3. Il ballo degli eredi

Tramonto. L’audace Prospero era un galeone pirata che navigava verso la notte. Toccò l’orizzonte, appiattendosi in una forma ovale mentre appiccava il fuoco a continenti di nubi. Sotto gli alberi, le ombre svanivano per trasformarsi in aria azzurrognola. Il burocrate arrancava lungo la strada che costeggiava il fiume, passandosi la valigetta da una mano all’altra, imprecando fra sé per il dolore ai palmi e alle dita.

Ai margini estremi del villaggio, tre uomini vestiti di stracci avevano preparato un fuoco sulla strada e vi stavano arrostendo delle patate dolci. Un gigante scuro stava seduto, inzuppando grosse foglie in una bacinella d’acqua e avvolgendole una per una attorno ai tuberi. Un uomo dall’aspetto grigio e allampanato li infilava nel fuoco, e il terzo, il più attempato, rimestava le braci. Infilati nella sabbia vi erano due televisori, uno con l’audio spento e l’altro, voltato dalla parte opposta, che vomitava immagini sul sentiero deserto. — Dolce serata — disse il burocrate.

— Altrettanto — disse l’uomo allampanato. Attraverso i buchi nei suoi pantaloni, si intravedevano ginocchia ossute. — Accomodatevi. — Si fece da parte, e il burocrate si accucciò al suo fianco, piegando le ginocchia e stando attento a non sporcare i suoi pantaloni bianchi. Sullo schermo vi era l’immagine di un uomo appoggiato al davanzale di una finestra che fissava il mare con aria malinconica. Dietro di lui vi era una donna, che teneva la mani appoggiate sulle sue spalle. — Il vecchio non riesce a credere che ha visto una sirena — spiegò il tipo allampanato.

— I padri sono fatti così. — Il fumo azzurrognolo aleggiò morbido nel cielo serale, emettendo un odore di cedro e legno vecchio. — Siete a caccia? — domandò il burocrate.

— In un certo senso — disse l’allampanato. Il gigante emise uno sbuffo.

— Siamo sciacalli — disse il vecchio con tono duro. — E se non vi va bene, ditelo subito e andatevene affanculo. — Lo fissarono tutti e tre, senza battere ciglio.

Nell’improvviso silenzio, il burocrate poté udire l’audio della trasmissione la cui visione aveva interrotto. “Byron, vieni via da quella finestra. Là fuori non c’è proprio niente, a parte l’oceano freddo e cangiante. Vai a prendere un po’ d’aria. Tuo padre dice che…

“Mio padre pensa solo al denaro”.

— Ho una bottiglia di brandy distillato sottovuoto nella mia valigia. — Il burocrate prese la bottiglia, fece un sorso e la offrì. — Se questo potesse convincervi…

— Be’, se non altro è una proposta molto gentile. — La bottiglia fece il giro della compagnia, due volte. — Andate verso il villaggio? — domandò infine l’allampanato.

— Sì, vado a trovare madre Gregorian. Magari voi sapete anche dove si trova la sua casa.

I tre si scambiarono uno sguardo. — Non otterrete nulla da lei — disse il solito allampanato. — La gente del paese racconta strane storie su di lei. È un tipo strano. — Rivolse lo sguardo verso il televisore. — Dovrebbero metterla in questo programma.

— Raccontatemi qualcosa di lei.

— No, non è il caso. — Sollevò un braccio sparuto e indicò la strada. — La strada finisce davanti al fiume. Basta che seguiate il corso del fiume, fino alla quinta…

— La sesta — intervenne il più anziano.

— La sesta strada a destra. Passate accanto alla chiesa, oltre il cimitero, fiancheggiando le paludi. Non potete mancarla, più che una casa è un fottutissimo castello.

— Grazie — disse il burocrate, alzandosi in piedi.

Gli uomini non lo stavano più guardando. Sullo schermo, una bambina albina stava in piedi in mezzo a una discussione furente. Era come un’isola di calma e serenità, i suoi occhi vacui e leggermente autistici. — Quella è Eden, la sorella del ragazzo — commentò l’allampanato. — Non ha detto una parola da quando è accaduto il fatto.

— Che fatto?

— Ha visto un unicorno — spiegò il gigante.


