Qualche giorno più tardi, la Space Angel emerse dall’iperspazio in un sistema strano. L’equipaggio aveva trascorso i giorni precedenti a fare la conoscenza di Omero. Scoprirono che era una creatura cordiale e gentile e una vera enciclopedia di nozioni relative alle stelle del Centro, fra le quali aveva viaggiato per migliaia di anni, raccogliendo le opere poetiche di centinaia di razze. La sua specialità era la poesia epica. Anche i Viver erano costretti ad ammirarlo, non fosse altro che per la sua incredibile longevità.
Omero era inoltre un ottimo parlatore, e Kelly trascorse molte ore con lui, imparando la storia e la letteratura che le scuole statali non si erano curate di insegnargli. Omero aveva assorbito dal calcolatore di bordo tutti i dati relativi alla storia e alla letteratura dell’ umanità. Se fosse sopravvissuto, alla fine del viaggio Kelly sarebbe stato un uomo colto.
Erano nel bel mezzo di una lezione quando suonò l’allarme. Kelly si precipitò al posto di combattimento che gli era stato assegnato, nella cupola osservatorio dove era stato istallato il cannoncino laser a sei raggi.
— Cos’è successo, Torwald? — chiese lasciandosi cadere nel sedile imbottito e allacciandosi le cinture di sicurezza.
— Ci stanno attaccando — rispose senza scomporsi Torwald.
— Siamo usciti pochi minuti fa dall’iperspazio — gridò Ham dal suo posto ai comandi del depolarizzatore a cui erano assegnati lui e Nancy. — C’era un pianeta nelle vicinanze, un gigante gassoso delle dimensioni di Giove. Stavamo cercando un posto più adatto quando è cominciato l’attacco. Una stazione armata sta orbitando intorno al gigante, ma doveva trovarsi dalla parte opposta quando noi siamo entrati nello spazio normale.
«Non appena è salita sull’orizzonte ha cominciato a sparare. Ha diverse armi a energia. Sfera è riuscita a deviare quasi tutti i colpi, ma abbiamo riportato qualche danno.»
— Perché Sfera non è passata subito nell’iperspazio? — chiese Kelly guardando oltre la cupola trasparente mentre aggiustava il tiro. Lo spazio circostante era tutto uno sfavillio di colori.
— Suppongo che prima di tutto pensasse a neutralizzare i colpi.
— Secondo i miei strumenti — comunicò Finn dal ponte sottostante — Sfera ci sta allontanando dalla stazione orbitante. Fra poco saremo fuori tiro.
A un tratto Kelly rimase abbacinato da un’esplosione di luci colorate ancora più violenta, e la nave traballò. La sirena d’allarme riprese a suonare, e i tre che si trovavano nell’osservatorio si affrettarono a indossare le tute di sicurezza ideate da Torwald.
— Dove siamo stati colpiti? — chiese Ham infilando il casco.
— Lo scafo è stato perforato fra i portelli due e tre della stiva. A dritta, tutti i compartimenti di idroponica sono stati isolati. — La voce della comandante era calma come se stesse leggendo una bolletta di carico.
— C’è nessuno là? — chiese Torwald.
— Nessuno.
Poco per volta i colori svanirono e non ci furono più sobbalzi.
— A quanto pare siamo fuori portata — disse con sollievo la comandante. — Achmed, fatti accompagnare da Lafayette e da Kelly e andate a dare un’occhiata all’avaria. Gli altri restino alle loro postazioni finché non lo dirò io.
Kelly sfibbiò le cinghie e scese sulla passerella sottostante. Poi, oltrepassata la sezione idroponica raggiunse la pesante paratia che divideva la parte anteriore della nave dalla stiva. Là incontrò Achmed e Lafayette che lo aspettavano davanti al portello d’emergenza.
— Passeremo uno alla volta — disse l’arabo. — Prima io, poi Lafayette e poi tu, Kelly. Dietro quel portello c’è il vuoto e ci sarà finché non avremo riparato i danni. Non dimenticatelo.
Achmed aprì il portello ed entrò nel compartimento stagno. Quando il portello si richiuse, sentirono il sibilo dell’aria che veniva espulsa dall’interno. Poi passò Lafayette, e infine, fu il turno di Kelly.
Quando si aprì il portello della stiva, Kelly trattenne il respiro. Si aspettava di vedere un disastro: le paratie squarciate, il carico di cristalli sparso e frantumato, la passerella che pendeva sbilenca. Invece niente di tutto questo. Tutto sembrava normale. Notò che Achmed e Lafayette guardavano verso l’alto e seguì la direzione del loro sguardo. Vicino alla paratia di dritta c’era una sottile fessura, lunga due metri e larga non più di dieci centimetri, come se un gigantesco rasoio avesse praticato un taglio netto nello scafo. L’estremità inferiore della fessura spariva oltre la paratia che divideva la stiva dalle installazioni di poppa.
— Lo squarcio continua sulla piattaforma dell’AC. Kelly, vai a controllare, mentre noi due mettiamo una pezza qui.
Kelly salì sul ponte superiore, aprì il portello che dava sulla piattaforma di carico ed entrò. Lo squarcio si allungava per altri tre metri sulla paratia di fondo e anche la piattaforma era stata danneggiata.
— Achmed — gridò Kelly, e quasi non riconobbe la sua voce, nel casco. — Qui lo squarcio è ancora più lungo, e i coni di propulsione della piattaforma sono stati danneggiati.
— Maledizione! Quanto è lungo?
— Circa due terzi della paratia. — Be’, credevo peggio. Vedremo di metterci una pezza anche lì. Per un po’ terrà, ma quanto prima dovremo fare scalo su un pianeta per riparare i danni come si deve.
Nelle ore successive, Kelly ebbe un bel da fare a correre avanti e indietro per portare materiale e attrezzi mentre Achmed, Torwald e K’Stin provvedevano a saldare sullo squarcio una piastra di metallo.
