L’aria si riempì di formiche volanti, le loro ali macchie sfuocate e iridescenti, piccoli arcobaleni che si sovrapponevano formando oscuri schemi di diffrazione, cerchi e mezzelune che scomparivano prima che l’occhio riuscisse a coglierli. Il burocrate alzò lo sguardo e scomparvero, lanciate nel loro volo di morte verso il mare.
— Ma è assurdo — borbottò Chu.
Il burocrate si allontanò di un passo dall’aeromobile. — È molto semplice, invece. Voglio che tu decotti e che ti diriga verso sud finché non sei ben al di là dell’orizzonte rispetto a Tower Hill. Poi fai una virata di 180 gradi e torni indietro volando radente alle cime degli alberi. Verso est c’è una piccola radura, accanto a un torrente. Mi aspetterai lì. Ci riuscirebbe persino un bambino.
— Sai benissimo che cosa intendo.
— Oh, va bene. Hai visto il modo in cui ci hanno trattati all’hangar? — Dalla parte opposta della pista vi era un groppo di operai surrogati, tutti arrugginiti e mezzi claudicanti, che ammucchiavano le lamiere di un hangar smantellato su una piattaforma mobile. — Hai notato il modo in cui hanno insistito affinché ce ne andassimo prima di mezzogiorno? Hai percepito che volevano che ce ne andassimo al più presto possibile?
— Sì, e allora?
— E allora ti sembra plausibile che qualcuno mandi un’aeronave da carico fin quaggiù due giorni prima dell’arrivo delle maree solo per portare via un hangar modulare? — Non attese nemmeno la risposta di Chu. — È evidente che hanno ricevuto l’ordine di farmi andare via il più velocemente possibile. E io intendo scoprire il perché. — Fece un altro passo indietro, nascondendosi fra l’ombra degli alberi, quindi si rivolse al velivolo. — Decolla.
Il cupolino si chiuse. I motori presero vita. L’aeromobile era un ottimo esempio di alta ingegneria, un apparecchio moderno e filante del genere che solitamente si vedeva solo nei mondi galleggianti. La sua pelle smeraldina si increspò dietro al calore dei reattori, poi il piccolo velivolo sfrecciò via, percorrendo un tratto di pista equivalente a 12 volte la sua lunghezza per poi innalzarsi con un possente rombo di motori. Nel giro di un attimo fu scomparso completamente.
Il sentiero che attraversava il bosco era tranquillo. Le piogge avevano fatto mutare le foghe, trasformandole in macchie color viola e cobalto, come se tutto il Tidewater fosse stato azzurrato nel passare di cinque secondi. La luce che filtrava fra le foglie era piuttosto triste, come per ricordare l’imminente trasformazione che avrebbe subito quella terra nel giro di qualche giorno.
Ai piedi di Tower Hill, gli alberi iniziarono a diradarsi. La collina era di un color verde logoro, e fra una macchia di erba aliena terrestre e l’altra si intravedevano chiazze di gesso bianco. Era tutta disseminata di tende, bandiere, palloni e parasole dai colori vivaci. In cima alla collina vi era l’antica torre, dipinta in maniera più che vistosa con supergrafici color rosa e arancione, un’isola di estetica estraplanetaria che si scontrava violentemente con l’abito da tragedia della foresta autunnale.
Il pendìo della collina era affollato di surrogati, come fosse un formicaio nel quale qualche bambino avesse infilato un bastone per gioco. Ormai la vita umana era stata praticamente prosciugata dal Tidewater, ed era come se fossero venuti fuori tutti i demoni per tenere il loro carnevale privato.
Il burocrate si diresse verso la torre.
Le risate metalliche risuonavano attorno a lui come milioni di grilli. Da un lato, vi era un quartetto di surrogati che strimpellavano strumenti a corda. Da un altro lato, una piccola folla acclamava due lottatori cromati pressoché identici. Più avanti una dozzina di surrogati danzavano cantando in cerchio, mano nella mano. Qua e là vi era anche qualche coppia che passeggiava, abbracciati o appoggiati uno alla testa dell’altro, tutti assolutamente indistinguibili l’uno dall’altro. Era il trionfo dell’asessualità.
— Fatti un drink!
Si era fermato a riprendere fiato sotto l’ombra di un padiglione. Ora un surrogato, con un profondo inchino, gli stava offrendo una mano vuota. Il burocrate sbatté le palpebre, si rese conto che era stato scambiato per un surrogato, quindi accettò il bicchiere invisibile con un cortese cenno del capo. Provava una certa perversa soddisfazione nel sapere che, fra tutte le centinaia di persone presenti in quel luogo, lui era l’unico che riusciva a vedere gli scheletri metallici sotto l’illusione della carne. — Grazie.
— Ti stai divertendo?
— A dir la verità, sono appena arrivato.
Il surrogato si fece avanti con passo malfermo, dandogli una pacca sulla spalla, forse con eccessiva confidenza. Sullo schermo sorrideva un volto paffuto e malsano. — Avresti dovuto esserci prima che venissero portati via i locali. Potevi affittare una donna e farti portare in giro sulla sua schiena come fosse un cavallo. Schiaffoni sul culo per farla muovere! — Fece l’occhiolino. — Sai, quella torre lassù una volta era…
— Una trasmittente televisiva. Sì, conosco la storia.
