12. Attraversando l’antica strada sopraelevata

— Non sembri proprio di ottimo umore, stamattina.

L’aeromobile proseguì, ronzando tranquillamente fra sé, nel suo volo verso sud. Il burocrate e Chu erano seduti di spalle in comodissime poltroncine anatomiche. Dopo un po’, Chu provò di nuovo.

— A quanto pare ti sei trovato un’amichetta con cui passare la nòtte. Sicuramente ti sarai divertito più di me.

Il burocrate continuò a tenere lo sguardo fisso davanti a sé.

— Va bene, non mi parlare. Sai quanto me ne importa. — Chu ripiegò le braccia sul petto e si appoggiò allo schienale. — Ho passato tutta la fottutissima notte in questo aggeggio, posso passarci anche la mattinata.

Tower Hill diventava sempre più piccola alle loro spalle. Nubi grigie e minacciose si accalcavano sempre più numerose dal Piedmont, attirate dal calo di pressione causato dall’oceano. Le foreste che sorvolavano, viola come un livido, erano disseminate di behemot che si davano da fare per liberarsi dalla fanghiglia. Spinti fuori dalle loro tane da forze che non potevano capire, le pance gonfie di piccoli che non avrebbero mai visto, le colossali bestie vagavano per i boschi con fare selvaggio e disperato, ormai condannate.

Il burocrate aveva inserito la sua valigetta nei comandi di volo, bypassando le funzioni autonome. Di tanto in tanto le sussurrava qualche modifica della rotta, e la valigetta riportava il messaggio al cervello del velivolo. Fra i vetri dell’abitacolo vi era uno strato di aria compressa che isolava completamente dai rumori esterni, tanto che gli unici suoni udibili all’interno erano il pigro ronzìo del motore e il rombo soffuso delle vibrazioni generate dall’apparecchio stesso.

Stavano sorvolando un piccolo insediamento fluviale quando Chu si scosse improvvisamente dal suo torpore passivo e sbatté una mano sul cruscotto. — Cos’è quel paese lì sotto?

— Gedunk — rispose prontamente il velivolo. — Popolazione 123, accesso fluviale, ultimo centro di evacuazione orientale designato…

— So tutto di Gedunk! Che cosa ci facciamo qui? Dobbiamo aver invertito la rotta in qualche modo… — Si allungò per guardare meglio. — Siamo diretti verso nord! Come è successo? Siamo di nuovo sul fiume. — Da quell’altezza, la chiatta del bestiame sul fiume sembrava un giocattolo, i lavoratori poco più che dei puntini neri. A sud rispetto al paesino si intravedevano i resti del campo di evacuazione. Una tenda spicchettata svolazzava stancamente sul suolo come una creatura morente. Gli evacuati erano accalcati in una serie di recinti rettangolari posti uno accanto all’altro sulla sponda del fiume, e stavano venendo controllati uno per uno prima di salire sulla chiatta.

— Portaci giù — disse il burocrate all’aeromobile. — Quel campo di meloni a ovest del paese va benissimo.

L’aeromobile si rifoggiò, allargando e appiattendo le ali e tirando fuori due alettoni per aumentare l’attrito e perdere velocità. Planarono.

Mentre l’aeromobile atterrava, circa metà dei meloni bianchi disseminati per il campo si srotolò e scappò via su piccoli piedini, strane creature dal naso acuminato che scomparvero prima che l’occhio riuscisse a metterle a fuoco.

Entro breve, su quei campi avrebbero pascolato solo pesci. In lontananza vi erano diverse baracche semi-distrutte e un fienile dal tetto sfondato, tutte in attesa dei loro nuovi inquilini; contadini sottomarini, topi subacquei, qualunque cosa avrebbero fornito i signori delle maree. Il cupolino di vetro rientrò silenziosamente nell’aeromobile.

Raffiche di vento giungevano a tratti da tutti i punti cardinali. L’aria attorno a loro era in continuo movimento, irrequieta come un cucciolo di cane. — Ebbene? — domandò Chu.

Il burocrate infilò una mano nella valigetta e ne tirò fuori un sottile tubo di metallo. Lo puntò verso Chu. — Esci.

— Cosa?

— Immagino che non sia la prima volta che vedi uno di questi. Se non vuoi costringermi a usarlo, esci immediatamente.

Chu fissò il tubo lucente, il buchino sulla sua punta diretto esattamente sul suo cuore, quindi alzò lo sguardo sull’espressione gelida del burocrate. Un colpetto con le nocche e la fiancata dell’aeromobile si aprì verso l’esterno. Chu scese dal velivolo. — Immagino che tu non abbia intenzione di dirmi che cosa ti è saltato in mente.

— Me ne vado ad Ararat senza di te.