Visto dall’alto, il villaggio assomigliava a un antichissimo e semplicissimo circuito stampato, il genere di circuito che avrebbe potuto usare Galileo per costruire il suo primo radiotelescopio, a meno che non stesse confondendo due epoche diverse. Si trattava di una serie di linee contorte che conducevano verso l’interno partendo dal fiume, viuzze talmente piccole che non avevano bisogno di intersezioni. Le case erano piccole e malconce, ma dalle finestre si intravedeva una calda luminosità e si udiva il mormorio delle voci provenienti dall’interno. Il burocrate incontrò un paio di cani, che con i loro latrati lo tennero a debita distanza dalle barche e dai piccoli cantieri. A parte un oste che gli rivolse un pigro cenno di saluto dalla porta del suo alberghetto, non incontrò nessuno lungo il fiume. Dopo un po’ svoltò sulla via die attraversava la palude, lasciandosi il fiume freddo e argenteo alle spalle. Passò accanto a un campo circondato da muri dove gli scheletri pendevano dagli alberi. Le ossa erano sbiancate, dipinte e legate assieme col fil di ferro; producevano un suono leggero e inquietante nel vento appena avvertibile.

Superato il cimitero, la strada iniziò a salire dolcemente. Il burocrate passò accanto a diverse case nere e massicce che, abbandonate da poco dai loro ricchi proprietari, non erano ancora state razziate. Probabilmente i proprietari erano andati tutti al Piedmont per partecipare al grande boom economico. L’ultima casa della strada, che andava a terminare nelle acque stagnanti della palude, era la sua destinazione.

L’esterno dell’edificio era pieno di bolle e di gusci di crostacei, e la luce che filtrava nel mondo esterno attraverso le massicce imposte era ben poca cosa. Tuttavia, sotto le incrostazioni delle crisalidi, le assi di legno erano intagliate in maniera squisita e perfettamente in linea. Il burocrate si fermò davanti all’imponente ingresso e premette il campanello. Udì una voce dall’interno. — Ospiti, padrona. — Poi la voce si rivolse a lui, da dietro la porta. — Vogliate attendere un attimo, per cortesia.

Un attimo dopo, la porta si aprì su un volto esangue e sparuto. Nel vedere il burocrate, il volto manifestò un’espressione di stupore, che tradì un istante di paura prima di ricomporsi in un atteggiamento normalmente circospetto. La donna sollevò il mento in aria di sfida, tanto che i suoi occhi sembrarono scostarsi simultaneamente da lui. — Credevo foste il perito.

Il burocrate sorrise. — Madre Gregorian?

— Oh, lei. — La donna si voltò. — Forse è meglio che entriate. — Il burocrate la seguì attraverso un corridoio che ricordava un esofago, tappezzato con uno stampo floreale reso marrone dal tempo, fino allo stomaco, un salotto affollato, dove venne fatto accomodare su una poltrona scura dai piedi leonini. Era un oggetto assai massiccio, ricoperto di tessuto felpato, con i margini inferiori frangiati e i braccioli imbottiti. Muoverla sarebbe stata un’impresa.

Un’altra donna fece il suo ingresso nella stanza, tutta trafelata. — È il perito? Fagli vedere il cristallo, io… — Si fermò.

Toc. Un metronomo, incastrato fra due campane di vetro impolverate, giunse alla fine del suo percorso oscillatorio e iniziò il lungo, lentissimo viaggio di ritorno, scandendo in maniera grave e laboriosa i lenti secondi della mortalità. Dal soffitto di stagno moltitudini di teste di bestie imbalsamate lo scrutavano con occhi di vetro grigio, verde e arancione. Notò in quel momento che la stanza era piena di facce. Sonnecchianti, con le bocche spalancate o con espressioni di disapprovazione, i volti erano intagliati nelle gambe, lungo i bordi e sulle basi di scrittoi, tavoli, credenze e armadietti che lottavano fra loro a spallate per conquistarsi il loro spazio. Persino i pezzi in mogano biondo erano stati intagliati con grande eleganza. Il burocrate si domandò che fine avessero fatto i trucioli avanzati; certamente non erano stati buttati via. Quella stanza aveva un valore enorme, e sarebbe stata decisamente più confortevole se non vi fossero stati affollati tutti quei mobili. Toc. Il metronomo si fece sentire nuovamente, e le donne continuarono a osservarlo, come se non avessero più intenzione di profferire alcunché.

— Non vorrei apparire insistente, Ambryn, ma dovrò forse aspettare in eterno prima che tu mi presenti questo tuo amico?

— Non è amico mio, è venuto per la mamma.

— Un motivo in più per dimostrargli un minimo di cortesia e di ospitalità. — La donna protese una mano, e il burocrate si alzò in piedi per stringergliela. — Piacere, sono Lingore Gregorian — disse. — Emse! Dove sei?

Apparve allora una terza donna, con indosso un vestito color marrone, che si stava asciugando le mani con uno straccio. — Se è il perito, ricordatevi di dirgli che Ambryn ha rotto il… — Si interruppe. — Scusate. Non sapevo che vi fosse un ospite. — Non disse più nulla, ma rimase dov’era, a guardare.