Con la bocca stupidamente spalancata, il surrogato lo fissò in silenzio abbastanza a lungo da far capire al burocrate che la conversazione era ormai diventata noiosa. — No, no, era un bordello. E si poteva comprare qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa! Mi ricordo una volta, eravamo io e mia moglie e…
Il burocrate appoggiò il suo drink. — Vogliate scusarmi, ho da fare.
Il pavimento della sala principale della torre era affollatissimo.
Svariati scheletri neri bighellonavano seduti al bancone circolare del bar centrale, mentre altri chiacchieravano fra loro nelle varie cabine. Era un luogo caldo e buio, intasato di maiali volanti di ottone e di manichini di feltro, illuminato solo dagli schermi delle facce degli avventori stessi e da una serie di schermi televisivi sistemati agli angoli del soffitto.
Il burocrate si fermò accanto a un gruppo di surrogati che stavano guardando gli schermi televisivi. Baracche sconnesse bruciavano. Cortei di gente inferocita che cantava slogan e agitava i pugni con rabbia affollavano le vie. Sotto un cielo fumoso, i poliziotti colpivano i manifestanti con manganelli elettrici. Era un piccolo sprazzo di follia, una visione fugace da fine del mondo. — Cosa succede? — domandò.
— Sommossa popolare nel Fan — disse un surrogato. — È un quartiere di Port Richmond, quello appena sotto le cascate. Le autorità addette all’evacuazione hanno beccato un ragazzino che dava fuoco a un magazzino e lo hanno picchiato a morte.
— È una cosa disgustosa — disse un altro. — Si stanno comportando come degli animali. Anzi, peggio degli animali, perché si stanno anche divertendo.
— Ma il bello è che la gente sta venendo fin dal Piedmont per unirsi alla sommossa. Soprattutto adolescenti, per loro è come un passaggio rituale. È stato persino chiuso il Pendio, pur di tenerli fuori.
— Dovrebbero frustarli tutti. Si comportano a questo modo perché vivono su un pianeta, lontani dalle costrizioni della civiltà.
Intervenne un altro surrogato. — Oh, io credo che c’è un po’ di selvaggio in ognuno di noi. Se solo fossi un po’ più giovane, sarei laggiù anch’io.
— Certo che ci saresti.
Un piccolo bagliore di luce attirò per un attimo l’attenzione del burocrate. Una porta che dava sulla dispensa del bar si era aperta dietro al bancone e, prima che si richiudesse, gli era parso di vedere l’immagine quasi subliminale di un volto esangue e affilato. Era più un’impressione che altro, ma era quanto bastava per far decidere al burocrate che sarebbe rimasto in attesa per vedere se fosse successo di nuovo.
Rimase pressoché immobile per un certo tempo. Dopo un po’ la porta si aprì di nuovo, e apparve per un attimo un volto furtivo. Sì! Era una donna. Una donna minuta, magra, simile a un topolino.
Qualcuno che conosceva.
Interessante. Il burocrate fece un giro della sala, guardandosi attorno con particolare attenzione. La dispensa del bar aveva due porte, una opposta all’altra. Bastava un attimo per infilarsi dietro il bancone ed entrare. Tornò al punto da cui era partito, dove trovò una poltrona nascosta da una cascata di rampicanti tentacolari.
Passarono ore. Gli schermi televisivi erano una ruota impressionistica di iceberg che si sgretolavano, di città di tela cerata per la gente delle chiatte del bestiame, di ghiacciai precataclismici. Il burocrate non si annoiò nell’attesa. A intervalli piuttosto lunghi, ma incredibilmente regolari, si apriva la porta e appariva quel volto esangue; scrutava rapidamente fra la folla, poi la porta si richiudeva. Stava decisamente aspettando qualcuno.
Dopo lunga attesa, un nuovo avventore si presentò nel bar. Si avvicinò al bancone e vi appoggiò un mazzetto di fiori, alghetti e policromi mezzi spiaccicati colti sulla collina sottostante. Prese in mano un tovagliolo invisibile e lo rigirò. Poi passò le mani sotto il bordo del bancone, come se cercasse qualche oggetto nascosto. Quando il barista gli portò il suo drink, sollevò il bicchiere inesistente fin sopra la testa, alzando lo sguardo per esaminarne il bordo inferiore.
Il burocrate conosceva quei gesti.
Poco dopo, si aprì nuovamente la porta della dispensa. Il volto della donna riapparve, più pallido che mai nella semi-oscurità. Vide il nuovo arrivato, fece un cenno con il capo, quindi sollevò un dito: un minuto. La porta si richiuse.
Il burocrate si avvicinò con movimento fluido all’estremità del bancone e vi si infilò dietro. Un automa barista gli si avvicinò immediatamente; gli mostrò il suo bracciale del censimento. Verde, esente. Mentre l’apparecchio tornava sui suoi passi, il burocrate entrò nella dispensa.
Cruda e violenta dopo la penombra del bar, la lampadina della dispensa lo accecò per un istante. Le pareti erano interamente ricoperte di scaffali vuoti. La donna era in punta di piedi e stava prendendo una scatola. Le afferrò un braccio.
— Salve, Esme.
