10. Un servizio per i morti

Quel mattino, il vento dottore aveva spinto verso l’interno uno sciame di mosche cirripedi. Quando il burocrate si svegliò, la casa galleggiante era totalmente incrostata dai loro gusci. Dovette appoggiarsi alla porta e spingere con forza per aprirla. L’odore salato dell’oceano era ovunque, come il profumo di un’amante che è venuta per la notte e se n’è andata, lasciando solo quell’ambigua promessa.

Il burocrate fece una smorfia e sputò al di là della fiancata della casa.

L’ultimo gradino della sua verandina non c’era più. Il burocrate saltò giù sul rettangolo nero rimasto sul terreno nudo sottostante e si incamminò fra i relitti del vecchio cantiere navale.

— Ehi!,

Alzò lo sguardo. Un ragazzo dai capelli dorati era in piedi, nudo, in cima a uno yacht distrutto. Stava pisciando nei cespugli di rosa. Faceva parte della banda di sciacalli che viveva in quel luogo. Lo salutò con la mano libera. Il bracciale del censimento luccicava sul suo polso. — Abbiamo trovato un mucchio intero di quelle cose che cercavate — disse. — Venite pure a scegliere.

Cinque minuti dopo, il burocrate ripose in camera sua un fagotto ben legato, quindi si rimise in marcia verso Clay Bank. Una malinconica campana rintoccava in lontananza, chiamando i fedeli alla meditazione. Il cielo era grigio e coperto. Cadeva una pioggerellina leggera, quasi impercettibile.


A quella longitudine così orientale, il terreno era troppo ricco e fertile per poterlo sprecare; salvo gli edifici delle piantagioni, tutte le abitazioni erano state costruite sull’argine del fiume. Casette di legno nemmeno dipinte oscillavano in pericoloso e precario equilibrio sul margine di un piccolo promontorio a picco sul fiume. Più in giù, a metà dell’argine, era stato scavato un sentiero nella terra umida. Ricoperto di assi di legno, serviva per accedere a depositi e bettole scavati nel terreno stesso.

Il tenente Chu lo stava aspettando sulla passerella di legno fuori dalla mensa. Le barche ballonzolavano sul fiume, legate a pontili che ormai avevano più spazi vuoti che assi di legno, un beau idéal onorato più nell’intento che nell’esecuzione. La pioggia scelse quell’istante per intensificarsi, facendo piombare grosse gocce sulla superficie dell’acqua. I due si infilarono dentro.

— Ho ricevuto un altro avvertimento — disse il burocrate quando ebbero trovato un tavolo. Aprì la valigetta e ne estrasse una manciata di piume nere. Un’ala di corvo. — L’ho trovata inchiodata alla mia porta ieri sera quando sono tornato a casa.

— Strana faccenda — disse Chu. Spiegò l’ala, esaminò l’attaccatura ancora insanguinata, aprì un attimo le membrane sottili del giunto metacarpico, quindi gliela restituì. — Devono essere quegli sciacalli. Non capisco per quale motivo tu insista nel voler rimanere qui.

Il burocrate scrollò le spalle, irritato. — Chiunque stia piazzando queste cose è al soldo di Gregorian. Riconosco il suo stile. — Dentro di sé, però, era preoccupato dal fatto che Gregorian avesse nuovamente cambiato tattica, passando dal tentato omicidio per tornare a intimidazioni e gesti di scherno. Non aveva senso.

La mensa era lunga e stretta, un tunnel scavato direttamente nell’argine. Gli ultimi tavoli erano pressoché immersi nell’oscurità, scostati com’erano dall’unica, lattiginosa luce a soffitto. Gocce d’acqua colavano dal soffitto, raccolte da secchi e catini. Nel retro, gli sguatteri ridevano e scherzavano fra loro mentre le fiamme baluginanti di una cucina a gas rincorrevano ombre sui loro volti. Una cameriera si avvicinò al loro tavolo e sbatté sul piano due taglieri di carne salata e purea di patate dolci. Chu arricciò il naso. — Non che per caso avete del…

— No. — I ragazzi addetti allo sgombero del tavolo accanto scoppiarono a ridere. — Se volete pranzare, vi beccate quel che c’è.