— Non essere sciocca, Emse. Questo signore è venuto a vedere mamma. Portagli un bicchiere di birra.

— Oh, ma non è necessario…

— I Gregorian hanno sempre tenuto all’ospitalità — disse la donna con fermezza. — Vi prego, accomodatevi. Al momento la mamma è con il dottore, ma se avrete la pazienza di attendere, sono sicura che potrà ricevervi, almeno per qualche minuto. Vi prego però di non emozionarla troppo, poiché è molto malata.

— Sta morendo — intervenne Ambryn. — Non vuole che la portiamo al Piedmont, dove si trovano gli ospedali migliori. Si è messa in testa di rimanere in questo tugurio decadente fino alla fine dei suoi giorni. Credo che si aspetti di essere trascinata via dalle maree. Naturalmente, le autorità addette all’evacuazione non glielo permetteranno. — I suoi occhi assunsero un’espressione distante. — E quello sarà l’affronto finale, essere cacciati via come dei poveri indigenti.

— Sono certa, Ambryn, che al nostro ospite non interessano più di tanto i nostri problemi di famiglia. — Al burocrate non sfuggì il modo in cui Ambryn fece un passo indietro, né l’atteggiamento di sfida con cui lo fece. — Posso chiedervi che cosa volete da nostra madre?

— Ma certamente. — Esme gli porse un delicato bicchiere di cristallo pieno di birra. — Grazie. — Appoggiò accanto al suo gomito un piattino di porcellana merlettato, leggermente translucido persino nella fioca luce serale. Era una porcellana leggerissima, di una delicatezza pressoché incredibile. — Faccio parte della divisione Technology Transfer del governo del Sistema. Volevamo parlare con vostro fratello, ma sfortunatamente non ci ha lasciato il suo recapito. Magari voi…? — Lasciò scemare la voce e sorseggiò la birra. Era lager, leggerissima e quasi insapore.

— Noi di sicuro non lo sappiamo — intervenne Lingore con tono freddo.

— Siete il suo agente? — intervenne Ambryn. — Se n’è andato di casa quando era ancora ragazzino. Non ha diritto! Noi abbiamo lavorato per tutta la vita, siamo schiavizzate…

— Ambryn — intervenne sua sorella con tono di rimprovero.

— Non m’importa. Se penso a tutti gli anni di lavoro, a tutta la sofferenza, a tutta la merda che ho dovuto subire…! — La donna si appellò direttamente al burocrate. — Tutte le mattine le lucido gli stivali, tutte le mattine da cinque anni a questa parte! Sono costretta a inginocchiarmi sul pavimento davanti a lei, mentre lei mi dice che vuole lasciare le cose migliori a Lingore. E non si alzerà più da quel letto.

— Ambryn!

Le due donne tacquero, scambiandosi un lungo sguardo. Il metronomo oscillò pesantemente per sei volte, e il burocrate pensò che l’Inferno doveva essere qualcosa di molto simile a questo. Infine Lingore ebbe il sopravvento, e sua sorella scostò lo sguardo. — Gradite un altro bicchiere di birra? — domandò timidamente Esme dalla penombra.

Il burocrate sollevò il bicchiere ancora pressoché pieno. — No, grazie. — Emse gli ricordava un topo, piccolo e nervoso, che sta nascosto in prossimità delle zone illuminate nella speranza di raccogliere qualche piccola briciola. E dire che su Miranda anche i topi erano dimorfici, come tutto il resto. Alla fine del grande anno avrebbero nuotato nel grande oceano e sarebbero morti in gran numero, mentre i pochi sopravvissuti si sarebbero trasformati in… cercò di ricordare… piccole creature anfibie, come delle foche in miniatura. Si domandò se anche quella donnina cambiasse aspetto, col sopraggiungere delle maree?

— Non credere che non mi accorga del modo in cui ti approfitti di lei — sbottò con rabbia Ambryn. — La signorina Innocua Mansueta. Ti ho vista, sai, mentre nascondevi la salsiera d’argento.

— La stavo solo pulendo!

— Certo, la stavi pulendo, ma nella tua stanza!

Un velo di panico nello sguardo. — In ogni caso, ha detto che era mio.

— Quando? — ribatterono le altre due sorelle all’unisono con tono scandalizzato.

— Proprio ieri. Potete anche chiederglielo.

— Ma ricordate… — Lingore rivolse un’occhiata al burocrate e abbassò la voce, girandosi per dargli le spalle. — Ricordate che mamma ha detto che dovevamo dividerci l’argento in parti uguali. Lo ha sempre detto.

— È per questo che ti sei presa le molle dello zucchero? — domandò Ambryn con tono innocente.

— Non è vero!