Con uno squittìo aspirato, la donna si divincolò. La scatola sbatté contro uno scaffale. Il burocrate non la mollò, e lei continuò a cercare di liberarsi, senza però lasciare la scatola. — Come sta vostra madre?
— Non potete…
— È ancora viva, eh? — Leggeva il panico in quegli occhietti scuri. Il burocrate ebbe la sensazione che se avesse stretto la sua presa anche solo di un poco, avrebbe sentito le ossa sbriciolarsi sotto le sue dita. — È così che Gregorian vi ha convinta a fare le commissioni per lui, non è vero? Vi ha promesso che avrebbe risolto i vostri problemi. Dite di sì. — Le diede uno scossone, e la donna annuì. — Parlate! Se voglio vi posso anche fare arrestare. Gregorian vi sta usando come corriere, giusto?
La spinse avanti, intrappolandola fra gli scaffali e la massa del suo corpo. Sentiva il battito del suo cuore. — Sì.
— Vi ha dato questa scatola?
— Sì.
— A chi la dovete consegnare?
— L’uomo… l’uomo al bancone. Gregorian ha detto che avrebbe portato dei fiori.
— Che altro?
— Niente. Ha detto solo che se l’uomo aveva qualche domanda, avrei dovuto dirgli che le risposte erano tutte nella scatola. — Ora Esme era praticamente immobile. Il burocrate fece un passo indietro, liberandola dalla presa. Le prese la scatola dalle mani, e la donna la seguì con sguardo avido, come se in quella scatola vi fosse il suo stesso cuore.
Il burocrate si sentiva vecchio e cinico. — Ditemi Esme — disse, e sebbene nelle sue intenzioni vi fosse un tono gentile, il risultato fu alquanto diverso — che cosa pensate che risulterebbe più facile per Gregorian, uccidere vostra madre, o semplicemente mentirvi? — Il volto di Esme era come una fiamma. Il burocrate non era più in grado di leggerlo. Ora non era più sicuro che fosse motivata esclusivamente da qualcosa di tanto semplice e pulito come poteva essere la vendetta. Ma ormai non aveva più alcuna speranza di influenzare le sue azioni. Indicò la porta dalla parte opposta. — Ora ve ne potete andare.
Quando fu uscita, il burocrate aprì la scatola. Quando vide ciò che conteneva inspirò istintivamente un po’ d’aria attraverso i denti, ma non provò sorpresa. Solo un pesante senso di malinconia. Uscì, e si avvicinò al tavolo del surrogato in attesa. — Questo è per te — disse. — Da parte di tuo figlio.
Korda alzò lo sguardo e lo guardò con espressione assente.
— Non so di che cosa stai parlando.
— Risparmiati. Sei accusato di tradimento, uso di tecnologia bandita, violazione dell’embargo, abuso di potere, eccetera, eccetera. Non credere che non sia in grado di provarlo. Basta una mia parola, e Philippe non ti darà scampo. Rimarranno solo i segni dei suoi denti sulle tue ossa.
Korda appoggiò le mani sul bancone e abbassò il capo. Cercando di riprendere il controllo di se stesso: — Cosa vuoi sapere? — domandò infine.
— Dimmi tutto — rispose il burocrate. — Dal principiò.
Il fallimento portò il giovane Korda al rifugio di caccia a Shanghai. Era entrato a far parte del servizio pubblico in un’epoca in cui il Palazzo dell’Arcano era ancora nuovo e la cultura era satura di storie di tecnologie pericolose controllate e di società ricostruite. Lui intendeva superarli tutti. Ma il cavallo selvaggio della tecnologia era già stato domato e imbrigliato. Le mura erano state costruite, l’universo era stato contenuto. Non vi erano più nuovi mondi da conquistare, e quelli vecchi erano stati ben murati. Come molti altri della sua generazione, anche Korda rimase amareggiato e sconcertato da questa rivelazione.
Ogni giorno usciva in barca fra le paludi, o a piedi nelle basse colline coralline, e con intenso disgusto per se stesso uccideva quante più creature possibile. A volte riempiva le paludi attorno a sé di piume, e ancora non era soddisfatto. Uccise diversi behemoth, ma non prese alcun trofeo, e naturalmente non erano buoni da mangiare.
Un pomeriggio particolarmente caldo, mentre camminava in un prato con il fucile sulla spalla, vide una donna che scavava in cerca di anguille. La donna interruppe il suo lavoro, si tolse la camicetta con fare casuale e la usò per asciugarsi il sudore dalla fronte e dai seni. Korda si fermò e la fissò.
La donna lo notò e sorrise. Dapprima, vedendola da una certa distanza, gli era sembrata una donna qualunque, ma poi, grazie a un piccolo cambiamento della luce, constatò che si trattava di una donna bellissima. Torna al tramonto, gli disse, con delle galline, e io le cucinerò per te.
Quando fece ritorno, la donna aveva già preparato il fuoco, ed era seduta su una coperta. Korda appoggiò le galline selvatiche ai suoi piedi. Più tardi, quando ebbero entrambi mangiato la loro razione del cibo che soddisfa ma non nutre, fecero l’amore.