Il vento arruffò i capelli di Chu, che contrasse il volto. Più che ferita sembrava perplessa. — Credevo fossimo soci.

— Soci — ripeté il burocrate con tono sarcastico. — Stai prendendo soldi da Gregorian, stai facendo le sue sporche commissioni, gli stai riferendo ogni mia mossa, e ancora hai il coraggio di dire una cosa del genere?

Chu rimase immobile, un’isola di pietra fra l’erba che frusciava.

— Da quanto tempo lo sapevi? — domandò infine.

— Da quando Mintouchian mi rubò la valigetta.

Lo guardò.

— Doveva essere stato per forza uno di voi due quello che mi ha drogato a Clay Bank. Mintouchian era il sospetto più logico, ma allo stesso tempo non era altro che un criminale da quattro soldi, uno di quelli della banda dei reperti archeologici falsi. Il suo lavoro consisteva nel trasportare casse fino a Port Richmond con il suo camion. Ha rubato la mia valigetta pensando di poter riprendere quell’operazione, solo che gli sgherri di Gregorian avevano già tentato di rubarla in precedenza, e sapevano bene che sarebbe tornata da me. Di conseguenza, lui non poteva lavorare per Gregorian, e quindi il traditore non potevi essere che tu.

— Merda! — Chu si voltò con fare irritato, quindi si girò nuovamente di scatto verso il burocrate. — Tu non hai idea di come vadano le cose da queste parti…

— Mi sembra di averla già sentita, questa.

— Non ne sai niente! Senti, non posso parlarti a questo modo. Scendi da quell’aereo e vieni qui a parlarmi faccia a faccia.

Il burocrate sollevò di un pelo il tubo metallico. — Non credo che tu sia in una posizione che ti consenta di dare ordini.

— Sparami, allora! O mi spari o mi parli, una o l’altra cosa. — Era talmente arrabbiata che gli occhi sembravano uscirle dalla testa. La sua mascella era protesa in un’espressione di sfida.

Il burocrate emise un sospiro. Con movimenti piuttosto goffi, scese a sua volta dal velivolo. — Va bene. Parla.

— Lo farò. Va bene, ho preso soldi da Gregorian. Del resto te l’ho detto appena sei arrivato, le forze planetarie sono tutte corrotte. Pensa che il mio stipendio non basta nemmeno a coprire le spese! È pressoché scontato che qualunque funzionario, se oliato a dovere, lavori per l’opposizione. È la nostra unica possibilità di sopravvivenza.

— Riconfigurati per il volo — disse il burocrate all’aeromobile. Si sentiva nauseato e disgustato, e non vedeva l’ora di essere in mezzo al cielo vuoto e limpido. Vedendo Chu, si rese conto che la sua intenzione doveva essere manifesta.

— Sei un idiota! Gregorian ti avrebbe ucciso sicuramente se non fosse stato per me. Così, di tanto in tanto ti mollavo un corvo nel letto. Non ho fatto nulla che non avrebbe fatto qualsiasi funzionario al mio posto, e ho fatto molto meno di quanto non avrebbero fatto molti altri. L’unico motivo per il quale non sei ancora morto è che ho detto a Gregorian che non ce n’era bisogno. Senza di me, non ce la farai mai a uscire vivo da Ararat.

— Non era forse proprio questo il piano originale?

Chu si irrigidì. — Io sono un ufficiale. Ti avrei portato fuori vivo. Ascoltami bene, lì sei completamente fuori dalle tue acque territoriali. Se hai intenzione di mollarmi qui, ti sconsiglio vivamente di andare ad Ararat. Non puoi affrontare Gregorian. È un pazzo, uno scalmanato. Se fosse stato convinto che ero la sua creatura, avremmo anche potuto prenderlo. Ma tu da solo? Non penso proprio.

— Grazie per il consiglio.

— Per l’amor di Dio, non… — Chu si interruppe. — Cosa succede?

Vi erano delle voci nell’aria, a dir la verità si sentivano già da un po’, grida e imprecazioni rese morbide e omogenee dalla distanza. Si voltarono entrambi nella loro direzione.

Sotto di loro, i recinti degli evacuati brulicavano di movimento. Le reti erano state divelte, e la folla stava inseguendo i soldati addetti all’evacuazione, che fuggivano in ordine sparso. Volavano bastonate, e il secco rumore del legno era udibile al di sopra del brusìo. — Idioti! — imprecò Chu a bassa voce.

— Cosa succede?

— Hanno radunato la gente troppo presto, li hanno imbottigliati in un luogo troppo stretto, li hanno trattati male e non gli hanno detto niente. Un esempio da manuale di come si crea un’insurrezione. In quelle condizioni, basta un nonnulla per creare uno scontro; una testa rotta, una voce tendenziosa, qualcuno che da’ uno spintone al suo vicino. — Si succhiò un molare con aria pensierosa. — Sì, scommetto che è successo così.