Durante i lavori di riparazione, la comandante esplorò il sistema alla ricerca di un pianeta dove poter sbarcare. Finalmente ne trovò uno adatto vicino al sole del sistema. Impiegarono parecchi giorni per raggiungerlo, e via via che ci si avvicinavano aumentava il nervosismo dell’equipaggio. Il gigante gassoso era protetto da una stazione spaziale armata, e anche quel pianeta poteva esserlo.
I loro timori però risultarono infondati. Il pianeta, visto dall’osservatorio, era in massima parte coperto dal mare, ma possedeva anche due continenti abbastanza grandi e un certo numero di isole. La terraferma era per la quasi totalità coperta da banchi di nuvole,ma quel po’ che si riusciva a vedere era di un bel verde brillante.
— Dove atterriamo, Gertie? — chiese Ham. — Quella penisola sulla costa sudovest del continente settentrionale mi sembra un posto adatto.
— C’è un uragano tropicale che si dirige da quella parte. Proviamo quella grande isola a sud dell’ equatore. I nostri strumenti non rilevano indizi di una civiltà tecnologicamente progredita, laggiù, ma è meglio non correre rischi. Se una simile civiltà esiste, un’isola è il posto migliore per atterrare. È meno facile che ci siano grosse installazioni e numerosi abitanti. Dobbiamo garantirci alcuni giorni di tranquillità per completare le riparazioni. Con la nave in queste condizioni non possiamo affrontare uno scontro sia pure ad armi pari.
Finn scese in sala navigazione e tornò pochi minuti dopo. — Ho localizzato una radura sugli altopiani, lontano dall’oceano. È quel che fa per noi.
— Bene — disse la comandante. — Scendiamo. Una volta a terra, nessuno si allontani dall’area di atterraggio senza permesso. E ora, tutti nei rispettivi alloggi a prepararsi per lo sbarco. Appena scesi vi dividerò in squadre per i turni di lavoro. Abbiamo un bel po’ di riparazioni da fare e non voglio perdere tempo.
Kelly si allontanò, insieme agli altri, deluso in cuor suo di non poter esplorare il pianeta.
Kelly e Nancy stavano in cima alla rampa, mentre Ham, Achmed e Bert formavano la squadra addetta al primo turno delle riparazioni: finché non fossero terminate, era tassativamente proibita qualsiasi esplorazione dei dintorni.
— Che spreco di tempo — protestò Kelly. — Un intero pianeta dove l’uomo non è mai sceso, e noi non possiamo esplorarlo. Non ti dà ai nervi? — Sperava con questo di suscitare la reazione di Nancy, di farla parlare un po’. Dal giorno in cui aveva rivelato qualche particolare della sua infanzia, Nancy si era rinchiusa in se stessa e, specialmente quand’era sola con lui, parlava pochissimo.
— Io ho visto molti mondi, Kelly, alcuni mai esplorati prima. Ci si abitua, a lungo andare. E poi la comandante ha ragione: a vederla la vegetazione di questo pianeta ricorda un po’ la giungla sulla Terra, ma potrebbe essere completamente diversa. Quella roba che sembra erba potrebbe essere carnivora, per esempio. I fiori potrebbero spruzzarti in faccia del veleno. Gli animali potrebbero avere scavato delle fosse e averle mimetizzate. Ho visto troppe volte cose di questo genere sui mondi colonizzati, e questo mondo ci è completamente sconosciuto.
— Potremmo mandare i Viver a dare un’occhiata intorno. Quelli non hanno paura di niente.
— Correrebbero rischi senza un motivo valido. E poi, la comandante non può esonerarli dal lavoro solo per soddisfare la nostra curiosità. E infine quei due temono qualsiasi cosa, finché non è provato che sia innocua.
— Si preoccupano talmente della propria sopravvivenza che mi chiedo se non finiranno col morire di ansia — rise Kelly, e rimase sorpreso nel constatare che era la prima volta che rideva dopo tanto tempo.
— Cosa c’è da ridere? — chiese una voce alle loro spalle. Lafayette stava scendendo dalla piattaforma della passerella. Sembrava di malumore, come sempre del resto negli ultimi tempi. Kelly pensava che la tensione del lungo viaggio influisse sul suo sistema nervoso.
— Kelly ha fatto un’osservazione sui Viver — rispose Nancy.
— Ci sono serviti proprio tanto quei due crostacei! — commentò Lafayette.
— È molto più utile Teddy, e anche Omero: almeno servono a rompere la monotonia.
— Torno in sala comunicazioni — disse Nancy, a cui evidentemente non andava di parlare con Lafayette quando era di quell’ umore.
— Ehi, Kelly — chiese questi quando la ragazza fu lontana — cosa ne diresti di fare un giretto? Non ne posso più di stare su questa nave.
— Ma, non saprei — tentò di protestare Kelly. — La comandante ha detto...
— Cosa te ne frega di quello che ha detto? Non è un essere umano, quella donna! E poi cosa può farci? Sbatterci fuori a calci? Tanto sono convinto che non torneremo mai a casa.
— Be’, fa’ come vuoi, ma io non mi muovo — disse Kelly, nonostante morisse dalla voglia di andare.
— E allora resta! — gridò Lafayette. Scese la rampa e pose piede a terra senza neanche soffermarsi un momento al pensiero che lui fosse il primo essere umano a mettere piede su quel pianeta. Attraversò la radura e sparì nella giungla. Kelly aspettò che tornasse, ma dopo un’ora cominciò a preoccuparsi, e quando non riuscì più a resistere salì in plancia dove la comandante stava disegnando alcuni diagrammi con Ham, Torwald e Michelle. Vedendolo entrare, teso e preoccupato, la comandante increspò le ciglia.
— Cosa c’è? — chiese.
— Lafayette è sbarcato.
— Come? — Gertie balzò in piedi e afferrò Kelly per un braccio. — Quando?
— Poco più di un’ora fa. Diceva...
— Più di un’ora fa. — La rabbia la fece ammutolire per un istante. — Perché hai aspettato tanto a dirmelo, buono a niente? — L’insulto fece intuire a Kelly quanto fosse nei guai. Con voce tremante spiegò l’accaduto.