Già da allora, senza quella lucidità che viene ripensando alle cose in retrospettiva, gli era parso che il volto della donna cambiasse mentre facevano l’amore. Con il baluginio delle fiamme era difficile capirlo, eppure gli sembrava a volte più tondo, a volte più quadrato, a volte più magro. Era come se la donna avesse avuto mille volti che affogavano appena sotto la sua pelle e questi volti tentassero di riemergere in superficie ogni qualvolta la passione le faceva perdere il controllo. Lo cavalcò con furia selvaggia, come fosse un cavallo da consumare in una sola galoppata. Gli insegnò a controllare l’orgasmo, affinché potesse durare per tutte le ore che lei desiderava.
— Ti ha tatuato? — domandò il burocrate.
Korda assunse un’espressione perplessa. — No, certo che no.
Quando la donna ebbe finito con lui, le braci erano ormai quasi spente. Korda si accasciò lentamente al suo fianco, chiudendo gli occhi, sprofondando nell’incoscienza e nel sonno. Ma mentre si lasciava andare all’oblìo, ebbe una visione del volto della sua compagna durante un orgasmo; un volto che si allungava e si appiattiva, diventando spettrale e simile a un teschio.
Non era un volto umano.
Si svegliò solo e infreddolito nella luce grigiastra della falsa alba. Il fuoco era spento e la coperta gli era stata strappata da sotto. Korda rabbrividì. Il suo corpo era graffiato, segnato, morsicato e congelato. Si sentiva come se lo avessero trascinato in mezzo ai rovi. Si rivestì e tornò all’albergo.
La gente del posto gli rise dietro. Quella con cui ti sei andato a immischiare, gli dissero, era una donna spettro; fortuna tua che non era in calore. Un anno fa c’era un pilota turistico qui, e ci ha raccontato che suo fratello è stato fatto fuori da una di quelle. Gli ha morso via i capezzoli e le balle, e gli ha leccato la pelle fino ai muscoli. Quello delle pompe funebri ci ha messo una settimana a togliergli il sorriso dalle labbra.
Nemmeno al Palazzo dell’Arcano lo presero seriamente. Una signorina molto cortese gli disse che il suo avvistamento era anedottico e nemmeno fra i migliori, ma che comunque lo avrebbe archiviato da qualche parte in qualche bottega di bottiglie.
Ma Korda non se ne preoccupò. Ormai aveva trovato uno scopo.
Ascoltandolo, il burocrate non poté fare a meno di meravigliarsi. Lui e Korda non erano mai stati molto vicini, ma avevano lavorato assieme per anni. Da dove veniva fuori quello spirito da fanatico? E come aveva fatto a tenerglielo nascosto così a lungo? — Come facevi a conoscere l’ubicazione di Ararat? — gli domandò.
— Attraverso il Comitato. Quando ne venni a conoscenza era un’operazione piuttosto marginale, con cultisti, mistici e altri rami morti che dovetti faticare abbastanza per liberare, ma vi erano associati anche dei vecchi veterani che avevano una certa influenza, ai loro tempi. Ho raccolto da loro i frammenti di informazioni di cui avevo bisogno.
— Così, hai rubato abbastanza biotecnologia da permetterti di creare un figlio non registrato. Gregorian. Solo che sua madre se la diede a gambe, portandoselo dietro. Fosti sfortunato.
Furono anni duri, ammise Korda. Ma lui si era dato da fare sempre di più, sviluppando progetti per la protezione e la preservazione degli spettri, una volta che sarebbero stati individuati, oltre che per santuari e programmi di accoppiamento, di acculturazione e di preservazione della cultura. Quegli anni furono molto produttivi per lui, anche se non riuscì mai a raggiungere il suo obiettivo primario, ovvero la localizzazione o perlomeno la prova dell’esistenza degli spettri stessi.
Ma Korda tenne sempre gli occhi bene aperti, e un giorno uno dei suoi contatti nel Tidewater trovò Gregorian.
— Come fece?
— Io conoscevo esattamente il suo aspetto, capisci? Ogni anno facevo fare nuove immagini del suo volto; i suoi equilibri ormonali erano stati leggermente alterati in modo che non mi assomigliasse troppo. C’è solo una leggera somiglianza. L’ho reso un po’ più grezzo di lineamenti e un po’ meno predisposto all’ingrassamento. Tutto qui. Non guardarmi a quel modo. Non l’ho fatto per orgoglio personale.
— Continua.
I rapporti fra padre e figlio furono piuttosto tesi fin dal principio. Gregorian si rifiutava di lavorare per suo padre nel Tidewater. Lasciava intendere di sapere molto a proposito degli spettri, ma allo stesso tempo dimostrava un totale disinteresse nei confronti del problema della sopravvivenza della loro specie. Korda pagò comunque per l’educazione di Gregorian, e gli spianò la strada per una buona posizione nei laboratori biotecnologici del Cerchio Esterno. Il tempo era dalla sua parte. Non vi erano opportunità che potessero sfidare un uomo dalle abilità di Gregorian-Korda. Prima o poi ne sarebbe venuto fuori.
Korda pensava di capire perfettamente Gregorian.
Ma si sbagliava di grosso. Gregorian, trovando lavoro nel Cerchio Esterno, vi rimase fino a poco prima dell’arrivo delle maree del giubileo, non permettendo a Korda di usarlo in alcun modo. Korda fece finta di niente.