— Puttanella arrogante — borbottò Chu. — Se non fosse l’ultimo posto di Clay Bank dove si trova da mangiare, io…

Un giovane soldato del tavolo accanto si protese verso di lei. — Tranquillizzati — le disse con quell’accento aperto del nord caratteristico di tutti i ragazzotti delle Autorità locali. Erano tutti ragazzi del Tidewater portati dentro dalle province del Blackwater e del Vineland perché non avevano legami sul posto. — L’ultima aereonave passa domani, e devono liberare la dispensa. — Il suo berretto, ripiegato sotto la spallina, era stato personalizzato con una coda di gallo.

Chu lo fissò dritto negli occhi finché il soldato divenne paonazzo e tornò a voltarsi.

In una nicchia accanto al loro tavolo, un televisore mostrava immagini di un documentario sulla costruzione dei depositi-tunnel negli argini del fiume. Al momento stavano mostrando un antico filmato in cui diversi operai artigiani sigillavano la creta appena scavata. Lasciavano delle strette aperture nei punti in cui avrebbero poi scavato le porte, e un altro buco veniva scavato dall’alto nel punto in cui terminava il tunnel. Dopodiché, la legna ammassata all’interno dello scavo veniva accesa, e allora le colonne di fumo si innalzavano come spettri di alberi, formando una foresta grigio-nera che oscurava la luce del sole. Il documentario veniva ritrasmesso in continuazione da quando uno dei canali governativi lo aveva messo in onda per la prima volta. Ormai non ci faceva più caso nessuno.

“Il calore necessario per la smaltatura delle pareti…” Il burocrate allungò un braccio per cambiare canale. “Mio fratello è morto in mare! Che cosa avrei dovuto fare? Non sono mica il suo tutore, dopotutto”.

— Guardi questa spazzatura? — domandò Chu.

— È piuttosto coinvolgente.

— E chi è quel vecchio pagliaccio?

— Domanda interessante. Dovrebbe essere Shelley, il cugino di Eden… sai, quella ragazzina che ha visto l’unicorno. Solo che aveva due cugini, gemelli identici… — Chu emise uno sbuffo. — Lo so, ammetto che è abbastanza assurdo, ma sai, a volte capita anche nel Cerchio Interno. È per questo che adottano quelle tecniche di riconoscimento genetico, per poter riconoscere gli individui nel caso che accada una cosa simile.

Ma Chu non lo stava ascoltando. Stava fissando la pioggia grigiastra fuori dalla porta con aria meditabonda. Attorno a loro si sollevava il vociare delle cameriere e degli sguatteri della cucina, dei soldati e dei civili, tutte voci allegre e un po’ stridule per l’eccitazione dell’imminente evacuazione, tutti intossicati dalla prospettiva di un cambiamento radicale.

“Va bene, sì, l’ho ucciso. Ho ucciso mio fratello. Sei contento ora?”

— Dio — disse Chu. — Questo deve essere il luogo più noioso dell’universo.

Allargando le braccia per tenersi in equilibrio, il burocrate seguì Chu lungo la passerella di assi di legno viscide per la pioggia. Passarono davanti a una piccola scalinata scavata nella terra che era stata rinforzata con assi e travi di legno che ormai avevano ceduto, trasformandola in una specie di crepa dalla quale sgorgava acqua in continuazione. — Ho requisito dei buoni posti sull’eliostato di domani — disse Chu.

Il burocrate emise un grugnito.

— Suvvia. Se perdiamo l’aereonave, saremo costretti ad andarcene con una delle chiatte del bestiame. — Giocherellò con il suo bracciale del censimento con fare scocciato. — Forse non hai ben presente che cosa vuol dire viaggiare a quel modo.