La chiatta si stava allontanando dal molo, cercando di isolarsi dalla rissa a terra. In molti tentarono disperatamente di saltarvi sopra, ma diversi caddero in acqua e altri vi vennero buttati. I soldati dei reparti di evacuazione si stavano radunando più a valle, dietro a un agglomerato di vecchi magazzini. Da quella distanza, la scena era molto lenta e facile da osservare. Chu guardò per un po’, quindi raddrizzò le spalle. — Il dovere mi chiama. Sarai costretto a ucciderti senza il mio aiuto. Io vado laggiù ad aiutare a raccogliere i resti. — Gli offrì improvvisamente la mano protesa. — Amici come prima?

Il burocrate ebbe un attimo di esitazione. Tuttavia, per qualche motivo, il suo atteggiamento era cambiato. La tensione fra loro era miracolosamente scomparsa, la sua rabbia nei confronti di Chu completamente dissipata. Passò il tubo da una mano all’altra, quindi strinse quella di Chu.

Più sotto, gli smorzafolla esplosero davanti alla calca in una nube di fumo arancione, dando adito a un ruggito di rabbia. Il burocrate era terrorizzato dal solo pensiero di andare laggiù. Ciò nonostante, si costrinse a offrirsi volontario. — Hai bisogno di aiuto? Non che abbia molto tempo, ma…

— Hai mai ricevuto un addestramento anti-sommossa?

— No.

— Allora non servi a nulla. — Tirando fuori un cigarillo, Chu iniziò a scendere dalla collina. Dopo qualche passo, si fermò e si voltò. — Accenderò una candela in tua memoria. — Esitò ancora, come se fosse riluttante a interrompere definitivamente quel contatto.

Il burocrate desiderò poter fare qualche gesto. Un altro uomo avrebbe potuto correrle dietro e abbracciarla. — Salutami tuo marito — le disse con tono imbarazzato. — Digli che ho detto che sei stata una brava ragazza mentre eri via.

— Che figlio di puttana. — Chu sorrise, sputò a terra e si incamminò.


Quando furono nuovamente in aria e diretti a sud, la valigetta parlò. — Hai finito con quella penna?

Il burocrate abbassò uno sguardo sconsolato verso il cilindro metallico che aveva in mano. Scrollò le spalle e lo restituì alla valigetta. Si appoggiò allo schienale. Gli facevano male le spalle, sentiva tensione e fatica dietro la testa. — Avvertimi quando saremo vicini alla città.

Sorvolarono campi immobili, paesi senza vita, strade senza veicoli. Le autorità addette all’evacuazione avevano setacciato la terra, lasciandosi alle spalle blocchi stradali, camion abbandonati e luminosi segnali verniciati sulle strade e sui tetti, tanto grandi quanto incomprensibili. A quel punto iniziavano le paludi, e con esse scomparve lentamente anche qualsiasi traccia di vita umana.


— Capo? Ho qui una richiesta. C’è qualcuno che ti vuole parlare.

Il burocrate si era quasi addormentato, sprofondato in uno stato di torpore in cui facevano capolino ombre di sogni che, fortunatamente, non si focalizzavano mai. Si riprese con un grugnito. — Una richiesta di cosa?

— C’è una programmazione esterna presente nel velivolo… qualche genere di apparato quasi-autonomo. Non è esattamente un agente, ma ha molta più indipendenza rispetto alla maggior parte degli interattivi in commercio. Vuole parlarti.

— Lascialo fare.

L’aeromobile gli si rivolse con tono allegro e malizioso. — Buongiorno, bastardone. Spero di non averti interrotto in qualcosa di interessante.

I peli alla base del collo del burocrate si sollevarono. Era la voce del falso Chu. — Veilleur! Tu sei morto.

— Sì, e l’ironia della cosa è che sono morto per colpa di una nullità come te. Tu, che non puoi nemmeno immaginare la ricchezza della vita che ho perso, perché sei stato tanto sciocco da metterti sulla strada di uno stregone!

Le nubi scorrevano sopra la sua testa, scure e dai contorni densi. — Sarebbe più logico che tu rivolgessi la tua rabbia verso Gregorian, per via del modo in cui… — Il burocrate si bloccò. Non aveva senso discutere con un frammento registrato della personalità di un uomo morto.

— Sarebbe come odiare l’oceano perché ti ha annegato! Uno stregone non è come un essere umano; le sue percezioni e le sue motivazioni sono molto più vaste, impersonali, e vanno ben al di là delle tue possibilità di comprensione.