Poi Gregorian scomparve. Svanì all’improvviso, senza preavvisi e senza lasciare messaggi, in maniera deliberatamente sospetta. Vennero fatte delle indagini e si venne a sapere che, poco prima della sua partenza, Gregorian aveva intervistato l’agente della Terra, che gli aveva consegnato qualcosa. Di qualunque cosa si trattasse, a quel punto nessuno era più disposto a credere che fosse una cosa innocua. Venne suonato l’allarme, e il tutto andò a finire sulla scrivania di Korda.
Korda aveva quindi affidato il caso al burocrate.
— Perché proprio io?
— Dovevo per forza mandare qualcuno, e al momento eri tu il solo disponibile.
— Okay. Poco dopo la mia partenza, mi hai contattato al carnevale di Rose Hall. Eri vestito da Morte, ed eri molto ansioso di sapere se avevo notizie di Gregorian. Perché lo hai fatto?
Korda sollevò il bicchiere invisibile e se lo portò alle labbra. Stava bevendo in maniera costante, mandando giù un bicchiere dopo l’altro senza riuscire a ubriacarsi. — Gregorian mi aveva appena mandato un pacco. Una manciata di denti, niente di più. Non osavo mandarli a un laboratorio per farli analizzare, ma ero sicuro che fossero denti di spettro. Ne avevo visti a centinaia nei musei. Solo che questi avevano le radici ancora insanguinate. Erano stati cavati di recente.
— È nel suo stile — disse il burocrate con tono asciutto. — E poi che accadde?
— Nulla. Fino all’altro giorno, quando sono stato contattato dalla sua sorellastra che mi ha detto che ci saremmo incontrati qui e mi avrebbe dato le prove di cui avevo bisogno. Tutto qui. Vogliamo aprire la scatola, ora?
— Non ancora — disse il burocrate. — Torniamo indietro di un po’. Qual è il motivo esatto, il motivo originale, per il quale creasti Gregorian? Aveva qualcosa a che fare con i voti decisivi all’interno del Consiglio?
— No! Assolutamente no. Io… io volevo farlo crescere nel Tidewater, capisci? A quell’epoca guardavo già molto avanti, e mi ero reso conto che il motivo per il quale gli spettri erano tanto elusivi era che non volevano effettivamente essere trovati. Cercavano di passare per esseri umani, vivevano in interstizi sociali marginali, in campi di lavoro di immigrati o nei retrobottega di negozietti fuorimano. In fondo bisogna ammettere che sono molto intelligenti e astuti, e in più sono anche molto pochi.
“Per trovarli, avevo bisogno di qualcuno che conoscesse il Tidewater perfettamente, che fosse in grado di muoversi fra la sua gente senza attirare troppa attenzione, una persona che fosse in grado di distinguere fra una dicerìa e una rivelazione. Qualcuno che si sentisse veramente a casa sua, anche dal punto di vista culturale.”
— Con questo non si spiega per quale motivo quel qualcuno dovesse per forza essere anche te.
— Ma di chi altri potevo fidarmi? — domandò Korda con tono di supplica. — Di chi altri?
Il burocrate lo fissò a lungo, quindi spinse il pacchetto verso di lui.
Korda si precipitò sulla scatola e ne aprì il coperchio. Quando vide ciò che vi era dentro, rimase pressoché immobilizzato. — Avanti — disse il burocrate, che improvvisamente si scoprì arrabbiato. — Era questo che volevi, no? Una prova finale e inconfutabile.
Infilò una mano nella scatola e ne estrasse la testa mozzata prendendola per i capelli. Due surrogati che si trovavano nei pressi appoggiarono le loro bevande immaginarie e lo fissarono allibiti. Altri notarono la scena e si affollarono attorno. Lentamente, la sala piombò nel silenzio.
Il burocrate sbatté la testa sul bancone del bar.
Era disumanamente pallida, il naso più lungo di qualsiasi naso umano che avesse mai visto, la bocca priva di labbra, gli occhi troppo verdi. Toccò una guancia con la mano, e i muscoli si contrassero di riflesso, rifoggiando quella parte di testa. Korda fissò il cranio; sullo schermo, la sua bocca si apriva e si chiudeva a intervalli regolari. Non disse una parola.
Il burocrate lo lasciò lì dove era.
Attraverso la porta aperta si intravedeva l’ultimo bagliore del tramonto. Alle sue spalle, i surrogati stavano cantando: “Questi sono gli ultimi giorni, i giorni finali, i giorni che non possono durare”. A un certo punto, un fattorino si materializzò all’altezza del suo gomito. — Vogliate scusarmi, signore — mormorò con tono discreto. — C’è una signorina che desidera vedervi. È qui in persona, ed è piuttosto insistente. Dice che si tratta di una questione importante.
Esme, pensò il burocrate tristemente, quando la finirai? Era quasi tentato di andarsene senza nemmeno parlarle. — Va bene — disse infine. — Fai strada.
L’apparecchio lo scortò a un ascensore nascosto, poi fino a una camera da letto posta appena sotto la cupola bulbosa, dove lo abbandonò, lasciando la porta aperta. Le pareti erano soffuse di una luce morbida, e in quella luminosità artefatta il lusso di quella stanza, con i suoi mobili intagliati a mano e il suo enorme letto ricoperto di seta, era qualcosa di pressoché sconvolgente. Il burocrate entrò nella stanza. — Permesso?