— Perché non gliel’hai impedito?
— Era lui che rischiava, non io. E conosceva i vostri ordini.
— Avresti dovuto fermarlo!
— E come?
— Con un bel pugno — disse Torwald. — L’hai già fatto un’altra volta.
— Stiamo perdendo tempo — tagliò corto la comandante. — Torwald, vai a prendere tutto quello che serve per una spedizione a terra. Manda i Viver a cercare le sue tracce. E anche Omero, che può vedere., e sentire meglio di noi. Michelle, mi dispiace dovere mandare anche te, ma può darsi che abbia bisogno delle tue cure quando lo troveranno. Se lo troveranno. Andate! No, tu resta — disse a Kelly, e quando gli altri si furono allontanati, gli si parò davanti furibonda con la faccia a un palmo dalla sua, incurante di dovere stare in punta di piedi perché Kelly era più alto di lei. — Ascolta. Quando sei di servizio a bordo, la prima cosa a cui devi pensare, l’ultima, e sempre, è la nave. I tuoi umori e i tuoi sentimenti non contano. Quel ragazzo era da settimane sull’orlo di un collasso nervoso e stava a te stargli vicino, anche se in passato avete avuto degli screzi. Hai abbandonato a se stesso un compagno che aveva bisogno di comprensione e di assistenza, hai costretto parte dell’equipaggio a mettere a repentaglio la vita, hai implicitamente ritardato le riparazioni e, quindi, danneggiato la nave. Sono tre imperdonabili mancanze, ma prima di emettere un giudizio definitivo, ti voglio offrire la possibilità di riscattarti. Andrai anche tu a cercarlo, e se non troverete Lafayette non farti rivedere. — Detto questo si allontanò lasciando Kelly solo in plancia, pallido e turbato.
I Viver e Omero tornarono dalla giungla dopo un’ora.
— La sua pista è nitida per quasi un chilometro — riferì K’Stin — poi scompare. Dove termina ci sono i resti di un laccio. Nessuna traccia di sangue né orme dopo quel punto.
— Secondo me gli indigeni l’hanno portato sugli alberi, e i Viver e io non siamo arboricoli — disse Omero.
— Visto nient’altro? — chiese la comandante.
— Solo giungla fitta — rispose K’Stin — e molti animali grandi e piccoli. Alcuni predatori, non pericolosi per i Viver, ma voi pappemolli dovete stare attenti. Abbiamo trovato anche diverse grandi costruzioni di pietra, coperte da vegetazione, per cui devono essere disabitate.
— Bene — commentò la comandante. — Primo: controllate quegli edifici, cercate segni di vita. Vita intelligente. Mantenetevi in contatto con la nave regolarmente e non correte rischi inutili. Andate.
La squadra era equipaggiata per un lungo tragitto su terreno impervio, senza bracciali né gambiere corazzati, ma solo con l’armatura che proteggeva il torso, e la tuta non perforabile. Portavano tutti pistole a laser e machete appesi alla cintura, e Ham e Torwald avevano anche fucili a energia. I Viver, come loro abitudine, erano degli arsenali ambulanti. Attraversarono la radura e furono subito inghiottiti dalla giungla.
Nonostante la gravità del momento non poterono evitare di osservare incantati quel mondo esotico: un albero col tronco a spirale era coronato, a cinquanta metri da terra, da un ciuffo di piumose foglie azzurre; un’altra pianta era tutta irta di lunghe spine; lunghi rampicanti serpeggiavano sul terreno; altri si allungavano dalla cima di un albero all’altra. Ovunque c’erano fiori, taluni così minuscoli che un ciuffo composto da centinaia non era più grande di un’unghia, altri invece così grandi che ogni petalo aveva un diametro di due metri.
Ondate di odori si susseguivano: dai profumi più delicati ai fetori più rivoltanti. Pareva che ogni pianta volesse richiamare l’attenzione con la forma strana, i colori sgargianti, l’odore intenso. C’erano anche moltissimi animali di ogni specie. Alcuni, piccoli e con molte zampe, erano l’equivalente degli insetti terrestri; altri, coperti di squame e privi di arti, parevano serpenti, e infine altri ancora, pelosi e di svariate dimensioni, erano forse mammiferi. Non c’erano uccelli né animali coperti di piume, ma molte specie degli altri tre tipi volavano. L’aria era piena di insetti volanti e di grossi animali dotati di ali trasparenti. Una bestiolina vagamente rettiloide si posò alla spalla di Kelly e lo fissò a lungo con gli occhietti gialli luminosi come gemme. Poi, con sollievo di Kelly, quella specie di libellula se ne volò via soddisfatta del suo attento esame.
La foresta relativamente scarsa nei pressi della radura cedette ben presto il posto a un fittissimo sottobosco e i Viver, che camminavano all’avanguardia, cominciarono ad aprirsi un varco coi loro machete lunghi come spade. Le loro braccia si sollevavano e si abbassavano ritmicamente recidendo le grosse liane legnose come se fossero steli di margherite. Gli Umani avrebbero impiegato un giorno per avanzare di un chilometro, i Viver ci misero un’ora circa.
La soffocante umidità li faceva sudare copiosamente nonostante i sofisticati sistemi di circolazione dell’aria delle tute. Dalle gambe il sudore colava negli stivali e dalle braccia nei guanti. Anche la leggera armatura finì col diventare soffocante e gli zaini troppo pesanti. I Viver invece sembravano perfettamente a loro agio e così pure Omero, che zampettava componendo a voce alta versi in diverse lingue. Quando K’Stin ordinò di fermarsi, tutti trassero un sospiro di sollievo.