Una cassa di legno si infranse sulla camminata davanti a loro, facendoli scostare di colpo. La cassa rimbalzò sul bordo e cadde io acqua. Gli sciacalli stavano saccheggiando un deposito abbandonato, spaccando tutto e buttando via ciò che non era di loro interesse. Sul fiume vi era una scia di rifiuti che galleggiavano pacifici nella corrente sorniona, allargandosi man mano che scendevano a valle.

Vecchi materassi inzuppati che annegavano lentamente, cesti di vimini e fiori secchi, poltrone spezzate, barche a vela giocattolo inclinate su un lato. Gli sciacalli urlavano, presi come erano dalla febbre di libera distruzione di quegli oggetti che non si erano mai potuti permettere e che ora non si potevano permettere di spedire al Piedmont.

Giunsero davanti a un’altra bettola sulla cui porta vi era un vecchio cartello con l’immagine di una figura scheletrica argentata. L’unica impresa legittima di quella bettola era lo sportello di trasmissione, e in teoria era l’unico motivo della sua esistenza, ma in realtà tutti sapevano che si trattava di un bordello. — Che mi dici dell’aeromobile? — domandò il burocrate. — Nessuna notizia dalla Casa di Pietra?

— Nessuna, e ormai possiamo essere certi che non ce ne saranno. Senti, siamo qui da così tanto tempo che mi sta crescendo il muschio sul sedere. Abbiamo fatto tutto quel che potevamo fare, ormai la pista è fredda. E poi a cosa ci servirebbe l’aeromobile? È venuto il momento di lasciar perdere.

— Prenderò in considerazione le tue parole. — Il burocrate entrò nella bettola. Chu rimase fuori.


— Era da parecchio che non venivo qui — disse il burocrate. L’abitazione di Korda era molto spaziosa, in una città dove lo spazio si traduceva direttamente in benessere economico. Il pavimento d’erba era diviso in piani sfalsati, e gli antichi utensili in pietra esposti in nicchie a parete erano illuminati in maniera indiretta da faretti spot che si riflettevano su colonne rotanti di porfido. L’ambiente era pulito in maniera ossessionante. Persino gli alberelli nani di ciliegio erano disposti in coppie identiche e perfettamente simmetriche.

— Tu non sei qui ora — disse Korda con tono poco simpatico. — Perché sei venuto a scocciarmi a casa? Non potevi aspettare di vedermi in ufficio?

— In ufficio mi eviti sempre.

Korda si produsse in una smorfia. — Sciocchezze.

— Scusatemi. — Un uomo con il volto coperto da una maschera di ceramica bianca entrò nella stanza. Indossava un’ampia tonaca, come prescritto dalla moda nei mondi di Deneb. — Sta per effettuarsi la votazione, e c’è bisogno del vostro apporto.

— Aspettami qui — disse Korda. Giunto sotto l’arco che conduceva alla stanza accanto, si fermò e si rivolse all’uomo mascherato. — Tu non vieni, Vasli?

Il volto bianco e privo di occhi abbassò lo sguardo. — Ciò che si sta discutendo al momento è proprio il mio posizionamento all’interno del Comitato. Penso che sia meglio per tutti che rimanga assente, almeno per questa seduta.

Il denebiano galleggiò fino al centro della stanza, dove si fermò, perfettamente immobile. Le sue mani erano perse nelle ampie maniche della tonaca, la sua testa semi-nascosta dal cappuccio. Aveva un aspetto un po’ inumano; i suoi movimenti troppo aggraziati, la sua immobilià troppo assoluta. Il burocrate si rese improvvisamente conto di trovarsi davanti a una delle più rare fra le entità, un surrogato permanente. I loro sguardi si incontrarono.

— Vi rendo nervoso — disse Vasli.

— Oh no, certo che no. È solo che…

— È solo che la mia forma vi mette a disagio. Lo so. Non ha senso profferire falsità per dimostrare un inutile nonché esagerato tatto. Io credo nella verità. Sono un umile servo della verità. Se dipendesse da me, farei in modo che non vi fossero menzogne o sotterfugi di alcun genere. Farei in modo che nulla venga nascosto e che nulla venga occultato. Metterei tutto in piazza, alla luce del sole.