— Invece sì.

Ascoltando con grande attenzione, il burocrate appoggio il bicchiere. Lo posò un attimino più forte di quanto non avesse inteso, e contemporaneamente udì il debole crac della porcellana che si crepava.

Grazie al suo ottimo udito, Esme fu l’unica sorella che se ne rese conto. Con un rapido quanto silenzioso cenno del capo, spazzò via i cocci e li sostituì con un altro piattino prima che qualcuno potesse accorgersi dell’accaduto.

— Dal momento in cui l’eredità di mamma sarà stata divisa — stava dicendo Ambryn — me ne andrò da questa casa e non vi rimetterò mai più piede. Per quel che mi riguarda, senza mamma non vi è alcuna famiglia, e non sono imparentata con nessuna di voi.

— Ambryn! — squittì Emse con tono disgustato.

— È vergognoso parlare così, mentre mamma sta morendo proprio sopra le nostre teste! — esclamò sua sorella maggiore.

— Non morirà, non morirà, perché sa quanto ci farebbe felici — ribatté Ambryn. — Rimarrà in vita solo per farci dispetto. — Le sue sorelle le rivolsero smorfie di disapprovazione, ma di fatto non misero in discussione questa sua ultima dichiarazione.

Dopodiché tacquero improvvisamente, apparendo stranamente soddisfatte, come se avessero appena messo in scena un dramma privato per il piacere del burocrate e stessero attendendo il suo applauso per prendersi per mano e inchinarsi. Il loro atteggiamento collettivo sembrava voler dire: “Ecco, ora sapete tutto di noi”. Si trattava di una scena provata e riprovata, e il burocrate si rese conto che chiunque fosse entrato in quella casa non avrebbe mai potuto uscirne senza assistere a qualche variante della stessa commedia.

In quel momento il dottore scese dalle scale e le tre donne alzarono contemporaneamente i loro sguardi ansiosi verso di lui. L’uomo scosse il capo con aria solenne, quindi se ne andò. Un gesto a dir poco ambiguo.

— Venite. — Lingore salì per le scale.

Pur essendosi ormai guastato l’umore, il burocrate la seguì.

Lo condusse in una stanza in cui l’illuminazione era talmente fioca da non farne comprendere le dimensioni. Al centro dominava un enorme letto circondato da tende che pendevano da ganci di ottone fissati nel soffitto. Il motivo stampato sulle tende era una landa luminosa popolata da satiri, astronauti, ninfe e capre. Ai bordi delle stesse tende erano ricamate le costellazioni della vecchia terra, accompagnate da bacchette magiche, orchidee e altri simboli di magia generatrice. I colori erano sbiaditi dagli anni, e in certi punti la stoffa consunta aveva ceduto sotto il suo stesso peso.

Sopra il letto, sistemata su un possente trono di cuscini, vi era una donna di un’obesità grottesca. Era talmente vasta e passivamente immobile che il burocrate non poté fare a meno di pensare a una termite regina. Il suo volto era pallido, come pasta per il pane, la sua bocca una piccola fessura di dolore. Una mano carica di anelli aleggiava sopra una tavola posta sul suo stomaco gonfio, sulla quale vi era un cerchio di carte da gioco; stelle, coppe, regine e fanti in solenne processione. Uno schermo televisivo silenzioso irradiava luce azzurrognola ai suoi piedi.

Il burocrate si presentò, e la donna annuì senza alzare lo sguardo dalle sue carte. — Sto facendo un gioco che si chiama futilità — disse. — Lo conoscete?

— Come si vince?

— Non si vince. Si può solo rimandare la sconfitta. Sono riuscita a portare avanti questa partita da diversi anni, ormai. — Alzò lo sguardo verso sua figlia.

— Non credere che non capisca di che cosa stai parlando.

— Dipende tutto dagli schemi — disse la vecchia. Fra una frase e l’altra, era costretta a fermarsi per un attimo per riprendere fiato. — I rapporti fra le cose cambiano e mutano in continuazione; non esiste una realtà oggettiva. Vi sono solo schemi, e uno schema maggiore all’interno del quale avvengono tutti gli schemi minori. Io capisco lo schema maggiore, e quindi ho imparato a far danzare le carte. Tuttavia, inevitabilmente, prima o poi il gioco deve finire. Vi è molto della vita nel modo in cui una persona legge le carte.

— Questo lo sanno tutti — ribatté sua figlia. — Non sei particolarmente sagace a proposito. Lo sa persino questo signore al tuo fianco.

— Davvero? — La madre lo guardò in faccia per la prima volta, rimanendo, assieme a sua figlia, con un’espressione molto interessata, in attesa della sua risposta.