Si trovavano sulla riva di un lento corso d’acqua largo una ventina di metri. L’acqua era limacciosa, molto poco invitante, e a tratti sulla superficie si formavano catene di increspature a V come se qualche grosso animale nuotasse sotto la superficie. B’Shant spiccò un grosso fiore e lo gettò nell’acqua. Immediatamente la superficie fu sconvolta come se qualcosa fosse scattato ad afferrarlo. L’impressione generale fu che, per un attimo, fosse sbucato un muso coperto di squame. Un secondo, e il fiore scomparve, per ricomparire a brandelli poco dopo come se il rettiloide l’avesse sputato con disgusto.
— Io dichiaro apertamente che non me la sento di attraversare il fiume — confessò Finn.
— Non c’è problema — disse K’Stin. — Preparatevi — e senza aspettare risposta abbaiò un ordine a B’Shant. L’altro Viver raccolse tre grossi fiori e li buttò nell’acqua. Immediatamente comparvero tre teste che li afferrarono, ma i Viver ebbero il tempo di sparare appena comparvero in superficie. I raggi andarono a segno e l’acqua si riempì di sangue blu scuro. Gli animali colpiti si contorsero per il dolore, e in men che non si dica numerosi altri si gettarono a divorarli in un turbinìo d’acqua, lottando fra loro per il possesso della preda.
— Adesso! — gridò K’Stin, e gli altri ubbidirono timorosi, tenendo alte sopra la testa le armi, mentre i Viver restavano a sorvegliare sulla riva coi fucili pronti. Quando tutti gli uomini furono sull’altra sponda passò B’Shant, quindi K’Stin, mentre B’Shant stava di guardia. K’Stin era al centro del fiume quando scomparve improvvisamente sott’acqua per ricomparire poco dopo avvolto nelle spire di un lungo rettile dotato di tentacoli. K’Stin Io afferrò per la testa e gliela tenne sollevata e distante da sé. Non appena ci fu riuscito l’altro Viver gli sparò in un occhio. L’animale lasciò la presa afflosciandosi e K’Stin giunse sano e salvo a riva.
— Omero, non ci hai parlato di quegli animali. Li hai visti quando sei stato qui?
— Forse, ma è probabile che questa sia una zona disabitata, una foresta vergine come dite voi. Comunque per me questi animali non sono pericolosi, quindi non ci ho fatto molto caso. Infine è passato molto tempo e i miei ricordi sono vaghi e sbiaditi.
I Viver ricominciarono ad aprire un varco nel folto, e gli altri li seguirono sudando e sbuffando. Nessuno di loro era in esercizio. Da mesi non avevano fatto una passeggiata e perciò faticavano il doppio.
Dopo un’altra ora di marcia estenuante avvistarono le costruzioni di cui aveva parlato K’Stin. Dapprima ne scorsero solo la sommità che spuntava fra gli alberi, poi poterono vedere anche il resto. Poco oltre si apriva un’ampia radura ed essi rimasero a bocca aperta dallo stupore. Davanti a loro si ergeva un muro di giganteschi blocchi di pietra, alto venti metri e lungo a perdita d’occhio. Oltre il muro spuntavano enormi edifici, torri alte e massicce, a scalinata, strutture piramidali, tutti decorati in modo grottesco.
— Primitivo, eh, Kelly?
— Primitivo? Ma cosa dici, Torwald! Sono espressione di una civiltà molto progredita.
— Basta avere manodopera e materiale per costruire cose come queste, figliolo. Gli autori di queste costruzioni appartenevano all’ Età della Pietra... Ma non è il momento di occuparci di questo. Piuttosto come faremo a scalare il muro?
— Noi due ci arrampicheremo fino in cima — disse K’Stin — e poi vi caleremo le corde. — Detto fatto, i Viver si arrampicarono trovando appiglio per i loro artigli nelle crepe e nelle fessure appena visibili agli occhi degli altri rimasti a terra. Quanto a Omero zampettò fino in cima con naturalezza come se si fosse trovato su un piano orizzontale.
Quando i Viver lanciarono le corde, K’Stin disse: — Non arrampicatevi, vi tireremo su noi.
Ham e Torwald furono i primi ad afferrare le funi che avevano dei nodi a intervalli regolari, e i Viver li issarono senza sforzo apparente. Arrivati sulla sommità, i due si accorsero che il muro era in realtà una piattaforma di solida muratura e gli edifici erano stati eretti sopra di essa.
La pietra di quella ciclopica terrazza, levigata dal passare dei secoli, era di un grigioverde striato di giallo. Gli edifici invece erano un caos di colori sgargianti come i fiori della giungla. Facciate di lastre d’alabastro, ornamenti di pòrfido, marmi di tutte le sfumature. Ogni superficie era scolpita con figure, disegni o schemi astratti. Lungo i secoli, i semi portati dal vento o dagli animali alati si erano annidati nelle fessure dove c’era dei terriccio e vi avevano messo radici. Le radici crescendo avevano allargato le crepe, e i resti imputriditi delle piante morte avevano fornito humus grazie al quale erano cresciute piante sempre più grandi, cosicché ora, su molti edifici, crescevano alberi robusti con grosse radici legnose che dividevano i blocchi giganteschi.
— Sergei — chiese Ham quando furono tutti saliti. — Che pietre sono?
— La piattaforma è di calcare piuttosto tenero — rispose il geologo. — Non è difficile da tagliare e levigare. Quanto alle altre, devo osservarle più da vicino.
— Proviamo quella, allora — disse Ham indicando la piramide più alta, la cui sommità era priva di vegetazione. — Di lassù potremo avere idea di dove è stato portato Lafayette.
Si avviarono verso la costruzione, stanchi ma spronati dalla curiosità. Alla base, volsero lo sguardo verso l’alto per osservare le facce di pietra ghignanti, con quattro occhi: maschere diaboliche e tutte dello stesso tipo pur non essendocene due uguali.
— Cosa saranno, Finn? Dèi? Demoni? Spiriti guardiani? Personaggi importanti?
— E inutile cercare di indovinare non disponendo di dati certi. Nessuno vede una porta?
Girarono intorno alla base scoprendo che le orride maschere si susseguivano a intervalli di sei metri. Sotto a una particolarmente orrenda, coi quattro occhi di pietra verde trasparente, scoprirono un’arcata.