Il burocrate si avvicinò alla nicchia a parete e prese a esaminare la collezione di punte di pietra di Korda. Punte di lancia per la pesca provenienti da Miranda, punte di freccia per la caccia provenienti dalla Terra, punte per i vermi provenienti da Govinda. — Vogliate scusarmi se appaio troppo diretto, ma una dichiarazione così radicale mi porta a pensare che possiate essere un Libero Informazionista.

— E infatti lo sono.

Il burocrate si sentì come se si fosse trovato davanti una bestia mitologica, una montagna parlante per esempio, o magari l’unicorno di Eden. — Davvero? — disse stupidamente.

— Certamente. Ho rinunciato al mio mondo per condividere le mie conoscenze con la vostra gente. Bisogna essere proprio dei radicali per distruggere a questo modo la propria vita, non trovate? Esiliarsi in un mondo dove la gente si trova a disagio in tua presenza, dove temono i tuoi ideali più profondi sospettando che si tratti di tradimento, dove nessuno in fondo sembra essere interessato in ciò che hai da dire.

— Sì, però il concetto di Libera Informazione è…

— Estremo? Pericoloso? — Allargò le braccia. — Vi sembro forse un elemento pericoloso?

— Voi concedereste a chiunque accesso totale a qualsiasi genere di informazione?

— Assolutamente.

— A prescindere dai danni che potrebbero risultarne?

— Sentite, voi siete come un ragazzino che, camminando per la campagna in un paese basso, scopre un buco in una diga. Voi infilate il dito nel buco, e per il momento va tutto bene. Poi il mare diventa un po’ più forte, si ingrossa, e il buco inizia ad allargarsi, a sgretolarsi. A quel punto, dovete infilare dentro tutta la mano. Poi il braccio intero, fino alla spalla. Entro breve, vi siete infilato dentro con tutto il corpo, e tenete tappato il buco con quello. Quando cresce ulteriormente, inspirate profondamente e vi gonfiate d’aria. Ma l’oceano è sempre lì, e con il tempo continua a crescere. In pratica, non avete fatto nulla per risolvere il problema di base.

— Cosa pensate che dovremmo fare delle informazioni pericolose?

— Controllarle! Renderle meno pericolose!

— E come?

— Non ne ho idea. Non sono che un solo uomo. Se voi invece applicaste tutti i cervelli e muscoli che ora sprecate inutilmente nel vostro futile tentativo di controllo… — Si fermò di colpo. Fissò il burocrate a lungo, come se stesse cercando di controllare le sue emozioni. Le sue spalle si rilassarono. — Vogliate perdonarmi. Ho sfogato la mia rabbia su di voi. Ho appreso solo stamattina che il mio originale… il Vasli che ero una volta, l’uomo che pensava di avere così tanto da condividere, è morto, e non sono ancora riuscito a organizzare i miei sentimenti in proposito.

— Mi dispiace — disse il burocrate. — Deve essere un brutto momento, per voi.

Vasli scosse il capo. — Non so più se piangere o ridere. Da una parte lui era me stesso, ma d’altra parte era anche colui che mi ha condannato a morire qui, senza parola, senza corpo, solo.

Il volto senza occhi alzò lo sguardo attraverso mille strati di città galleggiante, fino all’oscurità dell’esterno. — Stavo cercando di immaginare come sarebbe poter camminare nuovamente per i campi di Storr, sentendo l’odore del chukchuk e del rhu. Vedere le lame che bruciano stagliate sulle stelle occidentali, sentire il canto dei fiori! A quel punto, penso che potrei anche morire felice.

— Potete sempre tornare indietro.

— Voi scambiate il segnale per il messaggio. È vero che potrei farmi copiare e far rispedire il segnale a casa, su Deneb. Ma io rimarrei comunque qui. Immagino che poi potrei uccidermi, ma a che cosa servirebbe, se non a salvare la coscienza del mio agente? — Osservò il corpo surrogato del burocrate, sollevando un angolo della maschera con aria sprezzante. — Ma non pretendo che voi capiate.