Si aprì una porta, ed entrò l’ultima donna al mondo che si sarebbe aspettato di vedere.
Non riuscì a dire nulla.
— Ti sei allenato? — domandò Undine.
Il burocrate arrossì. Tentò di parlare, ma era talmente emozionato che non vi riuscì. Allungò una mano attraverso una distanza incommensurabile e prese quella di Undine. L’afferrò, non come un amante, ma come un uomo che annega. Se l’avesse mollata, lo sapeva, si sarebbe dissolta nel nulla. Il volto della strega riempì la sua visione. Era un volto fiero, bellissimo, malizioso. Scrutando quel volto, il burocrate si rese conto che non la conosceva affatto, che non l’aveva mai conosciuta. — Vieni — riuscì a dire infine.
Undine gli si avvicinò.
— Non venire ancora. Ti voglio insegnare una cosa.
Il burocrate era in uno stato distante e taciturno, non esattamente spossato, lucido e poco predisposto alla parola. Si scostò dal corpo di lei, annuendo.
Undine unì le due mani a coppa, tenendo i polpastrelli verso il basso, formando una specie di foglia, una stretta apertura naturale, nel punto in cui si toccavano le mani. — Questo è il mudra per la vagina. E questo — tenne una mano piatta, e vi sbatté sopra l’altra chiusa a pugno, con il pollice proteso verso l’alto — è il mudra del pene. Ora — tenendo sempre il pollice fuori, allungò il dito mignolo. Si portò le mani fra le gambe e agganciò il mignolo alla sua vagina — mi sono trasformata in Ermafrodito. Mi accetti come tua dea?
— Se l’alternativa è che tu te ne vada, immagino che…
— Tutte queste precisazioni! Ma sei proprio nato per cavillare! Dì di sì.
— Sì.
— Bene. Ora, lo scopo di questa lezione è di farti imparare che cosa provo io quando mi fai l’amore. Non è molto. Tu mi vuoi capire, vero? Allora ti devi mettere al mio posto. Non ti farò nulla che tu non faresti a me. Mi sembra giusto, no? — Allungò una mano e gli accarezzò i capelli, poi la faccia. — Oh, dolcezza — gli disse — il mio cazzo desidera la tua bocca.
Goffamente, con un certo imbarazzo, il burocrate abbassò la testa e chiuse la bocca attorno al suo pollice.
— Non così. Quando ti bacio io, lo faccio forse come se volessi addentare una salsiccia? Avvicinati lentamente. Seducilo. Inizia leccandomi l’interno delle cosce. Ah. Ora baciami le balle… bravo, le nocche. Dolcemente! Fai passare la lingua sulla loro superficie, poi succhiale appena. Mmm, così va bene. — Si inarcò all’indietro, sollevando i seni, chiudendo gli occhi. Con l’altra mano gli stringeva i capelli.
— Ora fai passare la lingua lungo il fusto. Così. Magari tienimelo fermo con la mano. Così va bene. Lentamente. Oh, anche sui lati! Così mi piace. Ora abbassa la pelle per esporre la punta. Leccala, con leggerezza. Giocaci, sì. Oh, sì! Sei nato per far felice il mio cazzo, dolcezza.
“Ora pompa. Prendilo tutto in bocca e succhia, su e giù, in modo regolare. Gioca sul fusto con la lingua. Mmmm. — Prese a muoversi sotto di lui. Si leccò le labbra. — Prendilo con tutt’e due le mani. Sì. Più in fretta.
Improvvisamente, lo tirò su per i capelli. Le loro bocche si incontrarono e si baciarono, umide e appassionate. — Oh, Dio, non resisto — disse. — Devo averti. — Si fece indietro e lo girò. — Siediti in braccio, ci penso io a guidarlo dentro.
— Cosa?
— Fidati di me. — Gli baciò la schiena, i fianchi. Baci caldi e furtivi, che colpivano rapidi per sparire altrettanto rapidi. Gli avvolse un braccio attorno al petto accarezzandogli lo stomaco e giocherellando con i suoi capezzoli. — Oh, mia splendida, splendida bambina. Voglio infilartelo tutto dentro.
Lentamente, lo portò sopra il suo pollice. Quest’ultimo gli sfiorò l’ano, scivolò dentro. Ora le era seduto in braccio, i seni di lei premuti sulla sua schiena. — Ecco. È poi così brutto?
— No — ammise il burocrate.
— Bene. Ora muoviti su e giù, piccolo amore, così. Lentamente, lentamente… la notte è lunga, e abbiamo un sacco di strada da percorrere.
Quando finalmente uscirono sul balcone a prendere un po’ d’aria, era già notte. Il cielo era illuminato di gloria. Risate sconnesse salivano dal mercato dei goblin, dove i surrogati danzavano fra migliaia di lanterne di carta. Il burocrate alzò lo sguardo, scostandolo dalla marmaglia. Sopra le loro teste vi era l’arco illuminato del cerchio anulare, un pulviscolo diamantino di città, e più in là vi erano le stelle.
— Dimmi i nomi delle costellazioni nere — disse il burocrate.
Undine era in piedi accanto a lui, nuda, il suo corpo lucido di sudore che non voleva saperne di evaporare nella calda aria notturna. Era possibile che li vedessero dal basso, ma non gliene importava nulla.