Il burocrate si coprì la bocca per tossire. — Se non vi dispiace, madre Gregorian, vorrei poter scambiare qualche parola con voi in privato.

La madre rivolse un’occhiata gelida a Lingore. — Vai.

Come sua figlia chiuse la porta, la donna sbottò ad alta voce: — Vogliono accantonarmi. Cospirano contro di me, e pensano che non me ne accorga. Ma io me ne accorgo eccome. Io noto ogni cosa.

Dietro la porta, nel corridoio, Lingore emise uno sbuffo esasperato. Udirono i suoi passi mentre scendeva dalle scale.

— È l’unico modo per impedire che rimanga alla porta a origliare — sussurrò la vecchia. Poi la sua voce salì nuovamente di tono. — Ma io rimarrò qui. Morirò qui. In questo letto. — Un tono più pacato, da conversazione: — Dovete sapere che questo è stato il mio letto matrimoniale. Su questo letto sono stata con il primo uomo della mia vita. — Sullo schermo spettrale del televisore, il burocrate vide nuovamente Byron che scrutava dalla finestra. — È un ottimo letto. Ci ho portato tutti i miei mariti. A volte anche più di uno per volta. Per tre volte, vi ho partorito. Quattro, se contiamo anche quello nato morto. Ora intendo morirci, in questo letto, e non mi sembra di chiedere troppo. — Emise un sospiro, e con un gesto allontanò il vassoio delle carte, che scivolò nella parete. — Che cosa volete da me?

— Una cosa molto semplice, spero. Vorrei parlare con vostro figlio, solo che non ho il suo indirizzo, quindi speravo che voi poteste indicarmi dove si trova.

— Non ho sue notizie da quando se ne è scappato via. — Assunse improvvisamente un’espressione furbetta. — Che cosa vi ha fatto? Vi avrà fregato dei soldi, immagino. Ha tentato di rubare anche i miei, ma io ero troppo furba per lui. I soldi sono l’unica cosa che conta nella vita, l’unica cosa che ti può dare un minimo di controllo.

— Per quel che ne so finora, non ha fatto proprio nulla. Voglio solo fargli qualche domanda.

— Qualche domanda — ripeté le donna con tono poco convinto.

Il burocrate non fece nulla per interrompere il silenzio che seguì, lasciando che sbocciasse e fiorisse, ansioso di scoprire quando avrebbe aperto nuovamente bocca. Infine, madre Gregorian si produsse in una smorfia annoiata. — Che genere di domande?

— Esiste la possibilità, nulla di più, che sia venuta a mancare della tecnologia controllata. La mia agenzia vuole che chieda a vostro figlio se ne sa per caso qualcosa.

— Che cosa gli farete, quando lo prenderete?

— Io non ho nessuna intenzione di prenderlo — disse il burocrate. — Se è in possesso di suddetta tecnologia, gli chiederò di restituirla. Non posso fare altro, poiché non ho l’autorità necessaria per intraprendere qualsiasi tipo di azione seria. — La donna gli rivolse un sorriso d’intesa, come se fosse certa della sua menzogna. — Be’, vi spiacerebbe raccontarmi comunque qualcosa su di lui? Su come era da bambino?

La vecchia scrollò le spalle con espressione addolorata. — Era un ragazzo abbastanza normale. Col diavolo in corpo. Ricordo che andava pazzo per le storie. Fantasmi, spettri, cavalieri e pirati spaziali. Il prete raccontava sempre al piccolo Aldebaran le sue storie dei martiri, e mi ricordo come lui stesse ad ascoltare con gli occhi spalancati, e come rabbrividiva quando si arrivava alla morte di questo o quell’altro santo. Ora è alla tivù, ho visto una sua pubblicità proprio l’altro giorno. — Prese in mano il telecomando, passando attraverso i vari canali, ma non riuscì a trovare lo spot in questione. Era un televisore piuttosto costoso, sigillato in orbita e garantito dal suo stesso dipartimento come non convertibile. — Quando è nato, ero vergine.

— Scusate? — disse il burocrate con tono stupito.

— Ah, lo sapevo che questo avrebbe attirato la vostra attenzione. È una faccenda che puzza di tecnologia extraplanetaria, nevvero? È vero, ma si tratta di un crimine molto antico, che risale ai tempi in cui ero giovane e molto, molto bella. Suo padre era uno di fuorimondo come voi, molto ricco, e io non ero altro che una strega dei boschi… una pharmacienne, ciò che voi chiamereste un’erborista.