— Allora vi è una motivazione? Per la tua presenza qui in questo momento?

— Mi ha chiesto di raccontarti una storia.

— Fai pure.

— C’era una volta…

— Oh, per favore!

— Capisco. La vuoi raccontare tu, la storia? — Il burocrate si rifiutò di abboccare, e il falso Chu riprese dall’inizio. — C’era una volta un apprendista sarto. Il suo lavoro consisteva nel prendere i rotoli di stoffa, misurarli e far girare la manovella del telaio mentre il suo padrone filava. Tutto ciò avveniva in un impero di sciocchi e di furfanti. Il sarto padrone del ragazzo in questione era un furfante, mentre l’imperatore del regno stesso era uno sciocco. Il ragazzo, non conoscendo altro e non conoscendo di meglio, era felice così com’era.

“L’Imperatore viveva in un palazzo che nessuno poteva vedere, ma del quale tutti dicevano che si trattava della più splendida struttura dell’universo. Possedeva incredibili ricchezze che non potevano essere toccate, ma che erano considerate universalmente inestimabili. Le leggi che promulgava erano considerate da tutti le migliori e le più sagge che vi fossero mai state, ma in realtà nessuno riusciva a capirne nemmeno una parola.

“Un giorno, il sarto venne chiamato alla presenza dell’Imperatore. Voglio che mi prepariate un nuovo abito, gli disse il re. Il migliore che sia mai stato confezionato.

“Ai vostri ordini, disse il sarto truffaldino, sarà fatto. Prese il ragazzo per l’orecchio e disse: ’Non ci riposeremo mai finché non vi avremo confezionato il miglior abito che si sia mai visto nella storia. Capi talmente fini che gli sciocchi non potranno nemmeno vederli’.

“Al che, letteralmente sommersi di ricchezze e con molte valide opzioni per il futuro, il sarto e il suo apprendista tornarono al negozio. Il sarto indicò una spoletta vuota in un angolo e disse al ragazzo: ’Prendi quella, è una spola del più prezioso filo di luna che abbiamo. E fai attenzione, perché se lo sporcherai con le tue dita sudicie, ti picchierò’.

“Per quanto meravigliato, il ragazzo ubbidì.

“Il sarto si sedette al telaio. ’Svolgi!’ ordinò al ragazzo. Il lavoro che ci aspetta è tremendo. Questa notte non dormiremo”.

“Come soffrì il ragazzo! Gli addetti alle pubbliche relazioni del sarto truffaldino diffusero la voce dell’appalto ricevuto, e da quel momento in poi molte celebrità e personaggi dello spettacolo fecero carte false pur di entrare nella bottega e assistere alla lavorazione. Guardavano a bocca aperta la lavorazione del telaio vuoto, le spole vuote che giravano vorticosamente, il bambù attorno al quale avrebbe dovuto essere avvolta la costosissima stoffa. Poi vedevano il sarto colpire il ragazzo davanti ai loro occhi, e si dicevano: ’Ah, quest’uomo ha veramente un gran carattere. È proprio un artista’.

“Al che, essendosi ormai compromessi, gli spettatori prendevano a lodare il lavoro. Nessuno ci teneva ad ammettere che era uno sciocco.

“Quando infine il lavoro fu terminato, il povero apprendista era ormai rimbambito dalla fame e dalle droghe che prendeva per rimanere sveglio. Era tutto pesto e livido e, se fosse stato abbastanza lucido, avrebbe potuto benissimo pensare di uccidere il suo padrone. Ma l’isterismo della folla era contagioso, cosicché il ragazzo, più di chiunque altro, si sentiva molto orgoglioso di essere partecipe a un’opera di simile importanza.

“Finalmente, venne il giorno della presentazione. ’Dove sono i miei abiti?’ domandò l’Imperatore. ’Eccoli, disse il sarto, mostrando il braccio vuoto. Non sono splendidi? Li abbiamo tessuti in maniera talmente fine e tagliati in maniera talmente raffinata che occorre un buon occhio anche solo per vederne il taglio. Per uno sciocco sono addirittura invisibili.’

“Può sembrare strano che l’Imperatore potesse cascare in una simile truffa, ma questo faceva parte della sua vita. Un uomo che crede nella propria nobiltà rispetto agli altri non ha problemi nel credere nell’esistenza di un pezzo di stoffa che non può vedere. Senza un attimo di esitazione, l’imperatore si spogliò nudo, e con l’aiuto del sarto indossò ben sette strati di purissimo nulla.

“Una festa nazionale venne subito dichiarata in onore del nuovo abito dell’Imperatore. Al sarto vennero accordati tanti di quegli onori, titoli e opzioni di investimento da permettergli di non lavorare mai più in vita sua. Licenziò il ragazzo, mandandolo per strada a mendicare.