— Questo è un vero arco a chiave di volta; dato il tipo di costruzioni mi sarei aspettata dei modiglioni — osservò Nancy.
— Chiunque fossero i costruttori — disse Sergei — disponevano di materiali di altri mondi. Gli occhi di quella maschera sono fatti di una giadeite trasparente che si forma solo su pianeti con alta percentuale di ammoniaca nell’atmosfera. Ho notato anche altre pietre decorative che non possono essere originarie di qui. Naturalmente gli indigeni possono avere rubato il materiale portato da altre civiltà provenienti dallo spazio.
Passarono in fila indiana sotto l’arco, così basso che i Viver dovettero chinarsi. All’interno, la luce delle loro lampade illuminò un ampio locale quadrato con le pareti coperte da geroglifici intarsiati d’oro.
— Potremmo prenderne qualche campione — suggerì Torwald. — Non molto, una dozzina di chili a testa. È una vergogna lasciare tanto oro in balìa della giungla.
— Vergognati tu, Torwald —disse Sergei — di proporci un simile vandalismo. E poi, chi ci dice che i proprietari non siano nei paraggi?
— Muoviamoci — incitò Ham — penseremo dopo ai souvenir. Prima dobbiamo sapere cosa abbiamo trovato. — Andando avanti scoprirono altre sale più piccole, tutte decorate con iscrizioni in oro. Finalmente raggiunsero una rampa e cominciarono a salire, continuando via via a esplorare la piramide, ricca di sale, terrazze, corridoi, tutti scolpiti. Le terrazze sovrastavano la giungla ed erano nude. Non c’erano però, da nessuna parte, sculture o sarcofaghi che indicassero cosa fosse quella piramide. Mancava anche una sala del trono.
— Forse è l’archivio nazionale — suggerì Torwald. — Tutte quelle iscrizioni potrebbero essere leggi o regolamenti.
— Probabilmente è un tempio — obiettò Nancy — e le iscrizioni preghiere.
— Ma non ci sono immagini di divinità, a meno che non lo siano le maschere fuori — disse Kelly.
— Nelle sinagoghe e nelle moschee non ci sono immagini — gli fece notare Torwald. — Molte religioni proibiscono qualsiasi riproduzione figurata delle divinità.
L’ultimo tratto della rampa portava a un locale ampio e arieggiato con grandi arcate che davano sulla sommità della piramide. Contrariamente alle altre, quella stanza non recava iscrizioni sui muri, ma al centro si ergeva un piedistallo cilindrico di pietra largo un metro coperto da un disco d’oro spesso almeno quindici centimetri, tutto inciso con disegni complicati.
— A me pare una mappa stellare — dichiarò Finn dopo che ebbero esaminato a lungo quella meraviglia. — È stilizzata e complicatissima, ma d’altronde da qui si vedono mille volte più stelle che dalla Terra.
— Credi che conoscessero l’astronomia? — chiese Ham.
— Se hanno costruito questa piramide con le iscrizioni d’oro allo scopo di sistemare qui questo disco, è chiaro che se ne interessavano. Dovrebbe esaminarlo Sfera.
— Lo dirò alla comandante. Intanto usciamo per dare un’occhiata dall’alto, finché c’è abbastanza luce.
La vista dalla sommità della piramide era tale da mozzare il fiato. La piattaforma che fungeva da base alle costruzioni era più grande di quanto non avessero creduto e qua e là se ne scorgevano altre in mezzo alla giungla.
— Vedo del fumo da quella parte — disse Kelly, indicando una piattaforma più piccola lontana circa tre chilometri.
— Ce n’è anche là — disse Michelle indicando un insieme di edifici su una piattaforma ancora più lontana. Da ambedue i complessi si levavano infatti sottili colonne di fumo grigio nell’aria immota. Il sole era prossimo al tramonto, e stava diventando rossastro. Il cambiamento di colore trasformò giungla e rovine nello spettacolo più bizzarro che avessero mai visto. Ham prese la trasmittente e fece un breve rapporto delle loro scoperte.
— Avete intenzione di tornare, Ham?
— È troppo tardi, e dovremmo attraversare la giungla di notte, Gertie. E poi vorrei dare un’occhiata a quelle installazioni per vedere se hanno portato là Lafayette. Domani mattina ci divideremo in due squadre e andremo a vedere.
— Achmed pensa che per domani avrà riparato la piattaforma di carico, così potremo calare a terra il veicolo per venirvi a rilevare. Datemi le vostre coordinate. Per ora, riposatevi. Buonanotte.
— C’è proprio bisogno che ci dia lei il permesso di riposare — brontolò Ham.
— Be’, gente, fuori i sacchi a pelo e le razioni. Staremo tutti di guardia stanotte. Sergei, voi farete il primo turno con me. Tor, tu farai il secondo con Kelly, Michelle il terzo e Nancy il quarto. Voi Viver fate come meglio credete, non so di quanto sonno avete bisogno. Omero, tu dormi?
— Mai, dopo l’infanzia. Credo che andrò a esplorare gli altri edifici vicini. Ci vedo benissimo con questa luce.
— Noi non siamo dei dormiglioni come voi — disse K’Stin. — Starò io di guardia per la prima metà della notte, e poi toccherà a B’Shant. Ci sistemeremo sulla cima di questo tempio o osservatorio che sia. Il tetto è troppo ripido per voi, così propongo che le vostre sentinelle stiano sulla terrazza... anche se sono inutili, visto che ci siamo noi.
— Non ha importanza, monteremo la guardia anche noi — disse Ham.
Gonfiarono i sacchi a pelo e poi pranzarono con le razioni che si erano portati nello zaino. Troppo stanchi per parlare, finirono di mangiare in fretta e poi s’infilarono nei sacchi a pelo, meno Ham e Sergei che uscirono armati di fucili, seguiti da K’Stin.
Quando un rude scossone lo svegliò, Kelly aveva l’impressione di essersi appena addormentato. Gli ci volle qualche secondo per riconoscere Torwald che stava chino su di lui, e per fare mente locale.