Il burocrate decise di cambiare argomento. — Posso chiedervi — domandò — di che cosa si occupa esattamente il vostro Comitato?

— Intendete il Comitato Cittadino per la Prevenzione del Genocidio? Be’, è esattamente questo. La distruzione delle razze indigene è un problema comune a tutti i sistemi colonizzati, non ultimo il mio. Naturalmente per Miranda è ormai troppo tardi, ma può anche darsi che qui vengano redatti dei protocolli che valga la pena di trasmettere a casa.

— È possibile — disse il burocrate con una certa cautela — che il vostro pessimismo al riguardo sia eccessivo. Ho conosciuto persone che dichiarano di aver visto degli spettri, di aver parlato loro anche in tempi assai recenti. Secondo me esiste la possibilità che la loro razza sopravviva.

— No. È assolutamente impossibile.

Il denebiano aveva parlato con una tale, assoluta convinzione che il burocrate ci rimase male. — E perché no?

— Ogni specie ha bisogno di un numero minimo di elementi sostenibile. Quando una popolazione scende al di sotto di un certo numero, è pressoché condannata. Le viene a mancare la plasticità necessaria per sopravvivere alle normali variazioni dell’ambiente. Poniamo per esempio una specie di uccello il cui numero totale non supera la dozzina. Voi li proteggete, e questi aumentano di numero, fino a diventare qualche migliaio. Tuttavia, a livello genetico, questi non sono altro che una dozzina di elementi espressi in una miriade di cloni. Il loro patrimonio genetico è scarso, fragile. Un giorno il sole si leverà in maniera diversa, e allora moriranno tutti. Una malattia che può uccidere un solo elemento li ucciderebbe tutti. Vi sono una serie di fattori che prima o poi porterebbero inevitabilmente all’estinzione di quella specie.

“I vostri spettri non possono esistere in grande numero, altrimenti non vi sarebbe alcun dubbio sulla loro esistenza. Korda non la pensa così, ma è solo uno sciocco. Non ha alcuna importanza il fatto che qualche individuo sia riuscito a sopravvivere oltre il suo tempo. Come razza, sono ormai morti.”

Korda scelse quel momento per tornare. — Ora puoi entrare — disse. — Il Comitato ti vuole parlare. Credo che ciò che avranno da dirti ti farà molto piacere. — Solo una persona che conosceva Korda molto bene avrebbe potuto cogliere l’inflessione un pelino troppo cortese della sua voce che significava che aveva appena sofferto una delle sue rare sconfitte.

Offrendo al burocrate un piccolo inchino, Vasli si allontanò. Korda lo seguì con lo sguardo.

— Non sapevo che gli spettri rientrassero nei tuoi interessi — disse il burocrate.

— Sono il mio unico interesse — disse Korda senza riflettere. Poi si riebbe. — Il mio unico hobby, volevo dire.

Ma ormai le parole erano state profferite. La rivelazione si proiettò nel passato, come una fila di pedine del domino che cascano una dopo l’altra. Mille piccoli commenti apparentemente insignificanti fatti da Korda, cento riunioni saltate, una dozzina di strane inversioni di tendenza nella politica lavorativa, tutto divenne improvvisamente chiaro, lampante. Il burocrate fece attenzione a non permettere al suo viso di cambiare espressione. — Allora, cosa c’è? — domandò Korda. — Cos’è che vuoi?

— Ho bisogno di un’aeromobile. La Casa di Pietra non si fa sentire, e ho inoltrato la richiesta da settimane. Se riuscissi a tirare i fili giusti, potrei risolvere il caso in un giorno. Ora so dove si trova Gregorian.

— Veramente? — Korda gli rivolse un’occhiata dubbiosa. — Va bene, lo farò. — Sfiorò una tastiera. — Lo avrai a tua disposizione domani mattina a Tower Hill.

— Grazie.