— Mi sorprendi — disse Undine. — Dove hai imparato delle costellazioni nere?
— Così, per caso. — La ringhiera era fredda sul suo stomaco, il fianco di Undine caldo contro il suo. Le appoggiò una mano alla base della schiena, la lasciò scivolare sulla sua pelle liscia e umida. — Quella lì, appena sotto la stella del sud, quella che assomiglia a una specie di animale. Che cos’è?
— Si chiama la Pantera — disse Undine. — È un segno femminile, emblema della sete di conoscenza spirituale, utile in certi rituali.
— E quello laggiù?
— Il Golem. È un segno maschile.
— E quello che sembra un uccello in volo?
— Corvo — disse. — È il Corvo.
Il burocrate non disse nulla.
— Vuoi sapere come mi ha comprata Gregorian. Vuoi sapere con che moneta mi ha pagato?
— No — rispose il burocrate. — Non voglio saperlo affatto. Ma temo che sarò costretto a chiedertelo.
Undine gli mostrò il braccio, mettendo in evidenza il bracciale del censimento di adamantino, quindi fece girare il polso con un movimento rapido.
Il bracciale si staccò.
Con movimento altrettanto rapido, Undine lo afferrò a mezz’aria, se lo riportò al polso e lo richiuse. — Ha una fiamma ossidrica al plasma. Uno dei suoi clienti vecchi e malvagi gliel’ha data in cambio di qualche servizio. Dovrebbero essere controllatissime, ma è incredibile ciò che può arrivare a fare un uomo quando pensa di avere la possibilità di vivere in eterno.
— E questo è tutto ciò che hai ottenuto da lui? Un modo per evadere il censimento?
— Forse non ricordi che non ho fatto altro che consegnare un messaggio per lui. Voleva solo che ti avvertissi di stargli lontano. Non era una cosa molto impegnativa. — Sorrise. — E poi l’ho fatto nel modo migliore possibile.
— Mi ha mandato un braccio — disse il burocrate con tono serio. — Un braccio di donna. Mi ha detto che ti aveva affogata.
— Lo so — disse Undine. — O meglio, l’ho appena saputo. — Lo guardò con quegli occhi sconvolgentemente espliciti. — Be’, forse è venuto il momento di farti delle scuse. A dir la verità sono venuta a scusarmi per due motivi, per ciò che Gregorian ti ha convinto che mi era accaduto e per i problemi che, come ho saputo, ti ha creato Mintouchian.
— Mintouchian? — Il burocrate si sentì disorientato, in mare aperto. — Che cosa avevi a che fare tu con Mintouchian?
— È una storia piuttosto lunga. Vediamo se riesco a renderla abbastanza breve. Madame Camaspe, colei che fu la maestra sia mia che di Gregorian, aveva molti modi per guadagnarsi da vivere. Sono certa che tu non approveresti molti dei suoi metodi, poiché era una donna che si faceva le sue regole e decideva per sé ciò che era giusto o sbagliato. Molto tempo fa, riuscì a procurarsi una valigetta uguale a quella che hai tu lì accanto al letto, e si dedicò alla produzione di manufatti degli spettri.
— Quella gente di Clay Bank!
— Esatto. Aveva una vera e propria organizzazione, per quanto piccola. Uno che curava la valigetta, qualche agente in diverse boutique del Cerchio Interno, più Mintouchian per spostare la merce al di fuori del Tidewater. Ma naturalmente il problema di organizzazioni simili è proprio che, essendo dipendenti da te, i tuoi collaboratori pensano che tu debba loro qualcosa. Così, quando madame Campaspe se ne andò e, non a caso, la valigetta si fuse, vennero tutti da me. Per domandarmi che cosa dovevano fare ora.
“Perché lo chiedete a me? dissi loro. Ma loro questo non lo volevano sentire. Volevano qualcuno che dicesse loro cosa fare e cosa pensare, quando inspirare e quando espirare. Non capivano che non avevo alcuna intenzione di far loro da mamma. Così, pensai che fosse giunto il momento giusto e scomparvi. Come aveva fatto madame Campaspe, decisi di organizzare una morte per annegamento.
“Un giorno, io e Gregorian stavamo discutendo sulla provenienza e la spartizione di alcuni oggetti lasciati da madame Campaspe. Quando gli accennai che avevo in mente di scomparire, si offrì subito di organizzare i dettagli del mio annegamento per un prezzo molto ragionevole, anche se non tanto basso da farmi insospettire. Poi si fece spedire un braccio dai laboratori di clonazione di North Aerie, che trattò e tatuò personalmente. Temo di aver lasciato tutta l’iniziativa in mano sua, cosa che non avrei dovuto fare.
“Le streghe, del resto, sono sempre occupate. Fa parte del mestiere. Dovetti assentarmi per un certo tempo, e solo quando tornai venni a sapere delle difficoltà che ti avevo causato, per quanto a mia insaputa.” Lo fissò dritto negli occhi con quel suo sguardo incredibilmente calmo e sicuro. — Tutto ciò che ti ho detto è la verità. Mi perdoni?
Il burocrate la strinse a sé a lungo, dopodiché rientrarono in camera.
Più tardi, si ritrovarono nuovamente sul balcone. Questa volta erano vestiti, poiché l’aria si era fatta fresca. — Tu conosci le costellazioni nere — disse Undine — e anche le chiare. Ma sei capace di metterle tutte assieme nell’Uno?
