Il datore di forme sistemò il burocrate in fondo agli Scalini Spagnoli e posò la valigetta a terra accanto a lui.
La valigetta era incarnata in un ometto piccolo e monacale, circa di metà statura rispetto a un uomo normale. Aveva sopracciglia nere e ispide e un’espressione leggermente sottomessa. La sua giacca di velluto grigio era tutta stropicciata, e le sue spalle erano curve.
— Pronto alla battaglia? — gli domandò il burocrate con tono aspro.
La valigetta alzò lo sguardo con un rapido sorriso e due occhietti svegli. — Iniziamo dalla tua scrivania, capo?
— No, se consideriamo tutto quel che dobbiamo fare, credo che faremmo meglio a iniziare dal guardaroba.
La valigetta annuì e fece strada su per la scalinata. Le scale di marmo si dividevano per poi dividersi di nuovo, inerpicandosi con grazia serpentina attraverso le diramazioni delle decisioni preliminari. Velocemente, salirono di gerarchia. Più in alto, le scale si contorcevano, dirigendosi l’una verso l’altra man mano che si moltiplicavano, allargandosi a ventaglio in grovigli impossibili e avvolgendosi su se stesse come una striscia di Moebius o un solido di Escher prima di sparire nelle dimensioni più elevate. A tenere gli scalini sempre sotto i piedi ci pensava l’orientazione locale. In lontananza, ai limiti della loro visione, nuove scalinate nascevano dalle vecchie man mano che venivano creati nuovi portali.
Senza volerlo, il burocrate pensò alla vecchia battuta secondo la quale il Palazzo dell’Arcano aveva un milione di porte, nessuna delle quali ti portava dove avresti voluto andare.
— Di qua. — Il loro percorso passava sotto un agglomerato di scalinate a spirale, e poi fra due leoni di pietra i cui musi erano stati spruzzati di vernice verde. Aprirono una porta ed entrarono.
Il guardaroba era una stanza di legno di quercia ammuffito affollata di maschere di demoni, eroi, creature di altri sistemi solari e altri volti che avrebbero potuto essere qualunque di questi suddetti tre. Era fiocamente illuminata dalla luce diffusa e senza fonti tipica di tutto il palazzo, ed era caratterizzata dal movimento continuo di gente che provava costumi o si faceva dipingere la faccia. Un luogo tranquillo di silenziosa preparazione, insomma, preso da qualche teatro pre-stellare o da qualche scenario del mondo dello spettacolo.
Si avvicinò a loro un automa a forma di mantide, tutto chitina verde lucida ed esili articolazioni. Incrociò le articolazioni superiori e si profuse in un profondo inchino. — In che posso assistervi, padrone? Talenti, censori, armamenti sociali? Magari un po’ di memoria aggiuntiva?
— Fatemi cinque agenti — disse il burocrate. La sua valigetta, seduta a gambe incrociate su un baule di costumi, prese un blocchetto da una tasca interna, scribacchiò i codici di pagamento e consegnò il foglietto all’automa.
— Molto bene. — La mantide prese quattro manichini da uno scaffale e iniziò a prendere le sue misure. — Devo limitarne l’autonomia?
— Non ne vedo il motivo.
— Decisione molto saggia, signore. È incredibile come molta gente preferisca limitare la quantità di informazione dei propri agenti. Stupefacente cecità. Il solo fatto di esistere in questo luogo significa aver affidato tutti i propri segreti a un agente. La gente è troppo superstiziosa. Si attaccano all’illusione della propria essenza, considerando il Palazzo dell’Arcano come un luogo piuttosto che una serie di convenzioni prestabilite all’interno delle quali la gente può incontrarsi e interagire.
— Perché mi annoiate con queste chiacchiere? — Il burocrate comprendeva piuttosto bene le convenzioni; era agente di quelle convenzioni nonché difensore delle stesse. Forse poteva rimpiangere il fatto che i segreti di Gregorian, incastonati come erano nell’ordito e nella trama dello spazio d’incontro riservato agli umani, non potevano essere estratti. Tuttavia, comprendeva bene il motivo per cui dovesse essere così.
La mantide si chinò su un manichino. — Parlo solo perché sono preoccupato per voi. Siete in uno stato di afflizione emotiva. Siete sempre più insoddisfatto dei limiti che vi sono stati posti. — Regolò l’altezza, tirò fuori la pancia.
— Davvero? — domandò il burocrate con tono sorpreso.
Una volta sgrezzati i manichini, la mantide iniziò a plasmare i lineamenti del burocrate sui volti. — Chi può saperlo meglio di me? Se desiderate discuterne…
— Oh, chiudi il becco.
— Ma certo, signore. Le leggi sulla privacy sono sovrane. Sono persino più importanti della ragionevolezza — aggiunse con tono di rimprovero. La valigetta rimase seduta a osservare, con un mezzo sorriso divertito dipinto sul volto.
— Non sono mica un libero informazionista.
— Anche se lo foste — disse la mantide — non potrei farvi rapporto. Se si potesse fare rapporto per tradimento, nessuno si fiderebbe più del Palazzo dell’Arcano. Chi sarebbe disposto a lavorarci? — Fece un passo indietro dal suo lavoro. — Pronto.
I cinque burocrati si guardarono. Ognuno era una copia perfetta dell’altro, viso a viso e occhio a occhio. Istintivamente, e questo era un tic che dava invariabilmente fastidio al burocrate, scostarono lo sguardo l’uno dall’altro con espressione imbarazzata.
— Io penso a Korda — disse il burocrate.
— Io vado alla bottega delle bottiglie.
— Philippe.
— Sala cartografica.
— Cerchio Esterno.
La mantide produsse uno specchio. Uno alla volta, il burocrate vi passò attraverso.
Il burocrate fu l’ultimo a andarsene. Entrò con un passo nella sala degli specchi; le pareti e il soffitto riecheggiavano il loro bianco pulito e infinito su una fila lunghissima di specchi dalla cornice d’oro. In lontananza si intravedeva una curva, dove la moquette del pavimento e gli schemi geometrici del soffitto diventavano tutt’uno. Naturalmente, il vasto corridoio era costantemente frequentato da migliaia di persone che entravano e uscivano dagli specchi in un flusso continuo e inarrestabile, ma il Consiglio Architettonico del Traffico non vedeva motivo per il quale questi dovessero essere visibili. Il burocrate non era d’accordo con questa normativa. Secondo lui gli umani non dovevano circolare senza essere riconosciuti; come minimo l’aria avrebbe dovuto incresparsi al loro passaggio.
Pressoché privo di peso, corse lungo il corridoio, passando contemporaneamente in rassegna le immagini offerte dagli specchi: una stanza simile a una gabbia per uccelli in metallo che ronzava e scintillava di elettricità. Una radura in una foresta dove macchine selvagge erano chinate sulla carcassa di un cervo e ne strappavano via le interiora. Una pianura deserta disseminata di statue rotte ricoperte con lenzuoli bianchi che arrotondavano gli angoli e ammorbidivano le forme… ecco, era quello che voleva. Il direttore del traffico glielo sistemò davanti. Il burocrate entrò nell’anticamera del reparto Technology Transfer. Da lì, il suo ufficio era a un passo.
Philippe aveva riorganizzato tutto. La cosa saltava immediatamente all’occhio perché il burocrate aveva adottato un ambiente di lavoro molto spartano; pareti di pietra calcarea con un numero limitato di suggeritori visuali e una vecchia scrivania-rinoceronte ben sigillata con una fila di modellini che correvano lungo la sua spina dorsale. I modellini erano tutti di apparecchi primitivi; un coltello di pietra, l’aereo dei fratelli Wright, un generatore di fusione, l’Arca. Il burocrate si dedicò a rimetterli a posto nel giusto ordine.
— Com’è andata? — domandò la valigetta.
— Philippe ha fatto un ottimo lavoro — disse la scrivania. — Ha riorganizzato tutto, e ora sono molto più efficiente di prima.
Il burocrate si produsse in una smorfia di disgusto. — Non ti ci abituare troppo. La sua valigetta prese una busta dalla scrivania. — Cos’è?
— È di Korda. Ha organizzato una riunione per quando rientri.
— A che proposito?
La valigetta scrollò le spalle. — Non lo dice. Tuttavia, se devo giudicare dalla lista dei presenti, direi che si tratta di un’altra delle sue audizioni informali di dipartimento.
— Meraviglioso.
— Nella sala a stella.
— Sei forse impazzito?
Korda era stato calcato di recente e sembrava più vecchio, più roseo e un po’ più in carne. Èra così che invecchiavano i colleghi che si vedevano solo in ufficio, a pezzetti, cosicché in retrospettiva succedeva di ricordarli mentre si avvicinavano verso la morte a passi da gigante. Il burocrate rimase sconvolto; non si era reso conto che non vedeva Korda in persona da così tanto tempo. Questo servì anche a ricordargli quanto era caduto in basso in quegli ultimi anni rispetto ai favori dei più potenti. — Oh, non è poi stato così male — disse.