— È ora di alzarsi — gli disse Torwald, fresco e riposato, e Kelly si alzò insonnolito. Torwald gli cacciò in mano un fucile e lo spinse fuori. Appena uscito sulla terrazza, Kelly si svegliò completamente. Era una notte splendida. Le stelle splendevano fitte nel cielo limpido, con la stessa intensità di una notte di plenilunio sulla Terra.
La giungla sottostante era un bailamme di squittii, ruggiti, latrati, crepitii e altri indescrivibili suoni.
— Come va, K’Stin? — chiese Torwald.
— Niente da segnalare. Mi annoio — rispose il Viver. — Ogni tanto vedo le luci dei fuochi nel punto dove prima vedevamo il fumo, e qualche animale volante m è passato abbastanza vicino da darmi fastidio. Nient’altro. — I Viver si reggeva senza fatica sul tetto in pendenza, imbracciando il fucile a raggi e facendo roteare di continuo gli occhi in tutte le direzioni.
Kelly cominciò ad andare avanti e indietro sulla terrazza, contando i passi, finché non si rese conto che quel monotono esercizio gli faceva venire sonno. Allora rivolse l’attenzione ai dintorni. Su una delle piattaforme, in lontananza, si scorgeva il fievole bagliore di un fuoco. Spostò lentamente lo sguardo e subito s’immobilizzò. Aveva scorto un movimento. Tornò a guardare in quel punto, e vide qualcosa che si muoveva riflettendo la luce, sospeso a una cinquantina di metri dalla piattaforma. Per un attimo la cosa fu avvolta in un bagliore, poi scomparve.
— Torwald, K’Stin, guardate là! — disse, indicando il punto in cui aveva visto quella strana cosa.
— Cosa c’è? — chiese Torwald, e il ragazzo glielo spiegò.
— Forse era uno di quegli animali di cui parlava K’Stin — opinò Torwald senza dare importanza alla cosa.
— E le luci? — insisté Kelly, seccato di non essere preso sul serio.
— Probabili riflessi del fuoco. O forse insetti come le nostre lucciole.
— O forse il ragazzo non ci vede bene — disse con il suo solito tono sprezzante K’Stin. — Bisogna che ci decidiamo ad affidare i turni di guardia solo a chi ha sensi molto sviluppati.
— No, credo che abbia visto davvero qualcosa. Comunque, finché non si avvicina è inutile preoccuparsi.
Per tutto il resto del suo turno Kelly continuò a puntare lo sguardo sulla lontana piattaforma, ma non vide più l’oggetto o l’animale che si librava al di sopra. Tuttavia era sicuro di avere visto qualcosa, era quasi certo che non fosse un animale, ma un congegno meccanico. Ipotesi, questa, per niente tranquillizzante.
Si alzarono presto perché volevano raggiungere le altre rovine prima delle ore più calde. La notte, afosa e con sciami d’insetti ronzanti, non li aveva per niente rinfrescati né riposati. Sergei era stato punto e gli si era gonfiata una guancia, e Michelle si era affrettata a praticargli un’iniezione antiallergica.
Per risparmiare tempo decisero di dividersi in due squadre. —Tor — disse Ham. — Ti affido il comando della squadra B. Prendi con te Finn, Kelly, Nancy e B’Shant.
— Noi non ci dividiamo mai! — gridò K’Stin. — Mai! — Immediatamente i Viver impugnarono le armi con atteggiamento minaccioso.
— E va bene — consentì Ham. — Vorrà dire che al posto di un Viver potrai prendere Omero, se vuoi.
— Per me va benissimo — disse Tor. — Se non altro, Omero è più loquace.
— Ispezionò per qualche istante la sua squadra, poi fece cenno che lo seguissero sulla terrazza. — Bene, adesso potremo controllare se hai visto davvero qualcosa stanotte, Kelly. —Tor si voltò e inserì le coordinate sull’indicatore direzionale.
Scesero e s’incamminarono verso la meta. Parte della muratura aveva ceduto e così dovettero aprirsi ancora una volta un varco nella giungla. Tuttavia ebbero la consolazione di trovare molti sentieri già aperti, anche se le zone di vegetazione folta erano frequenti e dovevano lavorare di machete. Senza i Viver quel lavoro fu molto lento e faticoso. Prima se ne incaricarono Tor e Finn, poi Nancy e Kelly. Tor insegnò a tutti il modo migliore di usare il machete, ma il lavoro fu lo stesso estenuante. Prima fecero dei turni di mezz’ora, poi di venti minuti e infine nessuno riuscì a resistere per più di dieci minuti.
A mattino inoltrato, Tor decise di fare una sosta in una piccola radura. — Ci riposeremo qui per un’ora — disse. — Ormai siamo quasi arrivati, e mi sembra inutile ammazzarci di fatica.
Si lasciarono cadere a terra e subito trassero dallo zaino le borracce. Bevvero alternando i sorsi a pastiglie di sale per compensare la perdita di liquidi e sali dovuta all’eccessiva traspirazione.
— Bella squadra d’intrepidi esploratori — commentò Finn ironicamente osservando i compagni esausti. — Colombo o Amundsen avevano degli uomini così fiacchi? E Cortez cosa avrebbe fatto con mollaccioni come noi? Se mai torneremo, chi crederà che siamo stati in un posto come questo? Che abbiamo visto cose strane e meravigliose? Non c’è un solo vero esploratore fra noi.
— Dovranno crederci — rispose Torwald — con tutte le riprese che abbiamo fatto. Inoltre, se è vero quello che ho letto, gli esploratori, in genere, sono esseri fuori del comune, degli emarginati, disadattati alla ricerca di un posto adatto a loro.
— Proprio come noi — commentò Nancy.
Omero, che riposava con le sue molteplici gambe ripiegate sotto il corpo, improvvisamente scattò in tutta la sua statura di settanta centimetri, con le antenne puntate verso la loro destinazione. — Sento dei rumori... Non sono animali... È certamente un’attività organizzata.
