CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Il frangiflutti di marea del Tamigi, che i buontemponi del posto avevano soprannominato "Mausoleo del Re Canuto", faceva molta più impressione visto da cento metri di altezza che non mentre si scendeva in picchiata con la navetta. L’aeromobile si abbassò, girando in cerchio. La montagna di sintocemento, illuminata dai riflettori che fendevano l’oscurità brumosa della notte, creando l’illusione che fosse di marmo, si stendeva in entrambe le direzioni a perdita d’occhio.

A distanza di un chilometro l’una dall’altra si innalzavano torri di guardia occupate da tecnici e ingegneri incaricati della manutenzione delle chiuse e delle stazioni di pompaggio, perché se il mare avesse rotto gli argini avrebbe raso al suolo la città più di quanto avrebbe potuto fare un esercito.

Ma in quella notte estiva il mare era calmo, punteggiato dalle luci rosse delle navi in navigazione e in lontananza dai lampi intermittenti delle imbarcazioni in movimento. Un debole chiarore si intravedeva ad est, una falsa alba creata dalle luci delle città europee al di là del canale. Dirimpetto alla muraglia bianca, verso l’antica Londra, i rifiuti, la sporcizia e i detriti erano nascosti dall’oscurità, lasciando solo la brillante illusione di qualcosa di magico, inviolato e immortale.

Miles premette il volto contro il tettuccio a bolla dell’aeromobile per un’ultima veduta strategica dell’arena nella quale stavano per entrare, prima che il veicolo si abbassasse verso il parcheggio quasi vuoto che c’era dietro il frangiflutti. La sezione Sei era periferica rispetto alle sezioni principali del canale, con le loro enormi chiuse di navigazione in funzione ventiquattr’ore su ventiquattro; comprendeva solo argini e stazioni di pompaggio, che a quell’ora erano quasi deserte. Miles ne fu contento: se la situazione si fosse trasformata in uno scontro a fuoco, meno civili di passaggio c’erano e tanto meglio era. Scale e passerelle, scuri accenti geometrici su quel biancore, conducevano agli ingressi delle strutture; ringhiere sottili segnavano i passaggi pedonali sopraelevati, alcuni larghi ed evidentemente per il pubblico, altri stretti riservati senza dubbio al personale autorizzato. In quel momento erano tutti deserti, non c’era traccia di Galen o di Mark. E nessun segno di Ivan.

«Che significato può avere quell’ora, le 02.07?» si chiese Miles ad alta voce. «Ho la sensazione che dovrebbe essere ovvio; è un’ora così precisa.»

Elli scosse il capo, ma il soldato dendarii che guidava l’aeromobile suggerì: «È l’ora dell’alta marea, signore.»

«Ah!» esclamò Miles, appoggiandosi allo schienale e riflettendo furiosamente. «Molto interessante, ci suggerisce due cose: hanno nascosto Ivan qui da qualche parte… e faremmo meglio a concentrare le nostre ricerche al di sotto della linea di marea. Potrebbero averlo incatenato a qualche corrimano giù sulle rocce o qualcosa del genere?»

«La pattuglia aerea potrebbe effettuare un passaggio a bassa quota e controllare» disse Quinn.

«Sì, dai l’ordine.»

L’aeromobile atterrò in un cerchio dipinto sull’asfalto.

Quinn e il secondo soldato uscirono per primi, con prudenza e rapidamente controllarono con i sensori l’area circostante. «C’è qualcuno che si avvicina a piedi» disse il soldato.

«Pregate che si tratti del capitano Galeni» mormorò Miles lanciando un’occhiata al suo cronometro: mancavano sette minuti allo scadere del tempo limite.

Ma si trattava di un uomo che faceva jogging, accompagnato dal suo cane. Cane e padrone fissarono ad occhi spalancati i quattro dendarii in uniforme e poi fecero un largo giro, rasentando l’estremità opposta del parcheggio prima di sparire tra i cespugli che delimitavano la parte nord. Allontanarono la mano dagli storditori. Che città civile, pensò Miles; su Vorbarr Sultana non si potrebbe fare jogging a quest’ora di notte, a meno di non avere qualcosa di molto più grosso di un cane, come accompagnatore.

Il soldato controllò il rilevatore ad infrarossi. «Ecco che ne arriva un altro.»

Non il rumore soffocato di scarpe da ginnastica, questa volta, ma il rapido ticchettio di stivali, che Miles riconobbe ancor prima di distinguere il volto tra le chiazze di luce e ombra. Galeni entrò nella zona più illuminata del parcheggio, camminando in fretta e il colore della sua uniforme passò dal grigio al verde.

«Bene» disse Miles rivolto ad Elli, «ci dividiamo qui. Restate indietro e tenetevi fuori vista ad ogni costo, ma se riuscite a trovare un’occasione favorevole… bene. Il comunicatore da polso è aperto?»

Elli lo inserì. Miles trasse il coltello dallo stivale e con la punta disinserì il minuscolo indicatore luminoso di trasmissione del suo comunicatore, e poi vi soffiò dentro. Il sibilo uscì dal polso di Elli. «Trasmette perfettamente» confermò lei.

«Hai il tuo rilevatore medico?»

Lei glielo mostrò.

«Prendi il mio parametro.»

Elli puntò il rilevatore su di lui, lo mosse avanti e indietro e affermò: «Registrato e pronto per il confronto immediato.»

«Ti viene in mente qualcosa d’altro?»

La donna scosse il capo, ma aveva l’aria ancora perplessa. «E cosa faccio se torna lui e tu no?»

«Prendilo, somministragli del penta-rapido… hai il kit per gli interrogatori?»

Lei aprì la giacca, dalla cui tasca interna sporgeva una piccola scatola marrone.

«Salva Ivan, se puoi. E a quel punto» Miles trasse un profondo respiro, «stacca pure la testa al clone o ammazzalo come preferisci.»

«E dove è andato a finire "mio fratello nel bene o nel male"?» chiese Elli.

Galeni, sopraggìunto in tempo per sentire quell’ultimo scambio, piegò la testa di lato, molto curioso di udire la risposta, ma Miles si limitò a scuotere il capo. Non riusciva a pensare ad un risposta semplice.

«Restano tre minuti» disse a Galeni, «è meglio che ci muoviamo.»

Si diressero verso un marciapiede che portava ad una rampa di scale, scavalcando la catena che di notte impediva l’accesso ai cittadini rispettosi della legge. Salendo lungo il muro posteriore del frangiflutti, la scala portava alla passeggiata pedonale che correva sulla cima e che consentiva al pubblico la vista dell’oceano di giorno. Galeni, che aveva evidentemente camminato di buon passo per arrivare, cominciò a sbuffare ancor prima di essere in cima.