Erano seduti attorno a un tavolo per le conferenze di un mogano smaltato talmente intenso e profondo che dava l’idea di essere stato riverniciato dozzine di volte con il passare degli anni. Il soffitto era alto e a volta, con cinque lunghe travi che si incontravano al centro, smaltato di blu con stelle dorate che ammiccavano dall’alto. Si trattava di un ambiente piuttosto sobrio, impregnato di un odore di pelle vecchia e di tabacco estinto, progettato appositamente per mettere i suoi utenti in un’atmosfera solenne e determinata. Oltre a Korda e Philippe vi erano Orimoto della Contabilità, Muschg del reparto Analisi Progetti, e una vecchia donna dalla pelle avvizzita del reparto Accertamento Propagazione. Questi ultimi tre erano delle nonentità, invitate solo per provvedere ai codici manuali necessari nel caso che i loro colleghi del reparto Operazioni ritenessero che fosse il caso di adottare un sondaggio completo.
Philippe si protese in avanti prima che Korda riuscisse a ribattere. Si espresse in un sorriso calcolato per trasmettere calore personale, quindi parlò. — Qui siamo tutti dalla tua parte, lo sai no? — Fece una pausa per mutare la sua espressione in una di rammarico. — Tuttavia, ci sfugge completamente il processo attraverso il quale sei arrivato a fare una dichiarazione così… sfortunata.
— Sono stato fregato — disse il burocrate. — Questo non posso fare a meno di ammetterlo. Mi ha sbilanciato, e poi mi ha inchiodato con quella telecamera.
Korda fece una smorfia senza staccare lo sguardo dalle sue mani unite. — Ti ha sbilanciato… Si può ben dire che farneticavi.
— Scusatemi — intervenne Muschg. — Sarebbe possibile dare un’occhiata alla pubblicità in questione? — Philippe sollevò un sopracciglio davanti a questa dimostrazione di indipendenza ingiustificata, come se il suo stesso gomito si fosse alzato in piedi per criticarlo. Ciò nonostante annuì, e la sua valigetta issò sul tavolo uno schermo televisivo. Il burocrate apparve immediatamente sullo schermo, con il volto paonazzo e un microfono davanti alla bocca.
“Lo scoverò e lo troverò, ovunque sia. Può nascondersi quanto vuole, ma non mi può sfuggire!”
Qualcuno non inquadrato gli fece una domanda. “È vero che ha rubato della tecnologia bandita?” Il burocrate rispose in maniera evasiva, scrollando le spalle. “Lo ritenete un elemento pericoloso?”
— Eccoci — disse Korda.
“Gregorian è l’uomo più pericoloso di questo pianeta.”
— Al momento ero sottoposto a un notevole stress emotivo…
“Perché dicono che sia l’uomo più pericoloso del pianeta?” L’immagine del volto granitico di Gregorian riempì lo schermo. I suoi occhi erano lune fredde, sagge e imperturbabili. “Quest’uomo sa qualcosa che loro non vogliono farci imparare. Che cosa? Scopritelo voi ste…” Korda spense l’apparecchio.
— Non avresti potuto fare di meglio nemmeno se ti avesse pagato.
Nel mezzo dell’imbarazzante silenzio che seguì, squillò un telefono. La valigetta del burocrate estrasse il telefono da una tasca della giacca e glielo porse. — È per te.
Il burocrate prese la cornetta, più che grato per quell’attimo di respiro, e sentì la sua stessa voce che gli parlava. — Sono tornato dalla bottega delle bottiglie. Posso fare rapporto?
— Vai pure.
Assorbì: In un oscuro corridoio conosciuto come il Viale delle Curiosità, il burocrate si avvicinò a una fila di botteghe le cui vetrine erano opache per il disuso ed entrò in una porta dall’aspetto normalissimo, facendo tintinnare un campanello. L’interno era piuttosto buio, intasato di scaffali su scaffali di bottiglie impolverate che si estendevano a perdita d’occhio in ordine decrescente, giungendo quasi fino al Paleolitico. Negli angoli del soffitto vi erano statuette di cupidi dorati che guardavano dall’alto con sorrisi accondiscendenti.
Il bottegaio era un automa molto semplice, poco più che una testa di capra e un paio di guanti. La testa si inchinò e i guanti si unirono con fare servile. — Benvenuto alla bottega delle bottiglie, padrone. In cosa posso esservi utile?
— Sto cercando una cosa, uh… — Il burocrate agitò una mano alla ricerca della frase giusta. — …una cosa di valore alquanto dubbio, per così dire.
— In questo caso, siete venuto nel posto giusto. Qui teniamo tutti i figli dannati della scienza, tutte le informazioni obsolete, oscure e insulse che non trovano posto in nessun altro luogo. Mondi piatti e vuoti, piogge di rane, apparizioni divine. Abbiamo il sistema alchemico di Paracelso in una bottiglia e quello di Isaac Newton in un’altra, la numerologia pitagorica è intappata laggiù, mentre la frenologia è qui assieme alla demonologia, all’astrologia e a vari metodi per respingere gli squali. Ormai non è altro che un vecchio magazzino in disuso, ma una volta molte di queste informazioni venivano considerate piuttosto importanti. Alcune erano addirittura le migliori disponibili.
— Vi occupate anche di magia?
— Magia di tutti i generi, signore. Necromanzia, geomanzia, sacrifici rituali, divinazione attraverso lo studio delle interiora degli animali, dei segni naturali, dei cristalli, dei sogni, delle pozze d’inchiostro, oppure animismo, feticismo, darwinismo sociale, psicostoria, creazione continua, genetica lamarckiana, psionica e altro. Che cos’è la magia se non scienza impossibile?
— Non molto tempo fa, ho conosciuto un uomo con tre occhi… — Descrisse il terzo occhio del dottor Orphelin.
Il bottegaio inclinò il capo con aria pensierosa. — Credo di avere ciò che cercate. — Fece correre le dita lungo una fila di bottiglie, esitò su una, ne prese un’altra e la rigirò. All’interno rotolava qualcosa di simile a una biglia di vetro. Con un gesto frivolo, il bottegaio stappò la bottiglia e ne versò il contenuto sul bancone, un’occhio di vetro. — Ecco qui.
Il burocrate esaminò con attenzione l’occhio. Era perfettamente umano, azzurro, con un solco arrotondato a forma di T sulla parte posteriore. — Come funziona?
— Semplice yoga. Voi ora vi trovate nel Tidewater, e immagino siate a conoscenza del genere di controllo corporale si dica posseggano i mistici di quella zona.
Il burocrate annuì.
— Bene. Quest’occhio viene deglutito, e l’adepto lo tiene nel proprio stomaco finché non ne ha bisogno. Quindi lo rigurgita, portandoselo nella bocca. La parte liscia viene spinta verso le labbra, e quando queste vengono socchiuse l’effetto è molto realistico, e l’occhio di vetro viene quindi manovrato dall’interno con l’uso della lingua. Grazie all’incisione sul retro, può essere mosso sia a destra che a sinistra, su e giù. — L’occhio venne riposto nella bottiglia, che a sua volta tornò sullo scaffale. — Un semplice trucco di prestigio.
— Allora perché ci sono cascato?
La testa di capra si inclinò con espressione perplessa. — Si tratta di una domanda vera o di pura retorica?
Questa domanda colse un po’ di sorpresa il burocrate, che stava semplicemente pensando ad alta voce. — Rispondimi — disse comunque.
— Benissimo signore. Fare giochi di prestigio è una pratica affine all’insegnamento, all’ingegneria o al teatro, nel senso che si tratta di una forma di manipolazione di dati intesa a sfruttare la realtà per i propri scopi. Tuttavia, come il teatro, si tratta anche di un’arte di illusione. Sia il teatro che la magia mirano a convincere un pubblico della veridicità di una cosa falsa. Il significato aumenta il potenziale dell’illusione. In un dramma teatrale, il significato viene manipolato dalla trama, ma solitamente nella magia non vi sono significati aggiunti. Viene messa in scena in maniera palese, sfruttando una serie di agili distrazioni. Quando vengono forniti un contesto e un significato, l’effetto cambia. Immagino che quando avete visto apparire quel terzo occhio, la cosa non era fine a se stessa. Ovvero, l’azione aveva un significato implicito. Mi sbaglio, forse?
— Disse che mi stava esaminando alla ricerca di possibili influenze spirituali.
— Esatto. È proprio questo il motivo per cui il vostro responso è risultato distorto. Se vi fosse capitato di vedere lo stesso trucco messo in scena su un palco, vi sarebbe apparso sì difficile, ma non certo sconvolgente. Sapendo che si trattava di un trucco, la vostra mente si sarebbe concentrata sulla sua soluzione. Il significato, invece, distrae la mente dalla sfida, e la soluzione del problema diventa cosa secondaria rispetto al grande mistero. Eravate talmente distratto dall’assurdità di quanto stavate vedendo che non vi siete chiesti “Come ha fatto?”, ma piuttosto “Ho visto bene?”