— Be’, sapevamo già che questo pianeta era abitato da esseri intelligenti — ribatté Torwald. — Abbiamo visto fumo e luci, e qualcuno ha rapito Lafayette.
— Sono rumori di discordia — precisò Omero nel suo linguaggio forbito.
— Una battaglia? — suggerì Kelly. — Forse due villaggi si stanno facendo guerra.
— Non credo. C’è dolore, e angoscia, e qualcosa che non riesco a definire.
— Be’, andiamo a dare un’occhiata più da vicino — propose Tor. — In piedi. E mi raccomando di fare il meno rumore possibile!
Raccolsero armi e zaini, e ripresero la traversata della giungla, aggirando i punti più fitti, invece che aprirsi la strada coi machete. Poco dopo si trovarono ai margini di una zona diboscata divisa in campi su cui crescevano alti steli bruni. Li aggirarono, restando fra gli alberi, e prima di raggiungere la piattaforma scorsero i primi indigeni.
Erano una ventina, intenti al lavoro dei campi. Alti, ossuti, avevano l’epidermide di un verde opaco a scaglie articolate. Dal collo in giù avevano una certa somiglianza coi Viver, ma la testa era come quella delle formiche, col cranio a doppia cupola diviso al centro da una profonda scissura, su cui cresceva una cresta rigida. Avevano quattro occhi, proprio come le maschere della piramide.
— Adesso sappiamo chi ha costruito le città — disse Finn. — Tecnologicamente parlando sembra che siano gli epigoni di una civiltà decadente. Gli arnesi e gli utensili che stanno usando sono di pietra.
— Non possiamo esserne certi — bisbigliò Nancy. — Chi costruì le città può avere ritratto uno dei loro dèi o demoni con le fattezze di questa gente. Tu cosa ne pensi, Tor?
— Non credo che questo sia il momento più opportuno per dissertazioni accademiche. Muoviamoci. Diamo un’occhiata al posto, cerchiamo di scoprire dov’è Lafayette e poi torniamo.
Oltrepassarono i campi senza essere visti e ben presto arrivarono in vista di un villaggio costruito contro uno dei lati della grande piattaforma di pietra. Scesero in un profondo fossato e avanzarono al riparo dei folti canneti, fino ad avvicinarsi abbastanza da potere osservare da vicino il villaggio, composto da un centinaio di capanne di canne su palafitte, col tetto di grandi foglie. Parte degli abitanti lavorava sotto la sorveglianza di alcuni guardiani, che appartenevano a una razza diversa. Avevano teste grosse con viso prognato, quasi quadrato, fornito di denti aguzzi. Sopra il grugno c’erano tre occhi, uno al centro e gli altri ai lati. Dalla parte superiore del torso spuntavano quattro braccia, le prime tozze e muscolose, le altre sottili e più lunghe. I piedi somigliavano alle zampe delle aquile, ma, al centro, nella parte inferiore, c’era una specie di cuscinetto che serviva per camminare. Avevano anche lunghe code prensili. Ma la cosa più inquietante erano le loro armi, per niente primitive e dall’aria micidiale. Reggevano con le braccia superiori una specie di fucile e dalle bandoliere che s’incrociavano sul torso nudo pendevano altre armi più piccole. Molti portavano anche spade, coltelli e mazze.
— Omero — sussurrò Torwald — conosci quelle bellezze?
— Certamente. Sono Tchork. Hanno un impero che si estende su un migliaio di mondi, e seguono una politica di saccheggio e di schiavismo. Appena hanno depredato tutte le ricchezze trasportabili di un pianeta, lo abbandonano, per poi tornare quando le risorse sono di nuovo appetibili. Sono una razza selvaggia che è riuscita a dominare lo spazio proponendosi come mercenari disponibili per le guerre di popolazioni più civilizzate. Una volta assunti, si ammutinavano, rubavano le navi su cui prestavano servizio e si mettevano in affari per conto proprio.
Proprio il tipo di gente giusta da incrociare con la nave in disarmo — sospirò Tor. — Cosa credi che stiano facendo, qui?
— Pare che stiano razziando quella città — disse Finn. — Mi pare logico, dal momento che anche noi ieri avevamo pensato di farlo.
Dal punto in cui si trovavano potevano vedere un primitivo insieme di scale e piattaforme a zigzag che salivano dal villaggio alla piattaforma oltre a due file di indigeni, una che saliva e l’altra che scendeva. Quelli che salivano portavano ceste vuote, mentre le ceste dell’altra fila erano piene. Una volta scesi, gli indigeni rovesciavano il contenuto delle ceste su un mucchio al centro del villaggio. Uno dei Tchork controllava quello che portavano. Il mucchio era formato da oggetti di metallo,gemme e altri oggetti non identificabili a quella distanza.
Un indigeno barcollò sotto il peso della cesta, rovesciando parte del contenuto. Il Tchork emise una serie di strilli simili a latrati e gli diede uno schiaffo così forte che per poco non lo fece cadere. L’antropoide fece per protestare ma il Tchork sguainò una spada e gli troncò di netto la testa. Poi rinfoderò la spada, allontanò con un calcio la testa recisa e tornò al suo lavoro.
— Carino! — commentò Torwald. Nancy e Kelly erano impalliditi.
— Io direi di andarcene di qui al più presto — suggerì Finn. — Sono perfettamente d’accordo — disse Torwald. — Mi raccomando sempre di non fare rumore. Torniamo seguendo la stessa strada dell’andata. Tenetevi bassi e se vedete o sentite qualcosa non ditelo, ma fate un cenno con la mano. Manteniamoci a intervalli di cinque metri.
Si ritirarono lentamente, con le spalle e le ginocchia piegate, e quella sgradevole sensazione che si prova quando ci si lascia un nemico alle spalle. Quando arrivarono ai margini della giungla Torwald ordinò di fermarsi. Prese il comunicatore e trasmise un segnale di pericolo.