— L’Uno?
— Tutte le stelle assieme formano una singola costellazione, adesso te la mostro. Puoi iniziare ovunque, dall’Ariete, per esempio. Seguilo con il dito, poi salta alla costellazione successiva, fanno tutte parte della stessa struttura molto più vasta. Segui anche quella e arriva al…
— Il Cosmonauta! Sì, capisco.
— Ora, tenendo in mente ciò che hai appena imparato, prendi in considerazione le costellazioni nere, il modo in cui fluiscono l’una nell’altra per formare un secondo schema continuo. Ci sei? Segui il mio dito, su di là, poi giù per così. Vedi? Dimentica gli anelli e le lune, sono effimeri. Segui il mio dito… ecco, ora siamo a metà cielo.
“Hai vissuto gran parte della tua vita fuoripianeta, quindi immagino che tu conosca abbastanza bene entrambi gli emisferi, sia quello settentrionale che quello meridionale, giusto? Ora tienili entrambi in mente, quello che vedi davanti ai tuoi occhi e quello che non vedi ma che ricordi; che cosa formano se messi assieme?”
Lo vide: due serpenti avviluppati assieme, uno di luce e l’altro di oscurità. I loro corpi a spirale formavano una sfera ingarbugliata. Sopra la sua testa, il serpente nero prendeva in bocca la coda del serpente di luce. Esattamente sotto di lui, il serpente di luce mordeva la coda a quello nero. Luce che ingoiava oscurità che ingoiava luce. Lo schema era lì davanti ai suoi occhi. Era vero, e andava avanti fino all’eternità.
Il burocrate era scosso. Aveva vissuto per tutta la vita in mezzo all’Uno, all’unica costellazione, aveva osservato migliaia di volte i suoi innumerevoli aspetti, eppure non se ne era mai reso conto. E se non era riuscito a vedere una cosa così evidente, così assoluta, chissà quante altre cose gli erano sfuggite…?
— Serpenti — sussurrò. — Mio Dio, il cielo è pieno di serpenti.
Undine lo abbracciò spontaneamente. — Molto bene! Peccato che non ti abbia conosciuto quando eri più giovane. Avrei potuto fare di te un ottimo stregone.
— Undine — disse. — Dove te ne andrai ora?
Per un istante, Undine rimase immobile. — Parto per l’Arcipelago in mattinata. Diventa vivo in questa stagione del grande anno. Durante l’estate è un luogo addormentato, bucolico, dove non succede praticamente nulla, ma ora… è come quando comprimi l’aria in un pistone, la situazione si surriscalda. La gente si sposta sulle montagne, dove si trovano i palazzi, e lì costruiscono una serie di catapecchie colorarte. Ti piacerebbe. Buona musica, e si balla per le strade tutta la notte. Si beve il vino dell’isola e si dorme fino a mezzogiorno.
Il burocrate tentò di immaginarlo, non ci riuscì, se ne dispiacque. — Sembra fantastico — disse, senza riuscire a mascherare un tono leggermente nostalgico.
— Vieni con me — disse Undine. — Lasciati alle spalle i tuoi mondi galleggianti. Ti insegnerò cose che non hai mai nemmeno immaginato. Hai mai avuto un orgasmo di tre giorni? Posso insegnartelo. Hai mai parlato con Dio? La ragazza mi deve un paio di favori.
— E Gregorian?
— Scordati di Gregorian. — Gli avvolse le braccia attorno al corpo e lo strinse forte. — Ti mostrerò il sole a mezzanotte.
Ma sebbene il burocrate non desiderasse altro che andarsene con lei, di farsi rapire da Undine e farsi portare nelle sue lontane isole fantastiche, vi era in lui qualcosa di duro e freddo che non si smuoveva. Non poteva mollare Gregorian così. Era un suo dovere, un suo obbligo. — Non posso — disse. — È una questione di dovere. Devo prima sistemare questa faccenda con Gregorian.
— Ah? Bene. — Undine si infilò le scarpe, che si chiusero sulle sue caviglie. Erano di ottima fattura extraplanetaria. — Allora farò meglio ad andarmene.
— Undine, no.
Raccolse un gilet di pizzo e lo abbottonò sopra la sua camicetta.
— Mi basta un giorno, magari due. Basta che tu mi dica dove trovarti. Dimmi dove sarai, io ti troverò. Puoi chiedermi tutto quel che vuoi.
Undine fece un passo indietro, innervosita dalla rabbia. — Gli uomini sono tutti degli idioti — disse con disprezzo. — Devi averlo già notato anche tu. — Senza guardare, raccolse da terra una sciarpa che aveva lasciato cadere ore prima e se l’avvolse attorno alle spalle con movimento deciso. — Le mie offerte non possono essere accettate con condizioni. — Era già davanti alla porta. — E non possono nemmeno essere riaccettate, una volta rifiutate. — Uscì.
Il burocrate si sedette sul bordo del letto. Ebbe l’impressione di sentire un leggero accenno dell’odore di Undine che si levava dalle lenzuola. Era molto tardi, ma i surrogati, abituati a orari extra-planetari, stavano ancora festeggiando, più sguaiatamente che mai.
Dopo un po’ di tempo, iniziò a piangere.