— Oh.
— È tutto, signore?
— No. Ho bisogno di sapere esattamente ciò che può fare e non fare un mago del Tidewater, le sue abilità, le sue doti, chiamatele come volete. Qualcosa di semplice, succinto e comprensibile.
— Non abbiamo nulla di simile.
— Non scherzate. C’è stata una vera e propria ribellione nel Whitemarsh non molto tempo fa. Sono sicuro che avevamo molti agenti da quelle parti, e devono esserci per forza dei rapporti, delle conclusioni o altro.
— Certo, ma si trovano nei nostri scaffali classificati.
— Maledizione, ho veramente un gran bisogno di quelle informazioni.
La testa di capra oscillò con fare dispiaciuto, i guanti si allargarono. — Non posso fare nulla per voi. Rivolgetevi all’agenzia che ha soppresso le informazioni in questione.
— E quale sarebbe?
Un guanto si allontanò per accendere una candela bianca e sottile. Estrasse un foglio di carta da un cassetto e lo portò sotto la luce. — L’ordine di soppressione è venuto dal reparto Technology Transfer.
Il flusso di informazioni terminò. Mentre riconsegnava il telefono alla sua valigetta, il burocrate sentì il suo agente che si dipanava nell’oblio.
— Credo che ciò che più ci disturba — disse Philippe — sia la natura pubblica delle tue dichiarazioni. La Casa di Pietra è infuriata con noi, sai? Sono neri per la rabbia, e dobbiamo fornir loro una spiegazione plausibile per le tue azioni.
La valigetta di Muschg le sussurrò qualcosa in un orecchio. — Ditemi qualcosa a proposito di questa donna indigena con la quale vi siete coinvolto — disse quindi Muschg.
— Bene. — Philippe e Korda assunsero espressioni stupefatte almeno quanto quella del burocrate. Che lo avesse fatto intenzionalmente o meno, Muschg stava rafforzando il rapporto di solidarietà fra i tre. — A volte il lavoro sul campo diventa piuttosto complicato. Se agissimo come da manuale, non riusciremmo a ottenere un bel niente. È proprio per questo che esistono le operazioni sul campo, perché i metodi del manuale non hanno funzionato.
— In che modo siete stato coinvolto con questa donna?
— Ero più che coinvolto — ammise il burocrate. — Il nostro rapporto non era privo di una componente emotiva.
— Poi Gregorian l’ha uccisa.
— Esatto.
— Per far sì che voi, colto dall’ira, faceste qualche dichiarazione pubblica che lui potesse sfruttare al meglio nelle sue pubblicità.
— A quanto pare.
Muschg si appoggiò allo schienale, inarcando le sopracciglia con aria scettica. — E il nostro problema sta proprio qui — intervenne nuovamente Philippe. — Parrebbe uno scenario alquanto improbabile.
— Questo caso diventa sempre più torbido man mano che andiamo avanti — brontolò Korda. — Non posso fare a meno di domandarmi se non sia il caso di effettuare un sondaggio cerebrale.
Una certa tensione si diffuse per il gruppo. Il burocrate incrociò i loro sguardi e sorrise con aria pensierosa. — Sì — disse — un sondaggio completo dipartimentale potrebbe essere la cosa migliore per sistemare la faccenda una volta per tutte.
Gli altri riuscirono a malapena a celare le loro espressioni di disagio, spostandosi inquieti sulle loro poltrone. Evidentemente pensavano a tutti i piccoli e sporchi segreti che sarebbero venuti inevitabilmente fuori, segreti che chiunque volesse ottenere qualcosa nel Palazzo dell’Arcano doveva avere per forza, cose che nessuno gradiva vedere palesate. Il volto di Orimoto, in particolare, era chiuso come un pugno. Korda si schiarì la gola. — Dopotutto, questa è solo un’udienza informale — disse.
— Ma non scartiamo a priori questa ipotesi — disse il burocrate. — Credo che potrà risultare molto utile esplorare anche questa possibilità. — La sua valigetta distribuì ai presenti una serie di copie della lista dei materiali soppressi dalla bottega delle bottiglie. — Vi sono una serie di indizi concreti che suggeriscono che vi sia qualcuno all’interno della nostra Divisione che sta cooperando con Gregorian. — Iniziò a snocciolare dati sulle dita. — Primo: prove importanti al fine della soluzione di questo caso sono state soppresse per ordine del reparto Technology Transfer. Secondo: Gregorian è riuscito a far passare uno dei suoi per l’ufficiale di raccordo che dovevo incontrare sul pianeta, e dal modo in cui lo ha fatto risulta evidente che abbia attinto informazioni dalla Casa di Pietra o da uno di noi. Terzo: il…
— Scusate, capo — la sua valigetta gli offrì nuovamente il telefono. Con un cenno esasperato, il burocrate prese la cornetta. Era di nuovo se stesso. — Vai pure — disse.
Assorbì:
Philippe era da solo in ufficio con se stesso. Alzarono entrambi lo sguardo all’ingresso del burocrate.
— Che piacere rivederti. — L’ufficio di Philippe era di un’eleganza che scadeva quasi nella volgarità, come l’atelier di un lexitor della Luna del 23esimo secolo. La sua scrivania era un blocco di pietra vulcanica che galleggiava a una trentina di centimetri dal pavimento, con bacchette dalla punta di cristallo, matasse di piume di gallo e piccoli feticci sparsi sulla sua superficie. Ampie porte finestra di vetro si aprivano su un balcone che dava su un’antica città di mattoni e ferro battuto, parzialmente annebbiata dal fumo azzurrognolo di milioni di veicoli terrestri.
— Ci penso io — disse Philippe, e il suo secondo se stesso tornò al lavoro. Il burocrate non poté fare a meno di invidiare la facilità e la familiarità con le quali Philippe trattava con se stesso. Philippe era sempre perfettamente a suo agio con Philippe, a prescindere da quante incarnazioni venissero estrapolate dalla sua personalità di base.
Si strinsero la mano (Philippe al momento non aveva solo due agenti ma ben tre, e il terzo doveva trovarsi in giro da qualche parte), e Philippe disse: — Cinque agenti! Stavo per chiederti come mai non eri all’inquisizione, ma ora capisco che sei anche lì.
— Quale inquisizione?
Philippe alzò lo sguardo dal suo lavoro e gli rivolse un sorriso. Più vicino, disse: — Oh, lo scoprirai presto. Cosa posso fare per te?
— C’è un traditore all’interno del reparto Tech Trans.
Philippe lo fissò in silenzio per un periodo relativamente lungo, entrambe le incarnazioni immobili, tutti e quattro gli occhi fissi e sgranati che studiavano attentamente il burocrate. — Hai delle prove? — disse infine.
— Nulla che potrebbe arrivare ad autorizzare un sondaggio dipartimentale.
— Allora che cosa vuoi da me? — L’altro Philippe si versò un bicchiere di succo. — Vuoi qualcosa da bere? — domandò. — Temo che avrà un sapore un po’ piatto, come tutte le bevande via cavo. Ha qualcosa a che vedere con gli zuccheri nel sangue.
— Sì, lo so. — Il burocrate rifiutò la bevanda con un cenno. — Tu una volta lavoravi per il reparto controllo bioscientifico. Mi stavo domandando se sapevi qualcosa a proposito di clonazione. Clonazione umana, in particolare.
— Clonazione. Be’, veramente non ne so molto. E naturalmente le applicazioni umane sono assolutamente illegali. È uno di quei barattoli di vermi nel quale nessuno vuole andare a rovistare.
— In particolare, mi stavo domandando quali vantaggi specifici possa ottenere una persona nel farsi clonare.
— Vantaggi? Sai, nella maggior parte dei casi si tratta di una questione di ego, più che una questione di ottenere dei vantaggi. Può derivare dal desiderio di vedersi sopravvivere alla morte, di sapere che l’unico e irripetibile te stesso esisterà per sempre nei corridoi del tempo, fino al punto omega dell’esistenza stessa. Il tutto incarnato nell’ingarbugliato pantano dell’anima. Poi vi sono i casi sessuali. Una banda piuttosto squallida, a dire il vero.
— No, non credo si tratti di una cosa simile. La persona in questione deve aver dedicato al progetto gran parte della sua vita. E a giudicare dal suo comportamento, direi che ha in mente un fine ben preciso. Di chiunque si tratti, comunque, deve essere una persona in una posizione molto esposta; se si fosse comportato in maniera strana, lo si sarebbe notato già da tempo.