«Ha avuto problemi per uscire dall’ambasciata,» gli chiese Miles.

«Affatto» rispose il capitano. «Come lei ben sa, il problema è rientrare. Lei stesso ha sperimentato, che per uscire la maniera più semplice è la migliore. Non ho fatto altro che passare da un’uscita laterale e avviarmi alla stazione della metropolitana. Per fortuna, il soldato di guardia non aveva l’ordine di bloccarmi.»

«E questo lo sapeva quando è arrivato alla porta?»

«No.»

«Allora Destang sa che se n’è andato.»

«Lo saprà certamente.»

«Crede di essere stato seguito?» chiese Miles lanciando un’involontaria occhiata dietro di sé. Vide il parcheggio e l’aeromobile, ma Elli e i due soldati erano scomparsi, senza dubbio alla ricerca di un punto favorevole.

«Non subito. La Sicurezza dell’ambasciata è un tantino a corto di uomini, al momento» rispose Galeni con un sorriso. «Ho lasciato il mio comunicatore da polso, e il biglietto della metropolitana l’ho pagato in contanti, non con la carta di credito, quindi non hanno la possibilità di rintracciarmi in fretta.»

Arrivarono in cima con il fiato corto. L’aria umida, fredda contro il viso di Miles, sapeva di fiume e di sale: un sentore di marcio e di decomposizione comune a tutti gli estuari. Attraversò la passeggiata e si sporse dalla ringhiera per guardare l’imponente muro di sintocemento della diga. Circa venti metri più in basso correva uno stretto cornicione, che verso destra scompariva dietro l’enorme sporgenza del frangiflutti. A quel cornicione si accedeva per mezzo di scale estendibili disposte ad intervalli regolari, ora ripiegate e chiuse a chiave per la notte. Potevano provare a infrangere il pannello di controllo di una delle scale e a decodificare la chiusura (un lavoro lungo e che di certo avrebbe fatto scattare l’allarme sulla consolle di qualche supervisore del turno di notte in una delle lontane torri) oppure scendere per la via più rapida.

Miles emise un sospiro: la discesa a corda doppia lungo una superficie priva di appigli non era mai stata una delle sue attività preferite. Prese dalla tasca dell’uniforme la spoletta di corda d’acciaio, fissò con molta cura gli uncini a gravità alla ringhiera e ne controllò attentamente la tenuta. Sfiorò un pulsante e dai lati della spoletta uscirono due maniglie, dalle quali si dipanò l’imbracatura a nastro che sembrava sempre terribilmente fragile, nonostante l’incredibile resistenza di cui era dotata. Miles se la infilò, la legò stretta, scavalcò la ringhiera e scese a grandi balzi lungo la muraglia senza mai guardare in basso. Quando raggiunse il fondo, il tasso di adrenalina in circolo nel suo corpo era discretamente alto.

Sfilò l’imbracatura e lasciò che la spoletta si riavvolgesse automaticamente tornando verso l’alto, dove attendeva Galeni, che ripeté la performance di Miles. Una volta sceso, il capitano restituì la spoletta a Miles, senza esprimere il suo pensiero su quello che stavano facendo; neppure Miles fece commenti, ma si limitò a schiacciare il pulsante che sganciava gli uncini, a riavvolgere la spoletta e a rimetterla in tasca.

«Andiamo a destra» disse con un cenno del capo estraendo lo storditore. «Cosa si è portato?»

«Ho potuto prendere solo uno storditore» rispose Galeni estraendolo dalla tasca e controllando la carica. «E lei?»

«Ne ho due, più qualche altro gingillo. Ci sono limitazioni molto severe per quello che riguarda gli oggetti che possono passare il controllo di sicurezza dello spazioporto.»

«Considerando l’affollamento del luogo, direi che sono saggi» commentò Galeni.

Miles in testa, avanzarono lungo il cornicione, con le anni in pugno. Il mare mulinava e gorgogliava a pochi centimetri dai loro piedi, una luminescenza verde marrone sormontata da strisce di schiuma bianca che luccicavano alla luce dei riflettori sullo sfondo dell’oscurità. A giudicare dalla linea di muffa verdastra che c’era sul cornicione, questo con l’alta marea doveva trovarsi sott’acqua.

Miles fece cenno a Galeni di fermarsi e avanzò da solo. Appena dopo la curva, il cornicione si allargava in una piazzola di circa quattro metri e terminava lì, con la ringhiera che si incassava nella parete. Nel muro c’era un portello stagno di forma ovale.

Davanti al portello c’erano Galen e Mark, con gli storditori in mano. Mark indossava maglietta nera, pantaloni grigi e stivali dell’uniforme dendarii, senza la giacca con le tasche… erano i suoi vestiti trafugati, si chiese Miles, o delle copie? Un impeto di rabbia lo invase quando notò il pugnale di suo nonno nel fodero di pelle di lucertola allacciato alla vita del clone.

«Stallo» commentò in tono discorsivo Galen, con un’occhiata allo storditore di Miles e al suo. «Se spariamo insieme, possiamo restare in piedi io o il mio Miles, e vinco io. Ma se per qualche miracolo riuscisse a colpirci entrambi, non potremmo dirle dove si trova quel citrullo di suo cugino, che morirebbe prima che lei riuscisse a trovarlo. Non ho neppure bisogno di tornare da lui per eseguire la sentenza: al contrario, la cosa è automatica. La sua graziosa guardia del corpo può anche unirsi a noi.»

«Ci sono situazioni di stallo più strane di altre» disse Galeni comparendo da dietro la curva.

Il gelido scherno dipinto sul volto di Galen si trasformò in profonda costernazione, ma subito la bocca riassunse la sua espressione dura, mentre la mano si stringeva sull’impugnatura dello storditore. «Doveva portare con lei la donna» sibilò.

«È qua intorno» rispose Miles con un sorrisino. «Ma lei aveva detto due e noi siamo due. Quindi le parti interessate sono tutte presenti. E ora che succede?»

Lo sguardo di Galen si spostò, valutando distanze, probabilità, muscoli; Miles stava facendo lo stesso.

«La situazione di stallo resta» disse poi Galen. «Se venite storditi entrambi, perdete. Se veniamo storditi noi, perdete di nuovo. È assurdo.»

«E allora cosa suggerisce?» chiese Miles.

«Propongo di posare le nostre armi al centro della piattaforma, così potremo parlare senza preoccupazioni inutili.»

Ne ha un’altra nascosta, proprio come me, pensò Miles. «Una proposta interessante. E chi di noi sarà l’ultimo a posare la sua?»

Galen aprì la bocca per parlare, poi la richiuse e scosse il capo.