Korda ebbe un attimo di strana esitazione; spostò lo sguardo di qua e di là, come se non riuscisse a trovare le parole per esprimere un pensiero. Poi, con tono perplesso, domandò: — Perché mi stai fissando i piedi?

— Oh, così — ribatté il burocrate. — Per nessun motivo particolare.

Tuttavia, mentre deattivava il surrogato, il burocrate rifletté. Molta gente possiede beni di lusso provenienti da altri sistemi solari. I mercantili-robot si facevano strada fra le stelle con infinita lentezza, ma con grande regolarità. Il padre di Gregorian non era certo l’unico a indossare stivali provenienti da fuorisistema.

Stivali di pelle rossa.


La bettola era silenziosa quando emerse dallo sportello. Attraverso la porta, vide che era ormai scesa la sera. L’aria grigia e periata stava diventando nera. Il buttafuori era seduto su una sedia traballante con lo sguardo fissato nella pioggia. I tunnel che conducevano verso l’interno erano voragini prive di luce.

Per un istante, in cui provò paura e sollievo contemporaneamente, il burocrate pensò che fosse ormai tutto definitivamente chiuso. Poi si rese conto di quanto fosse presto; le ragazze non erano ancora in servizio.

— Scusatemi — disse al buttafuori. L’uomo alzò lo sguardo senza curiosità. Era un damerino paffuto dai capelli ricci, mezzo stempiato. Una creazione ridicola. — Sto cercando una persona che lavora qui — disse. — La… — Ebbe un attimo di esitazione, rendendosi conto che conosceva le ragazze che lavoravano in quel luogo solo attraverso i soprannomi che erano stati loro affibbiati dai soldati, il Porco, la Capra e il Cavallo. — Quella alta con i capelli corti.

— Provate alla mensa.

— Grazie.


Il burocrate attese l’uscita del Cavallo all’ombra di una porta nei pressi della mensa. Si sentiva come un fantasma; triste, privo di voce e invisibile, un paio di occhi malinconici che scrutavano nel mondo dei vivi. Gli mancava il fegato per aspettare sotto la luce.

Di tanto in tanto qualcuno usciva dalla porta della mensa, e dato che vi era una piccola tettoia che riparava dalla pioggia, solitamente si fermavano sulla soglia a riassettarsi prima di affrontare il tempaccio. A un certo punto emerse Chu, a meno di un braccio di distanza da lui, infervorata in scherzose punzecchiature con il suo giovane galletto del momento. — …tutti uguali — disse. — Credete di essere chissà cosa solo perché avete quell’affare fra le gambe. Be’, sai che ti dico, non c’è proprio nulla di speciale nell’avere un cazzo. Persino io ne ho uno.

Il ragazzotto si produsse in una risata poco convinta.

— Non ci credi? Eppure è verissimo. — Tirò fuori una manciata di banconote. — Vuoi scommetterci? Perché scuoti la testa? Adesso, improvvisamente, mi credi? Senti, ti voglio dare la possibilità di riprenderti i tuoi soldi. Al raddoppio, scommetto che il mio è più grosso del tuo.

Il ragazzo ebbe un attimo di esitazione, quindi sorrise. — Okay — disse. Si portò le mani alla cintura.

— Aspetta un attimo, carino, non qui. — Chu lo prese per un braccio. — Sarà meglio fare le nostre misurazioni in privato. — Lo condusse via.

Il burocrate provò un senso di divertito imbarazzo. Ricordò quando Chu gli aveva mostrato il trofeo che aveva tagliato al falso Chu, il giorno che il cadavere era tornato dal tassidermista. Aveva aperto la scatola e gliel’aveva mostrato, scoppiando a ridere. — Perché mai vorresti tenerti una cosa del genere? — le aveva chiesto lui.

— Mi aiuterà a procurarmi i pesciolini giovani. — Gli aveva fatto fare un paio di volteggi in aria, come un ragazzino che gioca con un aeroplano giocattolo, quindi aveva baciato l’aria davanti alla punta del membro reciso e lo aveva rimesso nella scatola. — Fidati di me. Se vuoi catturare quei bei ragazzini giovani, non c’è niente di meglio che avere un grosso cazzo.