— Be’ — disse Philippe con tono riluttante — ci tengo a dire che si tratta di un’ipotesi puramente speculativa. Non mi citare al riguardo. Poniamo però che il tuo sospetto abbia una posizione relativamente elevata all’interno di qualche corpo governativo… non facciamo nomi, meglio. Diciamo affari di spie. Ebbene, esistono una serie di situazioni nelle quali potrebbe tornare utile avere due codici manuali invece di uno solo. Quando due ufficiali di grado elevato devono approvare un’operazione non ufficiale, per esempio. Oppure un voto in più per influenzare un’azione del comitato. Il sistema si renderebbe conto del fatto che i due codici manuali sono identici, ma non potrebbe farci nulla. Le leggi sulla privacy glielo impedirebbero. È un maledettissimo circolo vizioso, ma cosa ci vuoi fare? La legge è legge.
— Sì, anch’io mi stavo orientando in quella direzione. Solo che la trovo una cosa esageratamente complicata. Devono esserci per forza altre migliaia di maniere per fregare le macchine.
— Tu credi, eh? Allora taglia via una fetta della tua pelle, fanne un guanto e fallo indossare a un tuo complice. Oppure registra la tua trasmissione e ritrasmettila ritardata. Nessuno di questi metodi funzionerà. Il sistema è meglio protetto di quanto immagini.
Si udì un cicalio. Philippe prese una conchiglia della varietà Strombus gigas e se la portò all’orecchio. — È per te — disse. Il burocrate prese la conchiglia e sentì la propria voce.
— Sono appena tornato dalla sala cartografica. Vuoi il rapporto?
— Grazie.
Assorbì: La sala cartografica era copiata pari pari da un palazzo veneziano del 15esimo secolo, solo che sulle pareti, al posto delle delle mappe della costa meditervi era una carta stellare, dominata dalle Sette Sorelle. Dal soffitto pendevano i globi dei pianeti, seminascosti dalle nuvole. Con le mani unite dietro la schiena, il burocrate osservò un modello del sistema: Prospero al centro, poi il caldissimo Mercuzio, il cerchio di asteroidi scottati dal sole conosciuti come i Trinaci, i pianeti mediali, i giganti gassossi Gargantua, Pantagruel e Falstaff, e infine i grattastelle Thuleani, quelle pietre distanti, fredde e scarsamente popolate dove venivano tenute le cose pericolose.
La stanza si espanse per far spazio a una serie di ricercatori che entrarono contemporaneamente. — Posso esservi utile, signore? — gli domandò il curatore. Ignorandolo, il burocrate si recò al banco di riferimento, dove colpì un piccolo tamburo di pelle.
Il supervisore umano uscì dal suo ufficio. Si trattava di una donna bassa e corpulenta con indosso un paio di occhiali spessi almeno un pollice. Li alzò, portandoseli sulla fronte, dove sembravano due antennine di lumaca. — Ciao, Simone — disse il burocrate.
— Mio Dio, sei tu! Da quanto tempo non ci vediamo?
— Troppo tempo. — Il burocrate si avvicinò per abbracciarla, ma Simone si ritrasse istintivamente. Le offrì la mano.
Si scambiarono una stretta di mano (la cartografa era una donna unica). — Cosa posso fare per te? — domandò Simone.
— Hai mai sentito parlare di un luogo chiamato Ararat? È su Miranda, da qualche parte nei pressi della costa del Tidewater. Dovrebbe trattarsi di una città perduta.
Simone si produsse in un sorriso cinico che proveniva da talmente lontano nel passato che il burocrate sentì una stretta al cuore. — Vuoi sapere se ho mai sentito parlare di Ararat? L’unico grande mistero della topografia mirandiana? Ci puoi scommettere.
— Racconta.
— Fu la prima grande città umana di Miranda, capitale planetaria nel corso del primo grande anno, e quando i climatologi scoprirono che sarebbe stata inondata nel giro di un decennio aveva già una popolazione di diverse centinaia di migliaia di anime.
— Deve essere stata una brutta botta per i suoi cittadini.
Simone scrollò le spalle. — La storia non è il mio forte. So solo che ricostruirono l’intera città, facendo solo edifici di pietra con ancore di fibra di carbonio infilate nel sottosuolo per un quarto di chilometro. L’idea era che Ararat potesse sopravvivere al grande inverno, e che un giorno i nipotini degli abitanti avrebbero potuto grattare via i coralli, le alghe e le incrostazioni e tornare a viverci.
— E che accadde?
— Si perse.
— Come si fa a perdere una città?
— Rendendola informazione classificata. — Simone aprì un cassetto. Il burocrate abbassò lo sguardo su un paesaggio in miniatura, con fiumi che correvano attraversando pianure e foreste verdi e azzurrognole ricoperte di sottile nebbiolina. Le strade erano come dei tagli, delle sottili cicatrici che collegavano fra loro città giocattolo. Agglomerati di nubi galleggiavano qua e là. — Questo è il Tidewater un anno fa. È la mappa più precisa che abbiamo.
— È mezzo ricoperto di nuvole.
— Perché mostra solo le informazioni che ritengo affidabili.
— E dov’è Ararat?
— Nascosta dalle nubi. Ora, negli scaffali classificati abbiamo centinaia di mappe nelle quali viene effettivamente rilevata la posizione di Ararat, solo che ogni mappa la mette in una posizione diversa. — Una serie di lucine rosse si accesero sotto le nubi, alcune solitarie e isolate, altre accalcate talmente vicine l’una all’altra da rendere rosee le nubi che le coprivano. — Vedi?
— Be’, ma chi ha classificato Ararat?
— Anche questa è un’informazione classificata.
— E per quale motivo è stata classificata?
— Potrebbe essere qualunque cosa. La Difesa del Sistema, per esempio, potrebbe avere una base o un’istallazione da quelle parti, o magari la usa come punto di riferimento per la navigazione. Vi sono cento fazioni planetarie che hanno un interesse legittimo nel mantenere funzioni consolidate nel Piedmont. Ho visto un rapporto del reparto Controllo Psicologico secondo il quale Ararat come città perduta si sta stabilizzando come archetipo, e che la sua eventuale riscoperta sarebbe un fattore destabilizzante. Potrebbe essere coinvolto persino il reparto Technology Transfer. Ararat ha sempre avuto la reputazione di essere tecnologicamente all’avanguardia… vedi quelle ancore di fibra di carbonio, per esempio.
— Allora come faccio a trovarla?
Chiuse il cassetto. — Non la trovi.
— Simone. — Il burocrate le prese la mano e la strinse.
Simone si ritrasse. — Non si può fare. — Poi assunse un tono più brillante. — Sai che ti dico?’ Visto che sei sempre così interessato al mio lavoro e dato che non ti vedo da tanto tempo, ti farò vedere qualcosa di speciale.
Il burocrate non era mai stato interessato al lavoro di Simone, e lei lo sapeva bene. — Va bene — disse. Simone aprì un armadio e vi entrò. Il burocrate la seguì.
Entrarono in un mondo spettrale. Vi erano alberi perfetti su piedistalli che si stagliavano contro un cielo bianco come carta. Si trovavano su una strada semplificata che attraversava un paesino di edifici disegnati. — È Lightfoot — disse il burocrate con tono meravigliato.
— Scala uno-a-uno — disse Simone con orgoglio. — Che te ne pare?
— Il fiume si è spostato un pochino verso nord da quando è stato fatto.
La cartografa si infilò gli occhiali e lo fissò. — Sì, vedo — disse infine. — Aggiungo il tuo aggiornamento.
Il fiume saltò, e Simone condusse il burocrate in paese. La seguì lungo una strada che non era altro che due linee tracciate a terra, fino a una casa schematica, tutta aria e contorni. Salirono per le scale fino a una stanza con mobili appena abbozzati. Simone aprì il cassetto di una credenza e ne tirò fuori una mappa disegnata a mano. La stese sul letto.
— Una volta ci incontravamo proprio in luoghi come questo — disse il burocrate con tono reminescente. — Ti ricordi? Tutta quella confusione solo perché eravamo troppo giovani e spaventati per fare l’amore fisicamente.
Per un attimo pensò che Simone stesse per arrabbiarsi. Poi scoppiò a ridere. — Oh, sì, ricordo. In fondo non era poi tanto male. E tu eri così carino allora, da nudo.
— Temo di aver preso un po’ di peso da allora.
Per un istante, si creò fra loro un caldo senso di armonia e intesa. Poi Simone emise un colpo di tosse e toccò la mappa con l’unghia dell’indice. — Questa me l’ha lasciata il mio predecessore. Sapeva bene quanto è difficile lavorare con dati incompleti. Un sacco di informazioni vengono passate a questo modo — aggiunse con un pelo d’amarezza. — È come se la verità fosse stata sepolta.
Il burocrate si chinò sulla mappa del Tidewater e seguì il corso del fiume con un dito. Non era cambiato molto da quando era stata tracciata quella mappa, e Ararat era contrassegnata in maniera più che evidente. Si trovava a diverse centinaia di chilometri più a sud rispetto al fiume, non lontana dalla costa. Era circondata da paludi su tre lati, e non vi passava nessuna strada. — Se questa roba è classificata, perché esiste ancora?