«Anch’io preferirei parlare senza distrazioni» confermò Miles, guardingo, «quindi propongo quest’ordine: io sarò il primo a posare la mia arma, poi M… il clone, poi lei e da ultimo il capitano Galeni.»

«Che garanzia…» esclamò Galen lanciando un’occhiata a suo figlio. La tensione tra i due si fece insopportabile, uno strano miscuglio di rabbia, disperazione e angoscia.

«Le darà la sua parola» disse Miles, guardando Galeni, che confermò con un cenno del capo.

Seguì un silenzio di qualche secondo e poi Galen disse: «Va bene.»

Miles fece un passo avanti, si chinò, posò lo storditore al centro della piattaforma e indietreggiò. Mark ripeté gli stessi gesti, continuando a tenere lo sguardo fisso su di lui. Galen esitò per un lungo e angoscioso istante, mentre i suoi occhi non cessavano di calcolare probabilità e gesti, poi posò la sua arma con le altre. Galeni lo seguì senza esitazione, le labbra atteggiate a un sorriso che pareva un fendente di spada, lo sguardo imperscrutabile, da cui traspariva solo il sordo dolore che vi era comparso fin da quando suo padre era resuscitato.

«Faccia lei per primo la sua proposta» disse allora Galen a Miles, «se ne ha una.»

«La vita» rispose subito Miles. «In un posto che io solo conosco e che se mi stordirete non scoprirete mai in tempo, ho nascosto una nota di credito in contanti al portatore per centomila crediti betani… vale a dire mezzo milione di marchi imperiali. Posso darli a lei, con l’aggiunta di utili informazioni su come eludere la sicurezza barrayarana, che, tra parentesi, è già sulle vostre tracce…»

Il clone pareva molto interessato: aveva spalancato gli occhi a sentir menzionare la cifra e li spalancò ancor di più sentendo nominare la sicurezza barrayarana.

«… in cambio di mio cugino» Miles prese fiato, «mio fratello e la sua promessa di ritirarsi e di astenersi da futuri complotti contro l’Impero Barrayarano, che non porterebbero altro che inutili spargimenti di sangue e angoscia immeritata ai suoi pochi parenti sopravvissuti. La guerra è finita, Ser Galen; è arrivato il momento che qualcun altro provi un sistema diverso, forse migliore… ma che di certo non potrebbe essere peggiore del suo.»

«La rivoluzione non deve morire» sussurrò Galen come se parlasse a se stesso.

«Anche se muoiono tutti quelli che vi sono impegnati? "Non ha funzionato, quindi riproviamoci" Nel mio mestiere questa viene definita idiozia militare. Non so come la definiscano i civili.»

«La mia sorella maggiore una volta si arrese sulla parola di un barrayarano» commentò Galen gelido. «Anche l’ammiraglio Vorkosigan aveva fatto promesse di pace, con belle parole.»

«La parola di mio padre fu tradita da un suo sottoposto» disse Miles, «che non aveva saputo capire che la guerra era finita e che era giunto il momento di smettere. Questo errore lo ha pagato con la vita, venne condannato a morte per il suo crimine. E con quel gesto mio padre la vendicò; non poteva darle altro, perché non aveva il potere di riportare in vita i morti. E non posso farlo neppure io; posso solo cercare di impedire altre morti inutili.»

«E tu, David» disse Galen con un sorriso acido, «qual è il prezzo che mi offriresti per tradire Komarr? Cosa aggiungi al denaro del tuo padrone barrayarano?»

Galeni ascoltava con uno strano sorriso affettato sulle labbra, osservandosi le unghie. Le passò sulla stoffa dei pantaloni, incrociò le braccia e ammiccò. «Nipoti?»

Per un attimo, ma per un attimo solo, Galen parve colto alla sprovvista. «Non sei neppure fidanzato!»

«Potrei esserlo, un giorno. Solo se resto vivo, naturalmente.»

«E sarebbero tutti bravi sudditi imperiali» lo schernì Galen ritrovando con difficoltà il suo equilibrio.

Galeni scrollò le spalle. «Direi che si inserisce perfettamente nell’offerta di Vorkosigan. Non posso darti altro di quello che vuoi da me.»

«Voi due siete molto più simili di quanto pensiate» mormorò Miles. «Allora, qual è la sua proposta, Ser Galen? Perché ci ha fatti venire tutti qui?»

Galen spostò la mano destra verso la tasca con un movimento rapido, ma subito rallentò, piegò il capo di lato, come se chiedesse il permesso, con un sorriso disarmante sulle labbra. Ecco che arriva il secondo storditore, pensò Miles. Ma fingendo fino all’ultimo istante che non si tratti di un’arma. Non trasalì, ma automaticamente il suo cervello eseguì una serie di calcoli sulla velocità con cui avrebbe potuto scavalcare la ringhiera e sulla distanza che avrebbe potuto percorrere sott’acqua, senza respirare. Con gli stivali. Freddo e impassibile come sempre, neppure Galeni si mosse.

Neanche quando l’arma che comparve all’improvviso nella mano di Galen si rivelò per un mortale distruttore neuronico.

«Alcune situazioni di stallo» disse Galen, «sono più uguali di altre.» Il suo sorriso gelido divenne una parodia di se stesso. «Raccogli quegli storditori» ordinò al clone, che si chinò, li prese e se li ficcò tutti nella cintura.

«E adesso cosa ha intenzione di fare, con quello?» chiese Miles in tono tranquillo, cercando di non farsi ipnotizzare né paralizzate dalla vista di quella canna argentata.

«Uccidervi» spiegò Galeni. Poi il suo sguardo si posò sul figlio, se ne distolse, vi tornò ancora e ancora se ne distolse. Alla fine si fissò su Miles, come per rafforzare quella suprema decisione.

E allora perché continui a parlare invece di sparare? Miles non pronunciò ad alta voce quella domanda, per evitare che Galen ne riconoscesse la validità. Fallo parlare, vuole parlare, non può farne a meno. «Perché? Non vedo che utilità possa avere per Komarr, a questo punto, se non forse per dare pace ai suoi sentimenti. Pura e semplice vendetta?»

«Non pura e semplice: totale. Il mio Miles se ne andrà di qui come il solo Miles.»

«Oh, avanti! Non penserà ancora di poter tirare avanti quella farsa della sostituzione!» Miles non ebbe bisogno di ricorrere alla sua abilità di attore per assumere un tono oltraggiato, gli venne naturalissimo. «La Sicurezza Barrayarana ne è già al corrente, lo scoprirebbero subito. Non può farlo.» Guardò il clone. «E tu lasci che ti metta la testa sul ceppo? Sei morto nell’istante stesso in cui compari. È inutile. E non è necessario.»