“Fu così che, stordito, drogato e affamato, il ragazzo si ritrovò in piedi in mezzo alla strada proprio nel momento in cui l’Imperatore e tutta la sua corte passava in processione sulla via principale, con tutta la plebe che acclamava la bellezza dei suoi nuovi abiti, poiché anche fra il popolo, non vi era nessuno disposto a farsi dare dello sciocco.

“Il ragazzo, trovandosi in uno stato di elevata consapevolezza per via delle sue privazioni, non vide l’Imperatore, ma un vecchietto piuttosto malandato, e per lo più completamente nudo.

“Sono forse uno sciocco? si domandò. Ormai la risposta era evidente, È chiaroche lo sono, pensò. Sono uno sciocco. Nella sua totale disperazione, urlò ad alta voce: ’L’Imperatore è nudo!’

“La folla tacque, esitante. La processione si fermò. L’Imperatore si guardò attorno con aria confusa, e i suoi cortigiani fecero altrettanto. Sulla strada attorno a loro, la gente stracciata iniziò a bisbigliare fra sé. Si resero tutti improvvisamente conto che ciò che aveva detto il ragazzo, ciò che nessuno di loro aveva voluto ammettere per non apparire sciocco davanti agli altri, era la verità. L’Imperatore era completamente nudo.

“Il popolo insorse e linciò l’Imperatore, la sua corte e i suoi servi. Rasero al suolo il parlamento, e con esso l’arsenale. Bruciarono la caserma, le chiese, i negozi, le fattorie e le fabbriche. Gli incendi durarono una settimana intera. Quell’inverno vi fu una tremenda carestia, dopodiché venne la peste.

“In primavera la nuova Repubblica iniziò a giustiziare i suoi nemici, e il primo della lista fu proprio il ragazzo apprendista sarto.”

Il silenzio riempì l’abitacolo. — Sei circa divertente quanto lo eri da vivo — disse infine il burocrate.

— Nulla di quanto ti è accaduto da quando sei giunto a Miranda è avvenuto per caso — disse il falso Chu. — Gregorian ha orchestrato tutto dall’inizio. Ti ha insegnato a vedere le costellazioni nere e gli schemi che le riempiono. Ha fatto in modo che tu ti incontrassi con la Volpe. È stato sempre Gregorian che ti ha messo una strega nel letto per introdurti alle possibilità del corpo. Tu forse non lo hai mai visto, ma lui è sempre stato con te. Ti ha insegnato molte cose.

“Ora che sono morto, ha bisogno di un apprendista. Vuole che tu lo raggiunga ad Ararat per completare la tua educazione.”

— Crede veramente che farei una cosa simile?

— Il primo passo dell’apprendimento per un cercatore è quello di distruggere il proprio sistema di valori. E questo è già stato fatto, non è forse vero? Gregorian ti ha mostrato che i tuoi padroni sono corrotti e che non meritano la tua lealtà.

— Chiudi il becco.

— Puoi forse dire che non è vero? — Veilleur scoppiò a ridere. — Vuoi forse dirmi che non è vero?

— Fallo star zitto — ordinò il burocrate. La valigetta eseguì l’ordine.


Ararat si innalzava dalle paludi con l’inevitabile naturalezza di una montagna. Terrazzi legger-mente scoscesi formavano quartieri che si univano fra loro in piani irregolari. Più in su, i distretti commerciali si inerpicavano su pendii ancor più scoscesi, e infine vi erano i livelli amministrativi e di servizio. La città era un’unica struttura unificata che si innalzava a scalini irregolari fino a un’alta torre centrale. Fosse stata ricoperta di vegetazione, avrebbe ricordato una montagna, un picco solitario facente parte di una vicina colonna montuosa. Ora invece, pressoché priva di vita vegetale, con le sue finestre e le sue porte buie come pozzi e le sue pietre venate dal mare scure come nubi temporalesche, sembrava una mostruosità gotica, una scenografia innalzata per qualche tragedia dimenticata del passato dell’umanità.

— Puoi atterrare in città? — domandò il burocrate.

— Quale città?

— Sto parlando di quell’ammasso di pietra che abbiamo davanti a noi — disse il burocrate con tono esasperato.

— Capo, il terreno davanti a noi è perfettamente piatto. Ci sono solo paludi nel raggio di 50 chilometri.

— È assur… perché stiamo virando?

— Non stiamo virando. L’aeromobile sta volando dritta, e siamo diretti verso sud seguendo la bussola.

— Stai evitando Ararat.

— Non c’è nulla lì sotto.

— Stiamo virando verso ovest.

— Assolutamente no.