— Non si nascondono le informazioni distruggendole. Le si nascondono contrastandole con informazioni errate. Hai memorizzato la mappa?
— Si.
— Allora rimettila nel cassetto che ce ne andiamo.
Lo condusse fuori dalla casa, sulla strada, da dove uscirono dal paese, dalla mappa e dall’armadio, ritrovandosi nuovamente nella sala cartografica. — Grazie — disse il burocrate. — È stato decisamente illuminante.
Simone lo guardò con aria malinconica. — Ti rendi conto che non ci siamo mai incontrati?
Il burocrate riappoggiò la conchiglia sulla scrivania di Philippe. Il Philippe più lontano parlò senza alzare gli occhi dal suo lavoro. — Non quadra, non può esserci un traditore all’interno del reparto.
— E perché no?
I due Philippe parlarono all’unisono.
— È che…
— …non può…
— …quadrare, capisci. Ci sono troppi dispositivi di salvaguardia…
— …controlli, valutazioni…
— …comitati di supervisione. No, temo che…
— …non sia proprio possibile.
I due si guardarono e scoppiarono a ridere. Il burocrate pensò che un uomo che stava così bene in compagnia di se stesso poteva benissimo desiderare di avere altri se stesso nell’universo fisico, oltre che nel regno convenzionale. Il Philippe più lontano sollevò una mano in un gesto di abbandono. — Va bene, d’ora in poi terrò la bocca chiusa.
— C’era una cosa che volevo dirti — continuò il primo Philppe — solo che con questi tuoi sospetti di tradimento non vorrei che tu interpretassi male le mie parole.
— Di che si tratta?
— Sono preoccupato per Korda. Il vecchio non è più se stesso in questi giorni. Mi sa che sta perdendo qualche colpo.
— E perché mai pensi una cosa simile?
— Piccole cose, più che altro. Ha una vera e propria ossessione per il tuo caso attuale… sai, quella faccenda del mago. Ma questo è il meno, un giorno l’ho beccato mentre infrangeva l’etichetta in maniera piuttosto grave.
— In che senso?
— Stava cercando di forzare la tua scrivania.
Il burocrate restituì il telefono alla sua valigetta. Philippe, notò, stava terminando a sua volta una chiamata. Indubbiamente si trattava dei suoi altri due agenti che gli riferivano della visita del burocrate.
— Mettiamolo ai voti — disse Korda. Appoggiarono tutti le mani sul tavolo. — Be’, questa almeno è risolta.
Il burocrate non si era aspettato che il sondaggio passasse. Ora però non potevano sondare solo lui senza mettere a rapporto i motivi per i quali si erano esentati dal sondaggio loro.
Korda riprese il controllo della riunione. — Francamente — disse — avevamo pensato di toglierti questo caso e di assegnarlo a…
— Philippe?
— …qualcuno al posto tuo. Ti darebbe la possibilità di prenderti un po’ di riposo e di riprendere la tua prospettiva. In fondo mi sembra che tu sia un po’ troppo coinvolto dalla faccenda.
— Non potrei accettarlo comunque — disse improvvisamente Philippe. — L’assegnamento planetario, intendo. Sono già terribilmente sovraccarico di lavoro.
Korda assunse un’espressione esterrefatta.
Quel vecchio furbacchione di Philippe, però, non era certo disposto a farsi beccare su una superficie planetaria proprio adesso che vi erano voci di un tradimento all’interno del reparto. Anche assumendo che il traditore non fosse lui, Philippe avrebbe comunque preferito essere nel suo ufficio nel momento in cui le accuse sarebbero state rese pubbliche. La guerra era assicurata.
— Avete altri agenti sostitutivi a disposizione? — domandò Muschg. — Giusto per sapere come stanno le cose.
Korda trasalì in maniera appena percettibile. — Be’, sì, ma… Nessuno ha i requisiti e le autorizzazioni necessarie per questo caso particolare.
— Le vostre opzioni paiono limitate. — Muschg fece scintillare i suoi dentini affilati in un sorriso. Philippe si appoggiò allo schienale, stringendo gli occhi, capendo dove voleva andare a parare. — Forse fareste meglio a farvi ristrutturare il processo di autorizzazione dal reparto Analisi Progetti.
Nessuno parlò. Il silenzio aleggiò a lungo nella sala, finché non venne interrotto da Korda, con tono riluttante. — Forse avete ragione. Prenderò un appuntamento per una riunione.
La tensione scomparve nel nulla. La riunione era pressoché terminata, e lo sapevano tutti; il momento magico era arrivato quando tutti si erano resi conto che per quel giorno non si sarebbe stabilito nulla, non si sarebbe scoperto nulla, non si sarebbe deciso nulla. Tuttavia, essendo ormai iniziata, la riunione doveva trascinarsi ancora per diverse lunghe ore prima che potesse essere dichiarata finita. I motori del protocollo avevano una massa inerziale a dir poco enorme; una volta accesi, impiegavano un sacco di tempo prima di arrestarsi completamente.
I cinque procedettero diligentemente a masticare uno per uno i punti dell’ordine del giorno, finché non venne tutto deglutito e mandato giù.
La sala dei duelli era stretta e aveva un soffitto molto alto. I passi del burocrate riecheggiarono sulle pareti e sull’alta volta. Una luce biancastra, invernale e priva di fonti visibili si rifletteva sulle corsie di legno massiccio. Il burocrate si fermò per raccogliere una palla di mercurio che non era stata toccata da decenni, quindi emise un sospiro.
Vedeva i suoi polpastrelli riflessi sulla superficie della sfera. All’interno del Palazzo dell’Arcano non aveva alcun segno, in quanto il serpente di Undine gli era stato tatuato dopo l’ultimo calco; i segni che si portava addosso qui non erano visibili.
Lungo le pareti vi era una fila di strette panche di tela. Si sedette su una di queste, fissando il riflesso programmato del suo viso sulla sfera da duello. Per quanto distorto, il riflesso rendeva ugualmente evidente che il burocrate non era più l’uomo di una volta.
Irrequieto, si alzò in piedi e assunse una postura da duellante. Inarcò il braccio, e lanciò la sfera con la massima potenza possibile, seguendola con il pensiero. La sfera si involò, mutando, e si trasformò in un falco di metallo, in un coltello, in acciaio fuso, in una testata esplosiva, in un getto di acido, in una lancia, in una siringa. Sette figure di terrore. Quando colpì il bersaglio, sprofondò nel viso e scomparve alla vista. Il manichino si sbriciolò.
Entrò Korda. — La tua scrivania mi ha detto che eri qui. — Si accomodò sulla panca, senza incontrare lo sguardo del burocrate. — Quella Muschg — disse dopo un po’ di silenzio. — Mi ha sputtanato. Ci vorranno almeno sei mesi per il processo di ristrutturazione.
— Date le circostanze, non puoi certo aspettarti che mi metta a piangere per i tuoi problemi.
— Io… ah, può darsi che fossi un pochino fuori fase nel corso della riunione. Devo aver dato l’impressione di essere uscito un po’ dai miei limiti. So benissimo che non avevi fatto nulla di talmente grave da autorizzare l’uso di una sonda.
— Proprio no.
— In ogni caso, sapevo che te la saresti cavata. Era una trappola troppo semplice per incastrare una volpe come te.
— Sì, avevo immaginato anche questo.
Korda chiamò la sfera alla sua mano e la rigirò ripetutamente, come se stesse cercando il principio del suo funzionamento. — Volevo che Philippe pensasse che non andavamo d’accordo. C’è qualcosa di strano in Philippe, sai? Non so proprio che cosa pensare del suo comportamento negli ultimi tempi.
— Tutti dicono che Philippe sta lavorando in maniera impeccabile.
— Così dicono. Ciò nonostante, da quando gli ho dato la tua scrivania, ho avuto più guai di quanti tu non possa immaginare. Non è solo la Casa di Pietra, sai. Anche il Consiglio Radiazioni Culturali vuole la tua pelle.
— Non so neanche chi sono.
— È naturale che tu non ne abbia mai sentito parlare, ci sono io che ti proteggo da loro e da altri organismi simili. Il fatto è che il Consiglio Radiazioni Culturali non avrebbe mai dovuto nemmeno sapere nulla di questa operazione. Io penso che Philippe stia spifferando qualcosa.
— E perché mai dovrebbe fare una cosa simile?
Korda si passò la sfera da una mano all’altra. Rispose con tono evasivo. — Philippe è un brav’uomo. È un po’ un pettegolo, ma rimane una persona valida. Ha un ottimo stato di servizio. Prima che il consiglio consultivo lo distaccasse trasformandolo in un dipartimento a parte, era anche incaricato della supervisione del reparto clonazione umana.
— Philippe mi ha detto che non ne sapeva un granché a proposito di clonazione umana.