Il clone parve molto a disagio, ma raddrizzò il mento e riuscì ad esibire un sorriso orgoglioso. «Non sarò Lord Vorkosigan, sarò l’ammiraglio Naismith. L’ho già fatto una volta, quindi so di potercela fare. I tuoi dendarii ci daranno un passaggio fuori di qui… e una nuova base di potere.»

«Argh!» Miles fece il gesto di strapparsi i capelli. «Credi davvero che sarei venuto qui se lo avessi ritenuto anche solo lontanamente possibile? Anche i dendarii sono al corrente. Tutte le pattuglie in giro in questo momento, e farete meglio a credere che ho delle pattuglie in giro, sono dotate di rilevatori medici. Al primo ordine che darai, faranno un controllo e se trovano un osso normale dove dovrebbe essercene uno sintetico, ti faranno saltare la testa. Fine del complotto.»

«Ma le ossa delle mie gambe sono sintetiche» disse il clone in tono perplesso.

Miles si sentì gelare. «Cosa? Mi avevi detto che le tue ossa non si rompevano…»

«Quando glielo hai detto…» esclamò Galen voltandosi di scatto verso il clone.

«Certo che non si rompevano» rispose il clone a Miles, «ma dopo che le tue sono state sostituite, le hanno sostituite anche a me. Altrimenti al primo esame medico anche superficiale, sarebbe venuto fuori tutto.»

«Però non hai i segni delle vecchie fratture nelle altre ossa…?»

«No, ma questo richiederebbe un esame molto più approfondito. E una volta eliminati quei tre, dovrei essere in grado di evitarlo. Studierò i tuoi diari…»

«Quali tre?»

«I tre dendarii che sanno che sei Vorkosigan.»

«La sua graziosa guardia del corpo e l’altra coppia» spiegò Galen in tono vendicativo, vedendo l’espressione inorridita di Miles. «Mi spiace che non l’abbia portata con sé; adesso ci toccherà darle la caccia.»

Era forse un’espressione di imbarazzo quella che comparve per un istante sul volto di Mark? Anche Galen la colse e aggrottò la fronte.

«Anche così, non riusciresti mai a farla franca» ribatté Miles. «Ci sono cinquemila dendarii e io ne conosco centinaia di vista e altrettanti li chiamo per nome. Abbiamo combattuto insieme, so di loro cose che neppure le loro madri sanno, e che non ci sono in nessun diario. E mi hanno visto in tutti gli stati d’animo e sotto ogni genere di pressione. Non sapresti neppure le battute giuste da dire. E anche se per un po’ riuscissi a farti passare per l’ammiraglio Naismith, come una volta volevi diventare imperatore… dove sarebbe Mark, allora? Forse Mark non vuole diventare un mercenario, forse preferisce essere un disegnatore di moda. O un dottore…»

«Oh, no, un dottore no» sussurrò il clone gettando uno sguardo al suo corpo storpio.

«…o un ideatore di programmi olovideo, o un pilota spaziale o un ingegnere. O essere molto, molto lontano da lui» terminò Miles con un cenno del capo in direzione di Galen e per un attimo gli occhi del clone si riempirono di desiderio e di nostalgia, subito repressi. «Come potrai mai scoprirlo?»

«Ha ragione» intervenne Galen, socchiudendo gli occhi e rivolgendosi a Mark, «devi poter passare per un soldato esperto. E tu non hai mai ucciso.»

Il clone si mosse, a disagio, gettando un’occhiata in tralice al suo mentore.

«Devi imparare ad uccidere, se vuoi sopravvivere» proseguì Galen con voce fattasi improvvisamente dolce.

«No, non è necessario» si intromise Miles. «La maggior parte della gente trascorre tutta la sua vita senza aver mai ucciso nessuno. Questa è un’argomentazione falsa.»

La canna del distruttore neuronico si spostò verso Miles. «Lei parla troppo.» Lo sguardo di Galen si posò di nuovo sul figlio, che ascoltava in silenzio; Galeni alzò il mento in segno di sfida e ricambiò lo sguardo, ma lo distolse subito, come se non potesse sopportare quella vista.

«È ora di andare. Tieni» ordinò Galen in tono deciso e duro, porgendo al clone il distruttore neuronico. «È arrivato il momento di completare la tua educazione. Sparagli e andiamocene.»

«E che ne sarà di Ivan?» chiese il capitano Galeni a bassa voce.

«Il nipote di Vorkosigan mi serve ancor meno di suo figlio» rispose Galen. «Possono andarsene all’inferno mano nella mano.» Si rivolse al clone e ordinò di nuovo. «Avanti!»

Mark deglutì e alzò l’arma tenendola con due mani. «Ma… e la nota di credito?»

«Non c’è nessuna nota di credito. Non sai capire quando ti raccontano una frottola, sciocco?»

Miles sollevò il comunicatore da polso e parlò con voce chiara. «Elli, hai sentito tutto?»

«Registrato e trasmesso al capitano Thorne, al Dipartimento Investigazioni» rispose tutta allegra la sua voce. «Vuoi compagnia?»

«Non ancora.» Riabbassò la mano, raddrizzò la schiena e sostenne senza battere ciglio lo sguardo furente di Galen. «Come ho detto: fine del complotto. Discutiamo delle alternative.»

Mark aveva abbassato il distruttore, sconvolto e sconcertato.

«Alternative? Solo vendetta!» sibilò Galen. «Spara!»

«Ma…» esclamò il clone, stordito.

«Da questo momento sei un uomo libero» disse Miles a voce bassa e rapida. «Lui ti ha comprato e ha pagato, ma non ti possiede. Ma se ucciderai per lui, gli apparterrai per sempre. Per sempre.»

Non necessariamente, diceva la smorfia silenziosa sulle labbra di Galeni, ma il capitano non si intromise.

«Devi uccidere i tuoi nemici» ringhiò Galen.

Mark sollevò le braccia per prendere la mira, poi le riabbassò, aprendo la bocca per protestare.

«Adesso, maledizione!» urlò Galen, e fece per riprendersi il distruttore neuronico.

Galeni si pose di fronte a Miles il quale frugò nella giacca per prendere il suo storditore. Il distruttore neuronico crepitò. Miles estrasse l’arma, troppo tardi, — pensò — troppo tardi, maledizione… il capitano Galeni emise un rauco urlo… (È morto a causa della mia lentezza, la mia unica e ultima occasione, sciupata per la mia stupidità…) la bocca contorta in un grido silenzioso. Miles balzò davanti a Galeni, e puntò lo storditore…

Ma in quel momento vide Galen crollare, e il suo corpo contorcersi in uno spasimo che gli spezzò la spina dorsale, prima di accasciarsi a terra, morto.

«Uccidi i tuoi nemici!» sibilò Mark, con il volto bianco come il gesso. «Giusto! Aha!» aggiunse risollevando l’arma quando vide Miles fare un passo avanti. «Fermo dove sei!»