La città si stava spostando con lenta costanza al loro fianco. — Prendi per buona la mia parola. Quale spiegazione mi sai dare per la discrepanza fra ciò che vedo io e ciò che vedi tu?

La valigetta ebbe un attimo di esitazione. — Deve trattarsi di un’installazione classificata. So dell’esistenza di luoghi simili, luoghi che sono stati classificati di massima segretezza e che sono stati resi invisibili alle percezioni degli strumenti. Ho l’ordine di non vedere nulla qui, e di conseguenza per me non esiste nulla.

— Sei in grado di atterrare seguendo le mie istruzioni?

— Capo, non mi sembra il caso di far atterrare questo aggeggio in un’installazione classificata. Le difese mi ordinerebbero di virare, e andrei a finire a fare un atterraggio di fortuna.

— Hah. — Il burocrate studiò il terreno sottostante. All’orizzonte, l’oceano era un macchia grigiastra schiacciata fra le nubi. Ararat era assolutamente inavvicinabile da ben tre lati, circondata com’era da distese argentate di acqua e fango. A occidente, però, vi era un’ampia strada sopraelevata che conduceva dalla città a una radura erbosa fra gli alberi. Si trattava chiaramente di un frammento di ciò che una volta era stata una strada principale che conduceva in città. Nella radura al termine della strada vi era un’aeromobile parcheggiato assieme a una dozzina di veicoli terrestri. Il burocrate li indicò. — Vedi quella radura?

— Sì.

— Allora atterra in quel punto.


Il cupolino scivolò nella sua sede.

— Non posso accompagnarti — disse la valigetta. — Finché sarò inserito nel cervello dell’aeromobile, avrò la possibilità di contrastare le incursioni di Gregorian. Questo apparecchio è sovraccarico di programmazioni nemiche; se lo lascio, ci sono buone possibilità che ci si rivolti contro. Come minimo se ne volerà via e ci lascerà qui.

— E allora? Non ho certo bisogno di te per fare il mio lavoro. — Il burocrate scese dal velivolo. — Se non sono tornato nel giro di qualche ora, vienimi dietro.

— Ricevuto.

Il burocrate affrontò la strada sopraelevata. Quanto era risultato evidente dal cielo era invisibile da terra; l’asfalto era ricoperto da uno strato di sabbia sul quale crescevano erbacce in quantità. Ciò nonostante, qualcuno doveva essere passato con un bulldozer al suo centro, abbandonando poi la macchina stessa come un vecchio cane da guardia arrugginito. Il burocrate passò da un camion all’altro, sperando di trovarne uno che fosse in grado di portarlo fino ad Ararat. Ma le batterie erano state tutte saccheggiate. Prese quindi un televisore abbandonato sul sedile anteriore di un veicolo da fango, pensando che sarebbe potuto tornare utile seguire le previsioni del tempo, e si incamminò. La città si stagliava di fronte a lui in tutta la sua enormità. Non poteva essere troppo distante.

Il burocrate camminò fra gli alberi. Il bosco era profondo e silenzioso. Sperò di non incontrare un behemoth.

Nei punti in cui il terreno era più morbido, poteva scorgere delle impronte davanti a sé. A parte qualche traccia di bulldozer, non vi era alcun segno di passaggio di traffico motorizzato.

Continuando a camminare, si domandò per quale motivo tutti quei veicoli fossero stati lasciati nella radura. Nell’occhio della sua mente vide i vecchi, sciocchi e ricchi mendicanti che si recavano ad Ararat con passo stanco nella speranza di rinascere, come pellegrini decisi a raggiungere a piedi la loro montagna sacra. Sarebbero venuti carichi di arroganza e di speranza, ciechi per l’ansia e ridondanti di ricchezze da dare allo stregone in cambio dell’immortalità. Ciò nonostante, non se la sentiva di disprezzarli completamente. In fondo ci voleva un certo coraggio per arrivare fino a quel punto.

L’aria era gelida. Il burocrate rabbrividì, felice di essersi portato la giacca. Il silenzio era quasi opprimente. Stava proprio riflettendo su questo fatto quando un grido proveniente dal cuore delle paludi squarciò l’aria. Il burocrate si concentrò sui suoi passi, mettendo un piede davanti all’altro e tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. Un’improvvisa ondata di solitudine piombò dal nulla e si abbatté su di lui.

Dopotutto, era effettivamente isolato. Uno per uno, si era lasciati alle spalle tutti i suoi amici, i suoi alleati e i suoi consiglieri. Oramai non c’era un essere umano che conoscesse nel giro di chilometri. Anzi, il più vicino doveva trovarsi addirittura al Piedmont. Si sentiva vuoto e solo; la città continuava a dominare il cielo, ma non sembrava avvicinarsi proprio.

