentamente.
«L’ho tolto tutto?»
Al sedette immobile per qualche istante, poi annuì di nuovo.
«Vuoi che la mamma ti ricucia la ferita?» chiese ancora Measure.
Alvin non rispose.
«È svenuto» disse papà.
Il sangue ricominciò a scorrere, ma appena appena, filtrando lentamente nella ferita. La mamma aveva ago e filo infilati nel puntaspilli che portava appeso al collo. Un attimo dopo aveva rimesso a posto il lembo di pelle e lo stava ricucendo con punti fitti e precisi.
«Tu continua a fischiare, Measure» disse.
Così Measure continuò a fischiettare mentre lei continuava a cucire, finché la ferita non fu chiusa e bendata. Alvin, nuovamente disteso sul letto, dormiva come un neonato. Tutti e tre si alzarono per andare via. Papà posò delicatamente una mano sulla fronte del ragazzo.
«Mi sembra che non abbia più la febbre» disse.
Mentre uscivano pian piano dalla stanza, la melodia di Measure si fece decisamente allegra.