Miles sentì qualcosa sibilare ai suoi piedi… abbassò lo sguardo e vide uno sbuffo di schiuma lambirgli gli stivali e scomparire, seguito quasi subito da un altro. La marea stava salendo oltre il cornicione. La marea stava salendo…

«Dov’è Ivan?» domandò, stringendo la mano sull’impugnatura dello storditore.

«Se mi spari non lo saprai mai» disse Mark spostando nervosamente lo sguardo da Miles, a Galeni, al corpo di Galen disteso ai suoi piedi, all’arma che aveva in mano, come se tutti quei fattori avessero dato una somma orribilmente sbagliata. Aveva il respiro corto e affannoso e le nocche delle dita aggrappate all’impugnatura dell’arma erano bianche come la neve. Immobile, il capo chino, Galeni guardava ciò che aveva davanti… o dentro di sé; sembrava che non si accorgesse affatto dell’arma e di chi la brandiva.

«Va bene» disse Miles, «aiutaci e noi ti aiuteremo. Portaci da Ivan.»

Mark indietreggiò verso la parete, senza abbassare l’arma. «Non ti credo.»

«Dove pensi di poter fuggire? Non puoi tornare dai komarrani. Hai una squadra speciale barrayarana alle costole che ha l’unico pensiero di farti fuori. Non puoi chiedere protezione alle autorità locali: dovresti spiegare la presenza del cadavere. Io sono la tua unica possibilità.»

Miles guardò il corpo, il distruttore neuronico, Miles.

Il debole ronzio della spoletta che si svolgeva si udì appena al di sopra del rumoreggiare della schiuma dell’oceano. Miles sollevò lo sguardo. Quinn stava scendendo in un unico lungo volo, come un falco in picchiata, con un arma in una mano e l’altra che controllava la corda di caduta.

Con un calcio Mark aprì il portello e vi entrò a ritroso, barcollando. «Cercatelo tu Ivan. Non è lontano. Non sono io che devo spiegare la presenza di un cadavere… ma tu. Sull’arma del delitto ci sono le tue impronte!» Gettò a terra il distruttore e chiuse il portello con un colpo secco.

Miles balzò verso la porta, graffiandola con le dita, ma era già sigillata… per poco non ci rimise qualche altro osso delle mani. Il rumore del meccanismo a tenuta stagna, progettato per resistere alla furia dell’oceano in tempesta, gli arrivò attutito dall’altra parte del portello. Miles emise un sibilo frustrato.

«Devo farlo saltare?» chiese Quinn ansante, mentre atterrava.

«S…, no!» Il colore verdastro che segnava il punto di alta marea si trovava due metri buoni sopra la cima del portello. «Potremmo annegare tutta Londra. Cerca invece di aprirlo senza danneggiarlo. Capitano Galeni.» chiamò Miles. Poi si voltò: il capitano non si era mosso. «È in stato di shock?»

«Hmm? No… no, non credo.» Galeni tornò in sé con uno sforzo e aggiunse con voce stranamente pacata e pensosa: «Più tardi, forse.»

Quinn era china davanti al portello stagno, intenta ad estrarre aggeggi dalle tasche della giacca e a piazzarli sulla superficie della porta, effettuando delle letture. «Elettromeccanico, con un comando manuale d’emergenza… se uso un…»

Miles le si avvicinò e le tolse l’imbracatura, porgendola a Galeni. «Vada su» gli disse, «e veda se riesce a trovare un altro ingresso dall’altra parte. Dobbiamo prendere quell’imbroglione!»

Galeni accennò di sì e si infilò l’imbracatura.

Miles gli tese lo storditore e il coltello. «Vuole un’arma?» Mark se n’era andato con tutte le armi.

«Lo storditore è inutile» commentò Galeni. «E il coltello è meglio che lo tenga lei. Se lo acchiappo, userò le mani nude.»

E con piacere aggiunse tra sé Miles, annuendo. Entrambi avevano frequentato la scuola di combattimento a mani nude dell’esercito barrayarano. I tre quarti delle mosse erano precluse a Miles in un combattimento vero, a causa della debolezza delle sue ossa, ma questo non si applicava a Galeni. Il capitano prese a salire nell’oscurità della notte, rimbalzando sulla parete appeso a quel filo invisibile con la stessa agilità di un ragno.

«Ce l’ho fatta!» esclamò Quinn, mentre lo spesso portello si apriva rivelando un’apertura buia come la pece.

Sganciando la torcia elettrica dalla cintura, Miles balzò dentro. Guardò ancora una volta il volto grigio di Galen, il suo corpo rigido lambito dalla schiuma, finalmente libero dall’ossessione e dal dolore; non era possibile confondere l’immobilità della morte con quella del sonno o di qualunque altra cosa, perché questa era assoluta. Il raggio del distruttore neuronico doveva averlo colpito in pieno alla testa. Quinn richiuse il portello alle loro spalle e poi si fermò per riporre nella tasche tutti i suoi aggeggi mentre il meccanismo della porta lampeggiava, si spostava e si chiudeva con un secco clang, riparando di nuovo il basso Tamigi dal pericolo del mare.

Si avviarono lungo il corridoio e dopo appena cinque metri arrivarono alla prima biforcazione: il corridoio principale era illuminato e curvava in entrambe le direzioni, sparendo alla vista.

«Tu vai a sinistra, io a destra» disse Miles.

«Non dovresti essere solo» obbiettò Quinn.

«Forse dovrei avere un gemello, eh? Muoviti, maledizione!»

Quinn alzò le braccia al cielo, esasperata e si mise a correre.

Miles si avviò di corsa nell’altra direzione e il suono dei suoi passi creò un’eco magica in quel corridoio sprofondato nella montagna. Continuò a correre per centinaia di metri in quel cunicolo di sintocemento, oltrepassando stazioni di pompaggio buie e vuote, altre illuminate che ronzavano in sordina. Stava giusto cominciando a chiedersi se per caso non avesse mancato qualche uscita, magari un portello sul soffitto, quando scorse un oggetto sul pavimento: era uno degli storditori, caduto dalla cintura di Mark durante la sua fuga in preda al panico. Miles lo raccolse con una smorfia soddisfatta delle labbra e se lo mise alla cintura, riprendendo a correre.

Aprì il comunicatore da polso. «Quinn?» Di colpo il corridoio si allargò in una specie di anticamera spoglia con un tunnel di risalita; doveva trovarsi sotto una delle torri di guardia. Doveva fare attenzione al personale autorizzato che poteva essere in giro. «Quinn?»