L’esperienza lo aveva fuorviato. Abituato com’era alle distanze amiche che si potevano affrontare all’interno dei mondi galleggianti e delle città orbitali dello spazio profondo, non si era reso conto che un oggetto potesse dominare il cielo eppure rimanere così distante. Il picco che era la sommità di Ararat galleggiava davanti a lui, nero e privo di vita.

L’aria divenne più scura, succhiando via il calore del giorno. Che cosa avrebbe trovato, si domandò, quando avrebbe finalmente raggiunto Ararat? Per qualche motivo, ormai non si aspettava più di trovare Gregorian lì ad aspettarlo. Era una scena che non riusciva proprio a immaginare. Molto più probabilmente, si sarebbe trovato in una città abbandonata, in un labirinto di strade deserte e di finestre vuote. La fine della sua lunga ricerca lo avrebbe portato al Nulla. Più ci pensava, più gli pareva plausibile. Era proprio il genere di scherzo che sarebbe piaciuto a Gregorian.

Continuò a camminare.

In un certo senso, si sentiva comunque soddisfatto. In fondo trovare Gregorian non era poi così importante. Lui aveva seguito i suoi ordini, e nonostante tutti gli sforzi che aveva fatto, Gregorian non era riuscito a neutralizzarlo. Forse era vero che i suoi padroni erano persone venali e che il Sistema per il quale lavorava era corrotto e magari anche condannato, ma comunque andasse, lui non si era tradito. E aveva tutto il tempo di raggiungere la città e tornare indietro prima dell’avvento delle maree del giubileo. A quell’ora il suo lavoro sarebbe stato comunque finito, e avrebbe potuto tornarsene a casa.

Un fiocco bianco galleggiò nell’aria davanti ai suoi occhi. Ne apparve un altro, poi un terzo. Erano troppo piccoli per essere fiori, troppo grandi per essere polline. Faceva un freddo tremendo. Alzò lo sguardo. Quando erano cadute le foglie? Gli alberi dai rami nudi erano come scheletri neri che si stagliavano contro il bianco del cielo. Altri fiocchi bianchi galleggiarono davanti ai suoi occhi.

Ormai erano dappertutto, milioni e milioni, e riempivano lo spazio vuoto fra lui e la città, definendolo e rendendo esplicita la distanza che ancora doveva percorrere.

— Neve — disse il burocrate con tono meravigliato.


Il freddo era decisamente sgradevole, ma il burocrate non vedeva alcun motivo per tornare indietro. In fondo un po’ di disagio si poteva anche sopportare. Forzò il passo, sperando che lo sforzo avrebbe generato un minimo di calore. Mentre camminava, il televisore sbatteva in continuazione sulla sua coscia. Il suo fiato usciva sotto forma di piccole nubi di vapore. I fiocchi, morbidi e simili a piume, si ammucchiavano rapidi sui rami degli alberi, sul terreno circostante, sul sentiero stesso. Alle sue spalle, le impronte si ammorbidivano, si riempivano e scomparivano del tutto.

Accese il televisore. Un drago grigio di nubi temporalesche incombeva sul Continente, aumentando di massa e riversandosi sempre più rapidamente. “Si stanno sciogliendo!” esclamò una voce eccitata. “Abbiamo qui delle splendide riprese orbitali dei ghiacchiai che si sciolgono…”

Cambiò canale. “…trovare rifugio immediatamente”. Il sentiero serpeggiava fra gli alberi, piatto e monotono. A corto di fiato, il burocrate cambiò nuovamente passo, tornando a camminare lentamente, quasi annaspando. Il televisore continuò a chiacchierare con tono allegro, raccontando storie di gente colta ai margini del disastro. Parlò di una serie di salvataggi miracolosi nella Provincia delle Sabbie e di rischiosi recuperi aerei lungo la Costa. Le milizie erano in stato di allerta, con squadre volanti di salvataggio che partivano a turni di sei ore l’uno. Tutto ciò ricordò al burocrate che doveva lasciare il Tidewater prima che si abbattesse la prima ondata delle maree del giubileo. Ciò poteva accadere entro dodici ore come entro diciotto. Non poteva assolutamente permettersi di fermarsi per dormire. Nemmeno per mangiare. Doveva ripartire al più presto.

Ora la neve era talmente fitta che riusciva a malapena a vedere gli alberi attorno a sé. Le dita e le piante dei piedi gli dolevano per il freddo. “Consigli per l’ipotermia!” esclamò il televisore. “Non massaggiatevi la pelle congelata, bagnatela appena con acqua tiepida.” Ma il burocrate non riusciva a seguire tutti quei consigli. Vi erano troppe parole che non conosceva.