Le sue palpebre, pallide e maculate, si socchiusero per un attimo; la donna appoggiò la testa, scrutando nel suo passato. — Venne giù dal cielo con un apparecchio volante di smalto rosso, in una notte buia in cui crescevano sia Caliban che Ariel… è un momento molto importante per la raccolta delle radici, la mandragora, l’epipossio, e soprattutto il bacio del pagliaccio. Era un uomo importante, tutto luccicante, ma per qualche motivo, dopo tutti gli anni che sono passati, non riesco bene a ricordarne il suo volto… solo i suoi stivali. Aveva degli stivali fantastici, di pelle rossa, e mi disse che venivano da molto lontano, dalle stelle, e che su Miranda non si poteva trovare nulla di simile, nemmeno avendo tutto il denaro necessario. — Emise un sospiro. — Voleva un figlio senza madre, un figlio con i suoi geni e quelli di nessun altro. Non so perché. Non riuscii mai a tirargli fuori il vero motivo, in tutti i mesi che rimanemmo assieme.

“Alla fine ci accordammo per un prezzo. Mi diede abbastanza soldi per comprarmi tutto questo — fece un cenno col mento per indicare tutto il suo affollato dominio — e per procurarmi in seguito più di un marito, tutti migliori di lui. Dopodiché, mi portò con il suo appareccho dalle ali da pipistrello fino ad Ararat, nel profondo delle foreste. È la prima città costruita su Miranda. Dal cielo mi sembrava una montagna, costruita tutta a terrazze come uno ziggurat, piena di vegetazione. Rimasi in quel posto per tutta la durata della mia gravidanza. Non credete a quelli che vi dicono che lì ci abitano gli spettri. Io me ne stavo lì da sola, con tutti quei palazzi di pietra enormi, più grandi di qualsiasi cosa si sia vista da questa parte del Piedmont, e a parte le bestie, non c’era nessun altro. A volte il padre veniva a trovarmi, ma per la maggior parte del tempo ero sola con i miei pensieri e vagavo fra quelle mura piene di verde. Erano tutte verdi di muschio, gli alberi spuntavano dalle finestre e non vi era un tetto che non fosse ricoperto di erbacce. Nessuno con cui parlare! Vi assicuro che quei soldi me li sono guadagnati. A volte piangevo”.

I suoi occhi erano liquidi e vacui. — Lui si rivolgeva a me con tono molto dolce, come fossi il suo gattino, o il suo animale da compagnia, ma mai una volta mi ha considerata come una donna, e io me ne accorgevo. Alla fin fine, io per lui non ero altro che un utero preposto ai suoi scopi.

“Mi sono rotta l’imene con questi due pollici. Naturalmente ero stata addestrata come allevatrice, e conoscevo le diete e gli esercizi del caso. Quando lui mi portava cibo e medicine da fuorimondo, io buttavo via tutto. Quando lo scoprì la cosa lo divertì, poiché ormai poteva vedere lui stesso che ero in ottima salute e che il suo bastardo era al sicuro. Ma io avevo fatto i miei progetti. La settimana in cui partorii, lui era via (gli avevo dato la data sbagliata), e così me ne scappai. Ero ancora giovane allora; mi riposai per due giorni, quindi me ne andai da Ararat. Lui pensava che mi perdessi, capite? Pensava che non ce l’avrei mai fatta a orientarmi. Ma io ero nata nel Tidewater, mentre lui aveva sempre vissuto su qualche mondo metallico in orbita. Che volete che ne sapesse? Avevo accumulato provviste in segreto e sapevo bene quali piante potevo mangiare, quindi il cibo non era certo un problema. Seguii il corso dei fiumi e dei torrenti, aggirai le zone paludose, e alla fine mi trovai davanti all’oceano. Procedendo con tenacia, non potevo che finire lì. Nel giro di poco più di un mese ero in questo luogo, dove assoldai dei muratori per costruire questa casa”.

Emise una piccola risata, che le si bloccò in gola, facendola tossire. Il suo volto si contorse e divenne completamente rosso, tanto che il burocrate pensò che fosse in grave pericolo. Poi la crisi passò, e il burocrate le versò un bicchiere d’acqua da una caraffa posta accanto al letto. La vecchia prese il bicchiere senza ringraziare. — L’ho fregato eccome, quel maledetto. Avevo depositato i suoi soldi al sicuro, nelle banche di Piedmont, avevo il suo bastardo con me, lui non sapeva dove trovarmi e non poteva denunciarmi pubblicamente. Probabilmente non si è mai nemmeno preso la briga di cercarmi. Magari ha pensato che fossi morta nelle paludi. Ce ne sono parecchie, attorno ad Ararat.

— Una storia molto interessante — commentò il burocrate.