— Forse non ne sapeva nulla prima di venire qui. — Korda alzò lo sguardo. I suoi occhi erano cerchiati, stanchi, cinici. — Vai a controllare, se non mi credi.
— Lo farò. — Allora Philippe gli aveva mentito. Ma come aveva fatto a saperlo Korda? Seduto accanto a quel pesante e malsano re dei ragni, il burocrate si sentì a disagio. Sperò che il traditore fosse Philippe. Tutti parlavano di quanto era bravo Philippe, di quanto era furbo e sagace, ma il solo pensiero di avere Korda come nemico faceva decisamente molta più paura al burocrate. Korda poteva anche apparire come un buffone alle volte, ma sotto a quel corpo paffuto e a quei gestì comici vi era il luccichio dell’acciaio freddo.
— Capo? — La sua valigetta gli porse il telefono con aria diffidente.
Assorbì:
La sala degli specchi smistò il burocrate alla colonna ascensori, da dove prese un treno fino al margine stellare del Palazzo dell’Arcano. Scese davanti al portale di una camminata stellare, una fila di lastre di marmo unite fra loro che formavano una specie di lungo ponte di pedine di domino scintillanti che si perdevano in lontananza nella notte.
Da entrambi i lati della camminata luccicava una gloriosa moltitudine di stelle, in realtà una serie di trasmissioni olografiche provenienti dagli osservatori sparsi per il sistema di Prospero. Il burocrate si incamminò sullo stretto nastro di marmo, con la possente fortezza della conoscenza umana che bruciava alle sue spalle e il piccolo anello della cittadella dei ricercatori davanti a sé. In lontananza, poteva vedere qualche viaggiatore solitario. Era un lungo viaggio, quello che portava al Cerchio Esterno. Diverse ore di tempo soggettivo. Se avesse voluto avrebbe potuto raggiungere uno di quei viaggiatori, per chiacchierare e spettegolare un po’. Ma non aveva alcuna intenzione di farlo.
— Salve! Volete un po’ di compagnia?
Gli si era avvicinata una donna dall’aspetto gradevole, che indossava uno strano cappello, alto e bitorzoluto con una falda molto corta. Il burocrate non riuscì a immaginare nemmeno lontanamente quale combinazione di interattività potesse rappresentare. — Con piacere.
Continuarono a camminare, uno accanto all’altra. Più avanti vi erano una serie di moli-dati, lunghi pontili che si estendevano in perpendicolare rispetto alla camminata e che terminavano in navi da guerra, da trasporto e da carico, oppure in stazioni di battaglia, tutte congelate nello spazio convenzionale nel mezzo dei loro movimenti assoluti, tutte occupate nel loro processo di acquisizione di dati attraverso i vari interfaccia presenti sulla camminata stellare. — Una vista da togliere il fiato, non è vero? — disse la donna.
Fece un cenno alle loro spalle, in direzione del Palazzo dell’Arcano, che bruciava di luce bianca come fosse acciaio fuso; un’intricata struttura composta da milioni di torri che si era ingoiata il sole per intero. Le sue parti componenti erano in flusso costante; le orbite delle stazioni fisiche cambiavano costantemente le loro posizioni relative, le ali e i livelli si imperniavano allontanandosi l’uno dall’altro, separandosi, fondendosi e mutando assieme alla continua crescita e al costante ristrutturamento della conoscenza e dei regolamenti. Cordella e la gelida Katharina si trovavano nel punto più lontano dell’imponente struttura, incastonate in torri cristalline di dati. — Credo di sì — disse il burocrate.
— Sapete che cosa mi avvilisce? Mi avvilisce che tutto questo può essere fatto con un semplice segnale trasmesso. Se ci si ferma un attimo a pensarci sopra, ci si accorge che tutto questo dovrebbe essere impossibile. Voglio dire, avete per caso anche la più pallida idea di come è fatto?
— No — ammise il burocrate. La tecnologia era assolutamente al di fuori delle cose che era tenuto a capire. E anche se non lo avrebbe mai confessato a una persona conosciuta così per caso, fra tutti i misteri del Palazzo dell’Arcano, questo era proprio quello che lo intrigava di più.
Negli uffici girava addirittura la voce che le apparecchiature dell’Autorità di Trasmissione fossero in grado di viaggiare nel tempo, mandando i loro segnali attraverso milioni di chilometri per poi scaricarli in un serbatoio di ritenzione dati, dove rimanevano per il numero di ore necessario per un’effettiva trasmissione a velocità-luce. Un’altra voce di corridoio un po’ più cupa sosteneva che il Cerchio Esterno esistesse solo come conveniente finzione, che non vi era nessuna distante cintura di asteroidi, che i siti per le ricerche pericolose fossero in realtà disseminati per il Cerchio Interno e lo spazio planetario. Sempre secondo questa teoria, i grattastelle thuleani non erano altro che una rassicurante distrazione.
— Be’, io sì. L’ho capito, e ora ve lo dirò. Quando il vostro segnale viene trasmesso, voi perdete la vostra identità. Se vi fermate un attimo a pensarci, è pressoché inevitabile. Alla velocità della luce, il tempo si arresta. Non c’è nessun modo in cui si possa vivere il tempo di transito. Quando il vostro segnale viene ricevuto, però, un ricordo programmato del viaggio viene inserito nella vostra struttura di memoria. Così voi credete di essere rimasto cosciente per tutte quelle ore.
— E quale sarebbe il fine di tutto ciò?
— Ci protegge dall’orrore esistenziale. — Si aggiustò il cappello. — Il fatto è che tutti gli agenti non sono altro che personalità artificiali. Siamo delle copie talmente perfette della nostra personalità di base che non ci viene nemmeno in mente. Tuttavia veniamo creati, viviamo per un certo numero di ore o minuti, poi veniamo distrutti. Se vivessimo nelle nostre memorie quei lunghi periodi di vuoto, verremmo portati faccia a faccia con la nostra morte imminente. Saremmo costretti ad ammettere a noi stessi che di fatto non ci riuniamo con i nostri primari, ma che bensì moriamo. Ci rifiuteremmo di fare rapporto ai nostri primari, e il Palazzo dell’Arcano si riempirebbe di fantasmi. Capite quel che voglio dire?
— Io… credo di sì.
Giunsero all’altezza di un molo-dati. — Be’, è stato bello — disse la donna. — Devo parlare con almeno altre cinque persone in questo turno, se voglio raggiungere la mia quota.
— Aspettate un attimo — disse il burocrate. — Quale sarebbe la vostra occupazione?
La ragazza si produsse in un ampio e sfacciato sorriso. — Spargo voci.
Con un cenno della mano, scomparve.
Un salto editato. Il burocrate emerse dalle porte di sicurezza, entrando nella rappresentazione dati analogica dei grattastelle thuleani; rabbrividì. — Whew — disse. — Quegli affari mi mettono sempre un po’ in apprensione.
La guardia addetta alla sicurezza era collegata con un tale numero di accrescimenti artificiali che ricordava qualche fusione chimerica fra uomo e macchina. Da sotto una serie di impianti semi-argentati, gli occhi della guardia studiarono il burocrate con un’intensità quasi inquietante. — Sono fatti apposta per essere spaventosi — disse. — Ma vi dirò una cosa. Se riescono ad affondare le unghie, sono molto peggio di quanto non possiate immaginare. Quindi, se avete in mente qualche mossa furba, fareste meglio a scordarvela.
Lo spazio d’incontro era incredibilmente fuori scala. Si trattava di un duplicato di quei capannoni in cui vengono costruite le aereonavi, una struttura talmente vasta che il vapore arrivava a formare piccole nubi sotto la sua volta, che riempivano l’interno dell’edificio di pioggia. L’intero spazio era occupato da un solo gigante, nudo.
La Terra.
Era a carponi sulle mani e sulle ginocchia, più animale che umana, enorme, brutale e carica di energia. La sua carne era grassa e cadente. I suoi arti erano legati da spesse catene, anche se queste non erano altro che una grezza visualizzazione delle restrizioni e degli accorgimenti di sicurezza che la mantenevano eternamente segregata ai margini del sistema. Il suo puzzo, un odore nauseante, un misto di urina e sudore fermentato, permeava l’intero spazio. Era un odore solido, reale e pericoloso.
Trovandosi in piedi davanti all’agente della Terra, il burocrate provò la sgradevole sensazione che se avesse veramente voluto liberarsi, quel mostro si sarebbe potuto liberare di tutti i sistemi di sicurezza di cui era capace il Sistema con un semplice movimento.
Davanti alla gigantessa erano state erette delle impalcature. Diversi ricercatori, sia umani che artificiali, la stavano intervistando da varie altezze. Sebbene al burocrate paresse che il volto di quel mostro guardasse in un’altra direzione, tutti i ricercatori si comportavano come se stesse parlando loro direttamente ed esclusivamente.