Si infilò nel tunnel e prese a salire. A che livello era uscito Mark? Il terzo piano si apriva su di un’area circondata da vetri, che aveva l’aspetto di un atrio, con porte e il buio della notte oltre le finestre. Era chiaramente un’uscita. Miles saltò fuori dal pozzo.

Al rumore del suoi passi uno sconosciuto che indossava abiti civili girò su se stesso e si lasciò cadere su un ginocchio, mentre il lampo argentato di uno specchio parabolico brillava tra le mani sollevate: la canna di un distruttore neuronico.

«Eccolo!» gridò l’uomo e sparò.

Miles indietreggiò nel tunnel tanto velocemente che rimbalzò sulla parete opposta. Afferrò la scala di sicurezza posta ad un lato della parete e cominciò ad arrampicarsi sui gradini molto più velocemente di quanto avrebbe fatto la spinta anti-gravità. E mentre saliva faceva smorfie con i muscoli del viso, che formicolavano e pungevano perché erano stati raggiunti dall’alone del distruttore neuronico. E in quel momento si rese conto che le calzature dell’uomo, che aveva visto spuntare da sotto i pantaloni, erano stivali d’ordinanza barrayarani. «Quinn!» gridò di nuovo nel comunicatore.

Il livello seguente si affacciava su di un corridoio deserto. Le prime tre porte che Miles provò erano chiuse a chiave; la quarta si aprì su di un ufficio illuminato, apparentemente deserto. Mentre lo esplorava in fretta, Miles colse con la coda dell’occhio un movimento nell’ombra sotto una consolle. Si chinò e si trovò faccia a faccia con due donne che indossavano la tuta azzurra delle autorità portuali. Una delle due strillò e si coprì il volto con le mani, mentre la seconda la abbracciava, fissando Miles con aria di sfida.

Miles tentò di esibire un sorriso amichevole. «Ah… salve.»

«Chi diavolo siete, voi?» chiese la seconda donna con voce acuta.

«Oh, io non sono con loro: quelli sono… uhm… assassini prezzolati.» Una definizione azzeccata, in fondo. «Non si preoccupi, non stanno cercando voi. Avete già chiamato la polizia?»

La donna fece cenno di no con la testa.

«Le suggerisco di farlo immediatamente. Ah… per caso, mi avete già visto prima?»

La donna annuì.

«E da che parte sono andato?»

La donna si ritrasse, terrorizzata all’idea di essere in balia di uno psicopatico. Miles allargò le braccia in un muto gesto di scusa e si diresse verso la porta. «Chiamate la polizia!» gridò mentre usciva e il suono smorzato dei tasti della consolle che venivano premuti lo seguì in corridoio.

Mark non si trovava su quel livello. Qualcuno aveva spento il campo anti-gravità del tunnel di salita; le sbarre automatiche di sicurezza bloccavano l’apertura e la luce rossa di avviso di pericolo inondava il corridoio. Miles allungò cauto la testa nel tunnel e scorse un’altra testa al livello inferiore che guardava in alto; si ritrasse di scatto, mentre l’arma crepitava.

Il perimetro esterno della torre era circondato da una balconata. Miles uscì dalla porta che si trovava all’estremità del corridoio e si guardò intorno e poi in alto: sopra di lui c’era un solo piano, la cui balconata era facilmente raggiungibile con l’ausilio della corda. Con una smorfia, Miles estrasse la spoletta dalla tasca, lanciò gli uncini e riuscì ad agganciarli a primo colpo. Si aggrappò, restò sospeso per un breve ma interminabile istante sopra la torre, il mare ruggiva venti metri più in basso e poi scavalcò la ringhiera del balcone soprastante.

In punta di piedi si avviò alla porta a vetri e guardò nel corridoio: la figura accovacciata di Mark, con lo storditore in pugno, spiccava sullo sfondo della luce rossa accanto all’entrata del tunnel. Sul pavimento era disteso il corpo (svenuto, sperò Miles) di un uomo in tuta da tecnico.

«Mark?» chiamò piano e si ritrasse di scatto. Mark si era girato di colpo, lasciando partire una scarica nella sua direzione. Miles si appoggiò con la schiena alla parete e lo chiamò di nuovo. «Collabora con me e io ti tirerò fuori di qui vivo. Dov’è Ivan?»

Avergli ricordato che aveva ancora un asso nella manica ebbe su Mark il desiderato effetto calmante. Non sparò di nuovo. «Tirami fuori di qui e ti dirò dove si trova» ribatté.

Miles sorrise nell’oscurità. «Va bene; sto entrando.» Scivolò oltre la porta e si unì al suo doppio, fermandosi solo per controllare il polso della figura distesa: batteva ancora, per fortuna.

«Come farai a tirarmi fuori di qui?» domandò Mark.

«Be’, sì, in effetti non sarà facile» ammise Miles. Si interruppe e ascoltò attentamente: qualcuno stava salendo la scala di sicurezza del pozzo, cercando di non fare rumore; non era ancora al loro livello. «La polizia sta arrivando e immagino che quando sarà qui i barrayarani sgombreranno in fretta. Non avranno nessuna voglia di trovarsi invischiati in un imbarazzante incidente interplanetario del quale l’ambasciatore dovrebbe dare spiegazioni. L’operazione di questa notte è già sfuggita al controllo, perché tutti li hanno visti e prima di domani mattina Destang avrà il loro sangue sul tappeto del suo ufficio.»

«La polizia?» chiese Mark stringendo la presa sullo storditore, mentre tutta una serie di paure diverse si disegnavano sul suo volto.

«Sì. Potremmo provare a nasconderci in questa torre fino al loro arrivo… se mai arriveranno. Oppure potremmo salire sul tetto e farci prendere a bordo immediatamente da un aeromobile dendarii. Io so cosa scegliere, e tu?»

«Allora sarei tuo prigioniero» mormorò Mark con voce soffocata dalla rabbia alimentata dalla paura. «Morto adesso, morto dopo, che differenza fa? Alla fine ho capito a cosa ti serve un clone.»

Mark si vedeva come una banca di pezzi di ricambio ambulanti, Miles ne era sicuro. Sospirò e gettò un’occhiata al suo cronometro. «Secondo l’orario di Galen, restano ancora sette minuti.»

Una strana espressione attraversò il volto di Mark. «Ivan non è su, è giù, da dove siamo venuti.»

«Ah?» Miles si arrischiò a sbirciare nel tunnel di salita: lo scalatore era uscito ad un altro livello. I cacciatori stavano svolgendo un lavoro molto accurato e quando fossero arrivati all’ultimo piano, non avrebbero più avuto dubbi sulla posizione della loro preda.