— Voi credete che fossi innamorata di lui. Chiunque lo penserebbe, ma invece non è così. Era venuto fuori dal nulla e mi aveva comprato con il suo denaro fuorimondo. Si credeva una persona importante, e mi considerava un semplice strumento, una nullità in confronto a lui, qualcosa che poteva prendere e mollare quando meglio credeva. E il brutto è che aveva ragione, e fu proprio questo a mandarmi su tutte le furie. Così gli rubai il figlio, per dargli una lezioncina. — Emise un’altra risatina. — Ah, gli scherzi che non facevo…!

— Avete per caso qualche sua fotografia?

Sollevò una mano, indicando una parete dove piccoli ritratti e antiche stampe fotomeccaniche lottavano fra loro per uno spazio. — Portatemi quella foto nella cornice di tartaruga. — Il burocrate obbedì. — La donna, quella dea altissima, ero io, che ci crediate o no. Il bambino è il giovane Aldebaran.

Il burocrate osservò attentamente la fotografia. La donna era piuttosto massiccia e trasandata, ma evidentemente fiera della sua solidità, della sua carne. Il bambino invece era una cosina spettrale, che lo fissava con due occhietti simili a cerchi neri. — Ma questa è una bambina.

— No, è Aldebaran. Lo vestivo da bambina durante i primi anni per nasconderlo a suo padre nel caso fosse venuto a cercarlo. Fino ai sette anni ha indossato solo gonne. Poi iniziò a trasformarsi in una creatura cattiva, un bimbo cocciuto, e allora si rifiutava di indossare quei vestiti. Alla fine dovetti accontentarlo, altrimenti mi usciva in strada tutto nudo. Ma non cedetti tanto facilmente. Andò in giro nudo per tre giorni, finché non venne a farci visita il prete, dicendo che era una cosa inaccettabile.

— E come accadde che Aldebaran riuscì a ottenere un’educazione fuorimondo?

La donna ignorò la domanda. — Io naturalmente volevo una figlia; le ragazze sono decisamente più docili. Una ragazza non sarebbe mai scappata via per cercare suo padre come fece lui. Mettete una mano sotto il mio letto — ordinò improvvisamente. — Tirate fuori ciò che vi trovate.

Il burocrate infilò una mano fra le ombre inquietanti del letto, da cui tirò fuori un baule basso sul quale erano intagliate delle figure semi-umane. Madre Gregorian si protese in avanti con un certo sforzo per guardare. — Sotto quella seta verde dovrebbe esserci un pacchetto marrone. Sì, quello. Apritelo.

Era preoccupantemente facile ubbidire a quel mostro, poiché era molto decisa nei suoi ordini. Il burocrate si ritrovò in mano una vecchia agendina con qualche sigillo sbiadito sulla copertina.

— Quello era di Aldebaran. Lo ha perso poco prima di fuggire. — Si produsse in un sorriso che parlava di storie mai raccontate. — Prendetelo pure, può darsi che vi sia di aiuto. — Chiuse gli occhi e lasciò che il suo volto si rilassasse in una flaccida maschera di dolore. Stava annaspando, con la stessa costanza di un cane d’estate, ma meno rumorosamente.

— Mi siete stata di grande aiuto — disse il burocrate con tono cauto. Percepì che la vecchia avrebbe potuto benissimo chiedergli un prezzo per le informazioni che gli aveva dato.

— Pensava di essere furbo. Pensava che, andando molto lontano, sarebbe riuscito a sfuggirmi. Pensava di potermi sfuggire! — I suoi occhi si spalancarono, scintillando in maniera malevola. — Quando lo trovate, dategli questo messaggio da parte mia. Ditegli che non ha importanza quanta distanza percorre, che sia in miglia, in apprendimento o in tempo, non potrà mai sfuggire a sua madre.

Il burocrate non riuscì a pensare a nulla da dire, quindi si inchinò con fare cortese e si voltò, apprestandosi a uscire.

— Oh, e non preoccupatevi per il piattino rotto. Ne abbiamo altri, e comunque era un servizio già incompleto.

Il burocrate sorrise. — Un ottimo trucco. Come avete fatto a saperlo?

La vecchia sollevò una mano verso l’alto, con un gesto che riuscì a essere languido e laborioso nel contempo, come quello di una donna in procinto di annegare che cerca di raggiungere la superficie dell’acqua, e fece scattare un interruttore. Le luci si spensero, e la stanza piombò nell’oscurità, interrotta solo in parte da un piccolo bagliore biancastro sul soffitto. Si trattava di un rosone di piccoli cerchi, come un biscotto della festa. Il burocrate abbassò lo sguardo, e notò un altro rosone sul pavimento, quest’ultimo più luminoso.