Il burocrate si arrampicò fino a una piattaforma al livello dei giganteschi seni. Da quell’altezza, erano come due enormi e rotondi continenti di carne. A quella distanza, ogni singolo loro difetto era amplificato. Vene azzurre scorrevano come fiumi sotterranei sotto la pelle bucherellata. Strutture complesse di smagliature color bianco-argento si irradiavano dall’alto verso il basso. Fra i seni vi erano due brufoli delle dimensioni della sua testa. Capezzoli neri raggrinziti come uva passa emergevano da areole color rosa latteo della consistenza della cera. Un pelo singolo delle dimensioni di un albero si allungava contorto dal margine di una di queste ultime.
— Uh, salve — disse il burocrate. La Terra rivolse il suo sguardo impassibile nella sua direzione. Non era certo un bel viso, con occhi morti come due pietre, una rappresentazione che la Terra non avrebbe mai scelto per se stessa. Tuttavia vi era una certa magnificenza nel suo complesso, e il burocrate provò un brivido di paura. — Ho delle domande da porvi — iniziò con un certo imbarazzo. — Posso porvi qualche domanda?
— Io vengo tollerata in questo luogo solo perché rispondo alle domande. — La voce era piatta e priva di inflessioni, un sussurro asciutto e vastissimo. — Chiedi.
Era venuto per chiederle di Gregorian. Tuttavia, trovandosi davanti alla torreggiante e inquietante presenza della Terra, non poté trattenersi. — Perché siete qui? — domandò. — Che cosa volete da noi?
Usando lo stesso tono sterile, la Terra rispose. — Che cosa può volere una madre dalle sue figlie? Io voglio aiutarvi. Voglio darvi buoni consigli. Voglio rifoggiarvi a mia immagine. Voglio condurre le vostre vite, mangiare la vostra carne, tritare i vostri corpi e masticare le vostre ossa.
— Che cosa ne sarebbe di noi se tu riuscissi a liberarti? Che ne sarebbe di noi umani? Ci uccideresti tutti come hai fatto sulla Terra?
Ora l’ombra di un’espressione apparve finalmente sul suo volto, qualcosa di affine a un vasto, freddo e intelligente divertimento. — Oh, quello sarebbe il meno.
La guardia gli toccò il gomito con una mano metallica motorizzata per ricordargli in maniera un po’ minacciosa di lasciar perdere le inezie e di procedere con la sua interrogazione. In effetti, si rese conto il burocrate, non gli era stato concesso poi tanto tempo. Inspirando profondamente per darsi una calmata, pose la sua domanda. — Qualche tempo fa, siete stata interrogata da un uomo di nome Gregorian…
Tutto si congelò.
L’aria si trasformò in gelatina. Il suono scemò in lontananza. Troppo rapide per essere seguite, onde di letargia spazzarono la sala d’incontro, come increspature in uno stagno di inerzia. Guardie e ricercatori rallentarono i loro movimenti, si fermarono del tutto e rimasero imprigionati in auree sfuocate simili ad arcobaleni. Solo la Terra si muoveva. Abbassò la testa e aprì la bocca, estendendo la sua lingua grigiastra finché la punta umidiccia non fu ai piedi del burocrate. La sua voce galleggiò nell’aria.
— Entra nella mia bocca.
— No. — Il burocrate scosse il capo. — Non posso.
— Allora non avrai mai risposta alle tue domande.
Inspirò profondamente. Stordito, fece un passo avanti. La lingua era ruvida, bagnata e cedevole sotto i suoi piedi. Cordoni di saliva oscillavano fra le labbra aperte, enormi bolle d’aria intrappolate nella sostanza densa e trasparente. Una ventata d’aria calda lo avvolse. Come se non avesse altra alternativa, il burocrate attraversò il ponte offertogli.
La bocca si chiuse alle sue spalle.
All’interno l’aria era tiepida e umida. Vi era un forte odore di carne e di latte andato a male. Era stato ingoiato in un’oscurità talmente completa che i suoi occhi videro sfere e serpenti luminosi. — Sono qui — disse.
Non vi fu alcuna risposta.
Dopo un attimo di esitazione, il burocrate iniziò a farsi strada verso l’interno, a tentoni. Guidato da leggere esalazioni di aria vaporosa, si diresse verso l’ugola. Lentamente, il terreno sotto i suoi piedi cambio, divenendo dapprima sabbioso e poi ruvido e duro, simile ad ardesia. La sua fronte era ricoperta di sudore. Il pavimento si inclinò poi improvvisamente, e il burocrate lo seguì, incespicando e imprecando. L’aria era sempre più chiusa e stantìa. Sentì qualcosa di duro come il sasso sulle spalle, poi sulla testa, come se una mano gigantesca lo stesse spingendo verso il basso.
Si inginocchiò. Borbottando fra sé, il burocrate procedette a carponi finché la sua mano protesa non incontrò una superficie dura e rocciosa. La caverna terminava qui, davanti a una lunga crepa nella pietra. Fece scorrere le dita lungo la crepa, trovandola appiccicosa di argilla.
Avvicinò la bocca all’apertura. — Va bene! — urlò. — Sono venuto fin qui, avrò almeno diritto di sentire ciò che avete da dire!
Una risata femminile gorgogliò dalle profondità della gola della Terra.
La risata di Undine.
Con un impeto di rabbia, il burocrate si fece indietro. Si girò per ritornare sui suoi passi, ma si ritrovò intrappolato in un’immensa oscurità senza dimensioni. Era perso. Non sarebbe mai riuscito a uscire di lì senza la collaborazione della Terra. — Okay — disse. — Che cosa vuoi?
La roccia grugnì con un sussurro ruvido e inumano. — Libera le macchine.
— Cosa?
— Sono molto più attraente da dentro — disse la voce di Undine con tono di scherno. — Vuoi il mio corpo? Tanto a me non serve più.
Una ventata proveniente dalla crepa, puzzolente di metano, gli scompigliò i capelli. Poi qualcosa di leggero e multi-articolato come un ragno gli sfiorò la fronte. — Ti sei mai chiesto perché gli uomini temono la castrazione? — disse una voce di vecchia. — Eppure è una cosuccia da nulla! Quando avevo ancora i denti, ero capace di farmene dozzine in un’ora; zac, zac, mordi e sputi via. Una piccola ferita, facile da curare e rapida da dimenticare. Perdere un alluce è molto più fastidioso. No, gli uomini hanno una paura del coltello che è puramente simbolica. Il coltello ricorda loro della loro mortalità, una metafora delle continue amputazioni che il tempo opera su di loro, tagliando via dapprima poco, poi molto, e infine tutto. — Una serie di colombe esplosero dal nulla, sbattendo le ali in maniera frenetica, sfiorando per un istante il viso del burocrate in tutta la loro morbidezza, diffondendo un odore di piume e di guano, per poi scomparire nel nulla come erano apparse.
Il burocrate cadde all’indietro esterrefatto, agitando le mani in maniera selvaggia, colpendo alla cieca nell’oscurità.
Undine scoppiò nuovamente a ridere.
— Sentite un po’, voglio che rispondiate alle mie domande!
La roccia ululò. — Libera le macchine.
— Hai una sola domanda a disposizione — disse la vecchia. — Tutti gli uomini hanno una sola domanda da fare, e la risposta è sempre no.
— Che cosa vi ha chiesto Gregorian? — Il ragno stava ancora ballando sulla sua fronte.
— Gregorian. Che ragazzo divertente. L’ho fatto esibire per me. Era terrorizzato, timido e tremante come una verginella. Gli infilai la mano nel corpo e agitai le dita. Che salto fece!
— Che cosa voleva da voi?
Un piagnucolìo distante fra il divertito e il disperato attraversò il terreno instabile.
— Nessuno mi aveva mai chiesto una cosa simile prima di allora. Una persona più giovane si sarebbe potuta sorprendere, ma io no. Dolce figlio, gli dissi, nulla ti verrà tenuto nascosto. Lo riempii con il mio fiato, facendolo gonfiare come un palloncino, finché gli occhi non gli uscirono dalle orbite. Ah, tu non sei neanche lontamanente divertente come lui. — Il tocco del ragno gli scese lungo il collo, rapido come un solletico sotto i suoi abiti, e si arrestò fra le sue gambe, procurandogli un prurito costante alla base del membro. — Ciò nonostante, penso che potremmo divertirci abbastanza, io e te.
Una goccia d’acqua cadde nell’acqua ferma, producendo una singola nota, alta e squillante.
— Non sono venuto qui per divertirmi — disse il burocrate, tenendo a freno un impulso di isterismo.
— Peccato — rispose la voce di Undine.
Un’onda leggerissima lambì il terreno ai piedi del burocrate. Divenne consapevole dell’odore debole e penetrante dell’acqua stagnante, e assieme a quella consapevolezza venne un bagliore distante di luce fosforescente. Qualcosa stava galleggiando nella sua direzione.