Gli annunciatori erano più eccitati che mai. I loro volti erano paonazzi, i loro occhi luminosi. I disastri naturali facevano sempre quell’effetto sulla gente; li facevano sentire importanti, li rassicuravano del fatto che le loro azioni contassero. Cambiò nuovamente canale, e trovò una donna che spiegava la precessione dei poli. Mappe e globi l’aiutavano a dimostrare che Miranda stava entrando nel grande inverno e che la quantità di calorie ricevute dal sole era giunta al minimo storico. “Ciò nonostante, gli effetti di riscaldamento risultavano inevitabili già da un decennio. Delicati meccanismi retroattivi assicurano infatti…”

Il manico del televisore era pressoché ghiacciato. Il burocrate non ce la faceva più a tenerlo in mano. Con un certo sforzo, costrinse la sua mano ad aprirsi e lo lasciò cadere sulla neve. Si infilò subito la mano sotto l’ascella. Si affrettò, tenendosi abbracciato per conservare quel poco di calore che gli rimaneva. Per un certo tempo, sentì le voci che lo chiamavano alle sue spalle. Poi, piano piano, le voci scemarono e scomparvero del tutto.

Ora era veramente solo.


Solo quando incespicò e cadde si rese finalmente conto del pericolo in cui si trovava.

Colpì il terreno con forza e lì rimase, quasi godendo del dolore che gli attraversò il corpo, anestetizzandogli parzialmente un braccio e un lato della faccia. Il fatto che un semplice agente atmosferico potesse fargli una cosa del genere lo sconcertava. Alla fine, però, riuscì a rendersi conto che era venuto il momento di tornare indietro. O di morire.

Stordito, si rialzò in piedi. Solo che nel cadere si era girato, e ora non era più sicuro di quale fosse la direzione giusta. La neve fioccava sempre più densa, ricoprendogli i vestiti e impigliandosi nelle sue ciglia. Riusciva a vedere a malapena. Qualche linea grigia ai lati del sentiero, evidentemente alberi, e nulla più. L’impronta che aveva lasciato cadendo era già stata cancellata.

Tornò sui suoi passi.

Le possibilità che fosse effettivamente diretto verso l’aeromobile erano cinquanta contro cinquanta. Avrebbe voluto esserne sicuro, ma si sentiva disorientato e gli riusciva difficile concentrarsi. La sua attenzione era interamente assorbita dal freddo che gli aveva infilato i denti nella carne e non aveva alcuna intenzione di mollarlo. Spilli ghiacciati di dolore gli laceravano i muscoli. Il suo volto era irrigidito dal gelo. Strinse i denti, arricciando le labbra in una smorfia involontaria, quindi si costrinse a proseguire.

Qualche tempo dopo, non avendo ancora incontrato il televisore abbandonato, si rese conto che doveva aver sbagliato direzione. Attese però più a lungo possibile prima di ammetterlo a se stesso, poiché il solo pensiero di tornare ancora una volta sui suoi passi lo faceva stare ancor più male. Infine, però, non poté fare a meno di ammettere il suo errore, si girò e continuò a camminare.

Era tutto così meravigliosamente silenzioso…

Il burocrate non sentiva più i piedi da ormai parecchio tempo. Ora il freddo gli stava salendo alle gambe, portando torpore ai muscoli dei polpacci. Le ginocchia gli bruciavano per il contatto con la stoffa gelata dei pantaloni. Le sue orecchie erano a fuoco. Un dolore tremendo agli occhi e al centro della fronte gli fece ronzare la testa. Voci demoniache iniziarono a mormorare parole dissennate in un vorticoso coro.

Poi il torpore paralizzante salì ancora, attanagliandogli le ginocchia. Il burocrate si bloccò e cadde.

Non si rialzò.

Per un periodo lunghissimo rimase immobile, sentendo allucinazioni auditive di macchine fantasma. Iniziava a prcepire un piacevole tepore. La televisione aveva detto qualcosa in proposito. “Alzati, bastardo,” pensò. “Devi alzarti.” Udì un suono davanti a sé, e vide un paio di stivali di pelle nera davanti al suo volto. Un uomo dalla corporatura massiccia si abbassò e lo prese in braccio con grande delicatezza. Da sopra la spalla dell’uomo, il burocrate vide una macchia di colore nel turbine bianco. Doveva trattarsi di qualche genere di veicolo, auto o camion che fosse.

Il burocrate alzò lo sguardo verso un volto ampio, carico di energia e di calore, inesorabile come una pietra. Sembrava il padre di qualcuno. Le labbra dell’uomo si arricciarono in un sorriso che coinvolse tutto il volto, formando due allegre palline appena sotto i suoi zigomi. L’uomo gli fece l’occhiolino.

Era Gregorian.

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