Dopo un po’, il Cavallo emerse dalla mensa, sola. Si fermò sulla soglia per sollevare il cappuccio del suo impermeabile. Il burocrate uscì dall’ombra e tossì, coprendosi la bocca con la mano. — Vorrei approfittare dei vostri servizi — disse. — Non qui, ho un posto al vecchio cantiere.

La donna lo esaminò dall’alto al basso, quindi scrollò le spalle. — Va bene, però dovrai pagarmi anche il viaggio… — Gli prese la mano e indicò il dito tatuato. — E non posso passare tutta la notte con te. C’è una messa di mezzanotte in chiesa, un servizio per i morti.

— Non c’è problema.

— È l’ultimo servizio, e non voglio perdermelo. Canteranno per tutti coloro che sono morti a Clay Bank, e ci sono delle persone che voglio ricordare. — Gli prese il braccio. — Fai strada. — Era una donna piuttosto brutta, con un viso duro e ruvido come un pezzo di legno vecchio. In circostanze differenti, il burocrate avrebbe potuto forse averla come amica.

Camminarono in silenzio lungo il fiume. Il burocrate indossava un poncho confezionatogli dalla sua valigetta. Dopo un po’, il silenzio iniziò a diventare opprimente. — Come ti chiami? — domandò con tono imbarazzato.

— Vuoi dire il mio vero nome o quello che uso di solito?

— Quello che vuoi.

— Arcadia.

Giunti alla casa galleggiante, il burocrate accese una candela e la piazzò sulla sua bugia, mentre Arcadia tentava di togliere il fango dalle proprie scarpe. — Non vedo l’ora che finisca questa pioggia! — commentò.

Il pacchetto che aveva comprato quel mattino dagli sciacalli era ancora sul comodino. Mentre era via, qualcuno gli aveva disfatto il letto e aveva messo una piuma di corvo al suo centro. La spazzò via come se niente fosse.

Arcadia trovò un gancio, dove appese l’impermeabile. Si toccò il bracciale del censimento con espressione infastidita. — Questo affare mi sta irritando la pelle. Sai cosa penso? Penso che nel giro di un paio d’anni l’adamantino diventerà una specie di feticcio. Mi sa che la gente sarà disposta a pagare dei bei soldi per farsi mettere addosso questa roba.

Il burocrate le lanciò il pacchetto. — Tieni. Togliti tutto e indossa questo.

La donna osservò il pacchetto con aria interessata, quindi scrollò nuovamente le spalle. — Okay.

— Torno subito.

Il burocrate prese un paio di forbici da giardinaggio dalla sua valigetta e uscì fuori, sotto la pioggia. Fuori era buio pesto, e ci mise un bel po’ a raccogliere il quantitativo di fiori di cui aveva bisogno.

Quando fece ritorno, Arcadia aveva già indossato la veste fantastica. Era tutta ricoperta di lustrini rossi e arancioni, e in più era tagliata male. Però le stava abbastanza bene. Non era poi tanto male.

— Rose! Che bello. — Arcadia batté le mani come una ragazzina. Fece un giro su se stessa, facendo sollevare la gonna della fantasia attorno a sé in un movimento fluido, quasi magico. — Ti piace?

— Sdraiati sul letto — disse il burocrate con tono duro. — Solleva la gonna fino alla vita.

La ragazza ubbidì.

Il burocrate buttò le rose accanto al letto in un mucchio bagnato. La pelle di Arcadia era pallida come il marmo in quella luce scarna, i peli ammonticchiati fra le sue gambe una foresta scura e ombrosa. La sua carne dava l’impressione di essere gelida.

Quando si fu tolto gli abiti, il burocrate era ormai in erezione. La stanza era satura dell’odore dolciastro delle rose.

Chiuse gli occhi mentre le entrava dentro, e non li riaprì finché non ebbe finito.

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