Miles indossava ancora l’imbracatura. Piano piano, cercando di non farla tintinnare, si sporse in avanti e assicurò gli uncini alla sbarra di sicurezza, tirandoli per controllare la tenuta. «Così vuoi scendere, eh? Be’, posso accontentarti. Ma è meglio che tu abbia detto la verità, riguardo a Ivan, perché se muore, ti farò l’autopsia con le mie mani, cuore e fegato, bistecche e fettine.»

Si chinò, regolò la velocità di srotolamento del rocchetto e il punto di fermata e si mise in posizione sotto la sbarra, pronto a scendere. «Montami in spalla.»

«Non mi dai un’imbracatura?»

Miles guardò in basso, alle sue spalle e sorrise. «Tu rimbalzi meglio di me.»

Con aria estremamente dubbiosa, Mark rimise lo storditore nella fondina, scivolò sulla schiena di Miles e con molta cautela gli passò le braccia e le gambe attorno al corpo.

«Farai meglio a tenerti più stretto; la decelerazione in fondo sarà piuttosto brusca. E non strillare mentre scendiamo, potresti attirare l’attenzione.»

La stretta di Mark si fece convulsa. Miles controllò ancora una volta che non vi fossero ospiti indesiderati (il tunnel era sempre vuoto) e si lasciò cadere oltre il bordo.

Il peso di entrambi raddoppiò la spinta e caddero a velocità vertiginosa per quattro piani, nel silenzio quasi totale… Miles sentiva lo stomaco in bocca e le pareti del pozzo di salita erano solo una macchia di colore… poi la spoletta cominciò a stridere, opponendo resistenza alla spinta. Le cinghie dell’imbracatura si tesero e la presa a mani intrecciate di Mark attorno al collo di Miles cominciò a cedere. Miles allora sollevò una mano e afferrò il polso di Mark. Frenarono e si arrestarono con un sobbalzo a pochi centimetri dal pavimento del tunnel, di nuovo nel ventre della montagna di sintocemento. Miles aveva le orecchie tappate.

Il rumore di quella discesa vertiginosa era parso mostruoso ai suoi sensi esacerbati, ma nessuna testa curiosa si sporse dai piani superiori e nessuna arma crepitò verso di loro. Entrambi si allontanarono dalla linea visuale, riparandosi nel piccolo ingresso antistante il corridoio che portava verso l’uscita. Miles premette il pulsante che sganciava gli uncini e riavvolse la spoletta. Il filo non fece alcun rumore, ma i ganci tintinnarono quando toccarono il pavimento, e Miles trasalì.

«Da quella parte» disse Mark indicando a destra. Si avviarono di corsa fianco a fianco lungo il corridoio. Una vibrazione profonda e sorda piano piano annullò tutti i rumori più lievi. La stazione di pompaggio che ronzava sommessa quando Miles era passato là davanti la prima volta, adesso funzionava a piena potenza, portando il livello del Tamigi a quello dell’alta marea, per mezzo di tubature nascoste. La stazione seguente, prima buia e silenziosa, era adesso illuminata e pronta ad entrare in azione.

Mark si fermò. «Qui.»

«Dove?»

Mark indicò con la mano. «Ogni stanza di pompaggio ha un portello di accesso per le riparazioni e la pulizia. Lo abbiamo messo lì.»

Miles imprecò.

La stanza di pompaggio aveva le dimensioni di un grosso sgabuzzino, che sigillato, diventava buio, freddo, puzzolente, e silenzioso, mortalmente silenzioso. Fino a quando lo scroscio dell’acqua che saliva e entrava con forza e violenza immani non lo trasformava in una camera della morte. E allora l’acqua si sarebbe precipitata dentro a riempire le orecchie, il naso, gli occhi sbarrati, a riempire la stanza sempre più in alto, sempre più in alto, senza lasciare neppure la più piccola sacca d’aria per la bocca affamata; si sarebbe precipitata dentro, sballottando e schiacciando senza sosta e senza pietà il corpo, ribollendo contro le pareti spesse e impenetrabili, massacrando il volto fino a renderlo irriconoscibile, fino a quando, con il riflusso della marea, le acque si sarebbero ritirate, lasciando… lasciando solo qualcosa privo di valore, qualcosa che avrebbe intasato la condotta.

«Tu…» sibilò Miles fissando Mark con occhi furenti, «tu ti sei prestato a questo

Mark si stropicciò le mani con un gesto nervoso, indietreggiando. «Adesso sei qui… ti ho portato qui, ti avevo promesso che lo avrei fatto…»

«Non ti pare una punizione un po’ troppo severa per un uomo che non ha fatto altro che russare un po’ e tenerti sveglio una notte?» Miles si voltò, disgustato e cominciò a premere i pulsanti di controllo del portello. L’ultima operazione andava fatta a mano, girando la sbarra che apriva il portello. Quando Miles spinse la pesante porta verso l’interno, da qualche parte cominciò a suonare un allarme.

«Ivan?»

Il grido che giunse dall’interno fu quasi inudibile.

Miles si sporse e accese la torcia. Il portello si trovava quasi alla sommità della camera di pompaggio e Miles vide il volto cereo e sporco di Ivan mezzo metro più in basso.

«Tu!» esclamò Ivan con voce carica d’odio, facendo un passo indietro e scivolando sulla melma.

«No, non lui» lo corresse Miles. «Io.»

«Eh?» Il volto di Ivan era esausto, segnato dalle rughe, allo stremo; Miles aveva visto la stessa espressione sul viso degli uomini che erano rimasti troppo a lungo in prima linea, uomini che avevano quasi perso la capacità di pensare coerentemente.

Lanciò in basso l’insostituibile imbracatura (rabbrividendo al pensiero che quando era sulla Triumph aveva quasi deciso di non includerla nell’equipaggiamento da portare con sé) e tenne salda la spoletta. «Pronto a salire?»

Ivan mosse le labbra in un mormorio inarticolato e si avvolse l’imbracatura attorno a un braccio. Miles premette il pulsante e Ivan si alzò. Miles lo aiutò ad attraversare carponi il portello, poi Ivan si rimise in piedi ansimando, con le mani sulle ginocchia, per sostenersi. L’uniforme verde era umida, stropicciata, ricoperta di melma, le mani graffiate e gonfie. Doveva aver preso a pugni e graffiato la parete, gridando fino a sgolarsi nel buio, senza che nessuno lo sentisse…

Miles richiuse il portello stagno, che tornò al suo posto e tirò la sbarra manuale di bloccaggio. L’allarme smise di suonare. Ricollegati i circuiti di sicurezza, la pompa si rimise in moto e dalla camera di pompaggio provenne solo un orribile sibilo quasi inudibile. Ivan si mise a sedere pesantemente e si nascose il volto tra le mani.

Preoccupato, Miles si inginocchiò accanto a lui. Ivan sollevò il capo e esibì un sorriso tremulo. «Credo» ansimò, «che farò della claustrofobia il mio hobby, d’ora in avanti.»