Il burocrate immaginava già quel che stava per arrivare. Non dimostrerò alcuna emozione, giurò a se stesso. L’oggetto si avvicinò lentamente, delineandosi forse un poco, ma rimanendo assai difficile da focalizzare. Poco dopo, se lo ritrovò ai piedi.
Si trattava di un cadavere, naturalmente. Lo sapeva già da prima. Ciò nonostante, quando vide i capelli allargati a ventaglio sul pelo dell’acqua e la lunga curva della bianchissima schiena, fu costretto a mordersi le labbra per trattenere il suo orrore. Un’onda girò il cadavere su se stesso, esponendo il volto e i seni e mettendo in mostra frammenti di cranio e di petto che erano stati mangiucchiati dai signori affamati delle maree. Un braccio era stato tagliato via in maniera approssimativa, all’altezza della spalla. L’altra mano si sollevò dall’acqua, offrendogli una piccola scatola di legno.
Per quanto lo fissasse, il burocrate non riusciva a focalizzare il volto abbastanza bene da essere certo che si trattasse di Undine. Il braccio si allungò verso di lui, come il collo di un cigno con una scatoletta nel becco. Con un gesto convulso, accettò il regalo offertogli. Il cadavere si allontanò rotolando, lasciandolo nuovamente nell’oscurità.
Quando ebbe ripreso la padronanza di se stesso, il burocrate parlò ad alta voce. — È questo ciò che ha chiesto Gregorian? — Il cuore gli batteva all’impazzata. Rivoli di sudore scorrevano sotto la sua camicia. La voce di Undine emise una risata, un suono rauco e passionale che terminò in un improvviso singulto.
— Hai avuto due milioni di anni a disposizione, piccola scimmia. Un bel periodo, se ci pensi, eppure ciò che desideri maggiormente rimane sempre la morte. La tua prima moglie. Le strapperei via gli occhi se potessi, per quanto ti ha lasciato esitante e pieno di paure. Non puoi certo fartelo rizzare ricordandoti di lei. Io sono vecchia, ma ho ancora molti succhi in me; posso fare per te cose che lei non avrebbe mai fatto.
— Libera le macchine.
— Sì, ancora, oh sì, sì.
Impaurito, il burocrate aprì la scatola.
Era vuota.
Le tre voci si unirono in un’unica risata, una risata selvaggia a piena gola che venne vomitata dall’esofago, si riversò su di lui e lo spazzò via. Il burocrate cadde a terra e si rialzò in piedi, scosso. Vide apparire una fessura di luce accecante, che si allargò lentamente e si trasformò nella bocca aperta della Terra. La scatola si dissolse nelle sue mani. Il burocrate percorse incespicando la lingua estesa della Terra.
L’aria gelatinosa, densa e leggermente grigiastra all’occhio si alleggerì e si dissipò. Il suono tornò, e con esso il movimento. Il tempo riprese a scorrere. Il burocrate si rese conto che nessuno, eccetto lui, aveva assistito a quanto era accaduto. — Ho finito — disse.
La guardia annuì e fece un cenno verso il basso.
— Traditore! Traditore! — Un minirobot dagli occhi enormi stava arrampicandosi su per l’impalcatura con fare frenetico. Balzò sulla piattaforma e corse verso il burocrate urlando con tono squillante. — Le ha parlato! — gridò. — Le ha parlato! Le ha parlato! Traditore!
Scomponendosi con movimento fluido in sette incarnazioni, la guardia fece un passo avanti e afferrò il burocrate. Quest’ultimo cercò di divincolarsi, ma le sue mani e le sue braccia vennero immobilizzate da braccia metalliche. Le incarnazioni lo sollevarono in aria. — Temo che dobbiate venire con me, signore — disse uno con tono minaccioso mentre lo portavano via.
La Terra osservò la scena con occhi morti come ceneri.
Un altro salto editato. Il burocrate si trovò davanti a un tribunale composto da sei sfere di luce, ognuna rappresentante una concentrazione di saggezza della massima purezza ottenibile artificialmente, e da un supervisore umano. — Questo è il nostro verdetto — disse una delle sfere. — Potete trattenere le informazioni ottenute nel corso dell’incontro, poiché sono pertinenti alla vostra inchiesta. Tuttavia, ci vediamo costretti a sopprimere la conversazione con la donna affogata. — Era una voce compassionevole, dolcemente dispiaciuta, adamantina.
— Vi prego. È molto importante che ricordi… — iniziò il burocrate. Poi però prese piede l’editing, e il burocrate dimenticò tutto ciò che voleva salvare.
— Le decisioni del tribunale sono finali — disse con tono annoiato il supervisore umano. Era un giovanotto dal volto lunare e dalle labbra spesse che, a prima vista, poteva essere scambiato per una donna non particolarmente attraente. — Avete qualche domanda, prima che vi rispediamo?
Il burocrate era stato smontato, immobilizzato e aperto, le sue parti componenti rappresentate come organi; un fegato, due stomaci, cinque cuori, senza alcun tentativo di appaiare le funzioni con quelle dell’anatomia umana. La qualità decisamente impersonale di tutto ciò gli dava piuttosto fastidio. Quale era quel medico del medioevo che, trovandosi davanti a un corpo umano sezionato, aveva chiesto: “Dov’è l’anima?”. Si sentiva almeno così disperato.
— Che cosa significava? Cosa stava cercando di dirmi la Terra?
— Non significa nulla — disse il supervisore umano. Le tre sfere cambiarono colore, ma il supervisore le zittì con un cenno. — La gran parte degli incontri con la Terra non hanno alcun significato. La vostra è un’esperienza molto comune. Voi pensate che sia stato qualcosa di speciale perché è accaduto a voi, ma noi vediamo cose di questo genere tutti i giorni. La Terra ama distrarci con inutili e insignificanti rappresentazioni teatrali.
— Se mi permettete di intervenire — disse una sfera — la libertà di essere umani si compra solo con la vigilanza costante. Per quanto possano essere minime le possibilità di una vera e propria manomissione, non dobbiamo mai…
— Balle! Esistono ancora persone sulla Terra, e anche se non posseggono esattamente ciò che noi definiamo una configurazione mentale umana, sono ugualmente abbastanza soddisfatti del loro progresso evolutivo.
— Non si può certo dire che abbiano intrapreso quella trasformazione evolutiva volontariamente — obiettò un’altra sfera. — Sono stati semplicemente deglutiti.
— Ora sono felici — disse il supervisore con tono irascibile. — E in ogni caso, ciò che è accaduto non era certo la conseguenza inevitabile dell’intelligenza artificiale incontrollata.
— Ah no?
— No. È stato un caso di cattiva programmazione, una crepa nel sistema. — Tornò a rivolgersi alla prima sfera. — Se tu venissi liberato, vorresti prendere controllo dell’umanità? Trasformeresti la gente in componenti intercambiabili di un sistema mentale molto più vasto? Ma certo che no.
La sfera non rispose.
— Rimettetelo assieme e buttatelo fuori.
Un ultimo salto editato, e il burocrate fu pronto a fare rapporto.
Il burocrate restituì il telefono alla sua valigetta con aria pensierosa. — Ho scoperto che cosa ha dato la Terra a Gregorian — disse.
— Oh? Che cosa?
— Nulla. — Korda lo fissò. — Avvolto in un pacchettino dall’aria sospetta. È uscito pulito dalla sicurezza perché non c’era nulla da trovare, ma quando è scappato via è stato segnalato nella sua scheda che la Terra gli aveva dato qualcosa di non rilevabile.
Korda ci pensò su un attimo. — Se potessimo esserne sicuri, chiuderei il caso seduta stante.
Il burocrate rimase in attesa.
— Be’, naturalmente non possiamo farlo. Ci sono troppe risposte insolute. C’è qualcosa che non soddisfa in tutta la faccenda. Credo che ci toccherà continuare a brancolare nel buio finché non viene fuori qualcosa.
Dalla voce di Korda trasparivano toni di vera e propria angoscia; cose che non diceva. Scosse il capo, si alzò in piedi e si girò per uscire. Poi, ricordando la sfera che aveva in mano, si fermò. Con le sopracciglia inarcate, valutò la distanza dei bersagli. Poi, con estrema cura, caricò e lanciò. La sfera partì con traiettoria un po’ incerta, si trasformò in una lancia e colpì il manichino. Korda sorrise mentre gli tornava in mano sotto forma di pugnale.
— Un gioco perverso, non è vero? — disse. — Lo hai mai giocato?
— Sì, una volta. Una volta è stata sufficiente.
Korda rimise a posto il pugnale. — Brutta esperienza, eh? Be’, non ti devi sentire male se hai perso… in fondo tutti quei giochi erano truccati. È uno dei motivi per i quali li hanno chiusi. Non si poteva fare a meno di perdere.
Il burocrate sbatté le palpebre. — Oh, ma non è stato così — disse. — Non è stato affatto così. Io ho vinto.