La voce della vecchia venne dall’oscurità, gongolante. — È il condotto dell’aria calda. Quando è aperto, posso sentire tutto ciò che si dice nella stanza di sotto. Ho sentito la ceramica che si rompeva, e poi i passi di Esme che andava in dispensa e tornava rapida. — Gli rise in faccia. — Un po’ troppo semplice per voi, eh? Voi di fuorimondo pensate di essere tanto sofisticati… Una cosa semplice come il nostro sistema di ventilazione non può che sfuggirvi.


Di sotto, fece la conoscenza di un uomo dall’aria assai dignitosa, con un paio di baffi scuri, che teneva in mano un bicchiere della birra leggera delle sorelle. I suoi capelli erano lisciati e imbrillantinati, in stile Piedmont. — Voi dovete essere il perito — disse il burocrate.

Sì scambiarono una stretta di mano. — Si, vengo qui ogni due o tre settimane per fare una nuova stima del valore di mobili e oggetti vari. Un anno fa, tutto questo valeva una fortuna; ora invece sono saliti i prezzi delle spedizioni e il valore è diminuito. Saranno costretti a lasciarsi dietro parecchie cose. — Il perito mostrò un mucchio di carte consunte ed emise un sospiro con aria religiosa. — Qui ci sono tute le cifre, chiunque può controllarle. Io non ci guadagno niente. L’unico motivo per il quale acconsento di venire qui tanto spesso è che in questa cosa vi sono cose talmente belle che sarebbe un vero peccato lasciarle in balìa delle maree.

Lingore e Ambryn erano in piedi accanto a lui, mentre Emse non era in vista. Ciò nonostante, il burocrate sentiva che li stava osservando da qualche recesso oscuro, con gli occhietti sporgenti come due palline nere e i baffetti tremolanti.

— Emse — disse Lingore. — Accompagna alia porta l’ospite di mamma. Noi dobbiamo occuparci del guardaroba.

Le due sorelle maggiori scomparvero alle spalle del perito. Come furono uscite dalla stanza, Emse emerse dall’ombra. Il burocrate alzò lo sguardo verso il condotto di ventilazione e le prese istintivamente la mano. Provò l’improvviso, l’urgente impulso di sottrarla a quell’atmosfera velenosa. Salvare almeno qualcosa dal disastro. — Ascoltatemi — le disse — vostra madre mi ha detto che vi ha tagliata fuori dal suo testamento. Non vi lascerà nulla. Lasciate questa casa stasera stessa, figliola. Subito, anzi. Vi aiuterò io a portare le vostre cose. Qui non c’è nulla per voi.

Negli occhi opachi della ragazza apparve improvvisamente una tinta di malvagità. — Voglio vederla morire! — sbottò. — Se li può tenere, i suoi soldi. Voglio solo vederla morta e sepolta, per poi non vederla mai più!


Quando lasciò la casa era già notte, ma grazie a Caliban, piena e alta nel cielo, e ad Ariel, più bassa e gibbosa ma altrettanto luminosa, la strada che costeggiava il fiume era più che visibile. Gli alberi proiettavano le loro doppie ombre in maniera spettrale ma suggestiva. Le stelle degli alberi si erano staccate dai loro trespoli altissimi e, emettendo la loro fioca luminosità, frugavano nell’humus alla ricerca di acari. La passeggiata risultò molto tranquilla e piacevole, e il burocrate la sfruttò per riordinare i suoi pensieri. Aveva l’impressione di essere appena uscito da una casa congelata nel tempo. Con l’arrivo delle maree, sarebbe cambiato tutto. Solo pochi non avrebbero risentito del cambiamento e, catturati dal sole, avrebbero rivelato la loro natura di pietre prive di vita.

Non sarebbe stato male scoprire chi era il padre del mago. Pur considerando il fatto che doveva aver avuto un cambio molto favorevole venendo su quel pianeta, doveva trattarsi indubbiamente di un uomo molto ricco, e magari anche piuttosto influente. Pensò nuovamente alle tre sorelle, senza età e senza sesso per colpa della loro avidità e della loro inerzia.

“Quasi quasi mi viene da stimare Gregorian” pensò fra sé “se non altro per via del fatto che è riuscito a sfuggire a quella donna”. Infine, si rivolse alla sua valigetta. — Allora, di che si tratta?

— Giudicando in base ai diagrammi e agli schizzi che vi ho trovati, direi che si tratta di un diario magico. Un libretto di appunti tenuto da un apprendista stregone che vuole tenere conto dei suoi progressi spirituali. È scritto in caratteri cifrati, con largo uso di simboli alchemici obsoleti. Una cosa del genere potrebbe essere stata inventata da un adolescente particolarmente brillante.

— Allora decodificalo.

— Benissimo. — La valigetta pensò per un attimo, quindi parlò nuovamente. — La prima frase dice: “Oggi ho ucciso un cane”.

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