Miles sorrise sollevato e gli diede una pacca sulla spalla, poi si alzò e si voltò: Mark era sparito.

Con un’imprecazione frustrata, Miles sollevò il comunicatore da polso. «Quinn? Quinn!!» Si spostò in corridoio, scrutò in entrambe le direzioni e ascoltò attentamente: una debole eco di passi in corsa stava svanendo in lontananza, nella direzione opposta alla torre di guardia infestata dai barrayarani. «Piccolo stronzo» mormorò Miles. «Che vada al diavolo.» Sintonizzò il comunicatore sulla frequenza della pattuglia aerea. «Sergente Nim? Qui Naismith.»

«Sissignore.»

«Ho perso il contatto con il comandante Quinn; veda se riesce a contattarla lei. Se non riesce, inizi a cercarla. L’ultima volta che l’ho vista era a piedi all’interno del frangiflutti, a metà strada tra la Torre Sei e la Sette, diretta a sud.»

«Bene, signore.»

Miles si voltò e aiutò Ivan a rimettersi in piedi. «Sei in grado di camminare?» chiese preoccupato.

«Ma certo… sicuro» rispose Ivan, sbattendo le palpebre.

«Sono solo un po’…» Si avviarono lungo il corridoio, Ivan inciampò, si aggrappò a Miles per sostenersi e si rimise in piedi.

«Non credevo che il mio corpo fosse in grado di produrre tanta adrenalina e per tanto tempo. Ore e ore… quanto sono rimasto là sotto?»

«Circa…» Miles guardò l’orologio, «un po’ meno di due ore.»

«Uhmm. Mi è sembrato di più.» Ivan sembrava più fermo sulle gambe. «Dove stiamo andando? Perché indossi il costume di Naismith? La signora sta bene? Non hanno preso anche lei, vero?»

«No, Galen ha preso solo te. Al momento questa è un’operazione indipendente dendarii. Io non dovrei trovarmi a terra; Destang mi aveva ordinato di restare a bordo della Triumph mentre i suoi scagnozzi avrebbero dovuto fare fuori il mio doppio. Per impedire la confusione.»

«Già… be’, è sensato. In questo modo, tutte le volte che vedono qualcuno piccolo di statura, sanno che possono sparargli.» Ivan sbatté di nuovo le palpebre. «Miles…»

«Appunto» rispose questi, «ecco perché andiamo da questa parte invece che da quella.»

«Vuoi che acceleri il passo?»

«Non sarebbe male, se potessi.»

Aumentarono l’andatura.

«Come mai sei sceso a terra?» chiese Ivan dopo un paio di minuti. «Non dirmi che stai ancora cercando di salvare la pelle a quel disgraziato buono a nulla della tua copia.»

«Galen mi ha spedito un invito inciso sulla tua pelle. Io non ho molti parenti, Ivan e quelli che ho, hanno per me un gran valore. Non fosse che per la loro rarità.»

Si scambiarono un’occhiata e Ivan si schiarì la gola. «Bene. Però stai camminando sul filo, se cerchi di scavalcare Destang. Dimmi, se la sua squadra è così vicina, dov’è Galen?» chiese allarmato.

«Galen è morto» gli riferì Miles, mentre attraversavano propio il corridoio buio che portava al cornicione esterno dove giaceva il suo cadavere.

«Ah, sono felice di sentirlo. E chi ha compiuto l’impresa? Voglio baciargli la mano. O baciarle.»

«Credo che ne avrai l’opportunità tra un attimo.» Il ticchettio rapido di passi in corsa, come quello prodotto da una persona di bassa statura, proveniva da dietro la curva del corridoio. Miles estrasse lo storditore. «E questa volta, non ho bisogno di farlo discutere. Forse Quinn l’ha bloccato, costringendolo a venire di qua» aggiunse speranzoso. Stava cominciando a preoccuparsi per Elli.

Mark comparve da dietro la curva e si fermò scivolando davanti a loro con un grido inarticolato. Poi si voltò, fece un passo, si fermò e si voltò di nuovo, come un animale preso in trappola. La parte destra del volto era sporca di rosso, l’orecchio era pieno di vesciche bianco giallastre e nell’aria aleggiava il puzzo di capelli bruciati.

«E adesso?» chiese Miles.

«Là dietro c’è un pazzo con la faccia dipinta che mi insegue con un fucile al plasma!» esclamò Mark con voce stridula. «Sono penetrati nell’altra torre di guardia…»

«Hai visto Quinn da qualche parte?»

«No.»

«Miles» intervenne Ivan perplesso, «i nostri non dovrebbero portare fucili al plasma in un’operazione di caccia all’uomo come questa, no? Non certo in un’installazione critica come questa… dove possono rischiare di danneggiare i macchinari…»

«Dipinto?» chiese Miles all’improvviso. «Dipinto come? Non… non per caso una pittura sul viso che assomiglia da una maschera teatrale cinese, vero?»

«Io non so… che aspetto abbia… una maschera teatrale cinese» ansimò Mark. «Ma loro… be’, uno di loro, era dipinto da orecchio a orecchio.»

«Il ghemcomandante, senza dubbio» borbottò Miles, «in caccia formale. A quanto pare hanno aumentato la posta.»

«Cetagandani?» esclamò Ivan sconvolto.

«Devono essere arrivati i rinforzi e devono aver seguito la mia pista dallo spazioporto. Cristo! Quinn è andata da quella parte…» Miles si mise a girare in tondo cercando di ricacciare il panico che gli attanagliava la bocca dello stomaco e di non permettergli di arrivare al cervello. «Tu puoi rilassarti, Mark. Non è te che vogliono uccidere.»

«Col cavolo che non vogliono me! Quello ha gridato "Eccolo!" e ha cercato di farmi saltare la testa!»

Miles distese le labbra in un sorriso cattivo. «No, no» cantilenò col tono che si usa per calmare un bimbo, «si tratta solo un caso di scambio di identità. Quella gente vuole uccidere me… l’ammiraglio Naismith. Sono solo quelli dall’altra parte della galleria che vogliono uccidere te. Naturalmente» terminò tutto allegro, «nessuna delle due parti è in grado di distinguerci.»

Ivan emise una risata di scherno.

«Torniamo indietro» disse Miles in tono deciso e li precedette di corsa. Svoltò nel corridoio trasversale e si fermò di colpo davanti al portello che conduceva all’esterno. Ivan e Mark arrivarono al galoppo dietro di lui.

Miles si alzò in punta di piedi e digrignò i denti: stando alla lettura del quadrante di controllo, la marea si trovava ora al di sopra del portello. Quell’uscita era bloccata dal mare.

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