— Non mi piace farlo — spiegò ai compagni — ma bisogna avvertire quelli della nave nel caso che noi non riuscissimo a tornare. Subito dopo arrivò la risposta della comandante. — Sì, cosa succede? E poi Ham: — Torwald, siete in difficoltà?
— Comandante — disse Torwald — tenetevi pronti a decollare appena vi avverto, anche se le riparazioni non sono ultimate. Abbiamo incontrato molti brutti ceffi.
— Indigeni?
— No, gli indigeni sono dei primitivi. Sembrano pacifici agricoltori. I cattivi vengono da un altro mondo. Omero dice che si chiamano Tchork e che comandano un potente impero. Dice anche che sono dei selvaggi che si sono impadroniti delle risorse tecniche di altre razze. Da quanto abbiamo visto sono peggiori dei crotali a quattro teste — e descrisse la scena del villaggio.
— Questo spiega le condizioni della città in cui mi trovo — disse Ham. — Tutti i metalli preziosi sono stati asportati dagli edifici che abbiamo visitato finora, e così pure le gemme. È rimasta solo la pietra.
— Ascoltate — disse Torwald. — Noi stiamo tornando nella città dove abbiamo pernottato. Comandante, l’AC può raggiungerci?
— La piattaforma di carico sarà in grado di funzionare fra qualche ora. Il veicolo dovrebbe essere pronto per quando tu e Ham vi incontrerete.
— Auguriamocelo — commentò Torwald. — Passo e chiudo. Avanzarono il più velocemente possibile nel folto, finché, scoprendo un sentiero che portava nella direzione giusta, decisero di seguirlo vinti più dalla stanchezza che dalla paura. Improvvisamente, senza preavviso, comparve dopo una svolta un gruppo di indigeni che si fermarono, guardandoli. Anche i Terrestri si fermarono, non sapendo cosa fare. Poi sentirono un urlo inconfondibile simile a un latrato, e dietro al gruppo apparvero due Tchork. Anch’essi si fermarono interdetti per un attimo, ma si ripresero subito e puntarono le armi. Bestemmiando fra i denti, Torwald ne tagliò in due uno col laser mentre da parte sua Finn, con la pistola, colpiva l’altro in mezzo agli occhi.
— Maledizione, questa non ci voleva! A questo punto correte e non fermatevi finché non ve lo dico io.
Partirono tutti al galoppo come se avessero il diavolo alle calcagna e corsero coi polmoni in fiamme e un acuto dolore alla milza, finché non si fermarono là dove il sentiero sboccava in un’ampia radura.
— Dobbiamo attraversarla — disse Finn. — Qui la giungla è talmente fitta che ci vorrebbe un’ora per aggirarla.
— L’attraverseremo uno alla volta — ordinò Torwald. — Finn, vai tu per primo e coprici dall’al...
— Ascoltate! — lo interruppe Omero con le antenne vibranti rivolte nella direzione da cui erano venuti. Tendendo le orecchie sentirono una serie di rumori che si avvicinavano.
— Allora è meglio che attraversiamo la radura tutti insieme — disse Torwald.
— Tenete la testa bassa. Via! — Sfrecciarono nella radura per raggiungere al più presto l’opposto margine della giungla. Il rumore alle loro spalle andava aumentando, e pochi secondi dopo furono coperti da un’ombra. Voltandosi videro un aereo di foggia sconosciuta che stava sospeso a dieci metri da terra, oscurando il sole. Torwald e Finn si inginocchiarono e si misero subito a sparare, imitati dopo qualche istante da Kelly e Nancy. Ma i raggi delle loro armi non produssero alcun effetto, come se fossero stati assorbiti dall’apparecchio. Un oggetto grande e amorfo venne calato nella loro direzione. Via via che si avvicinava si allargò contorcendosi. Era trasparente ed emetteva un sibilo. I cinque si sparsero, ma non abbastanza in tempo. La cosa, contrariamente all’apparenza, era molto pesante e li schiacciò a terra. Quando 1’ebbero addosso videro che si trattava di una rete formata da sottilissimi fili trasparenti color ambra. Mentre cercavano di puntare le armi, la rete si restrinse costringendoli ad abbassare le braccia. Nel giro di pochi attimi rimasero completamente immobilizzati.
Il veicolo atterrò e sei o sette Tchork balzarono a terra. Altri uscirono dal folto. Con cautela e pazienza cominciarono a districare i prigionieri dalla rete appiccicosa, toccandola qua e là con strumenti simili a tozzi bastoni i che la facevano staccare appena sfiorata. Poi i Tchork raccolsero le armi dei prigionieri, prima di liberarli, e quindi calarono dal velivolo una cassa e l’aprirono. La rete si sollevò e fu risucchiata nella cassa.
— Dev’essere un animale — disse Nancy.
— É proprio quello che ci vuole per catturare gli schiavi senza danneggiare la merce — commentò con un sorriso amaro Torwald. Uno dei Tchork latrò qualcosa e i prigionieri si misero a sedere. Kelly si guardò intorno alla ricerca di Omero e lo vide poco lontano che brucava l’erba con l’aria più disinteressata e stupida del mondo. Un Tchork con la bandoliera adorna di gemme gli si avvicinò e lo spinse a calci verso gli altri. — Be’, valeva la pena di tentare — mormorò il crostaceo. Il Tchork ingioiellato ricominciò a latrare, e con gran sorpresa dei prigionieri Omero cominciò a tradurre simultaneamente gli urli del Tchork.
— Non cercare di farmela — stava dicendo questi a Omero. — Ne ho già visti altri come te. Cosa fai qui e cosa sono queste creature? I nostri schiavi ne hanno catturata una, ieri, e dicono che non le avevano mai viste prima.
— Io sono un poeta, come quasi tutti i miei simili, e viaggio alla ricerca di ispirazione per i miei versi. Queste persone viaggiano per motivi propri e sono state tanto gentili da permettermi di unirmi a loro. — Stavolta Omero parlava contemporaneamente in due lingue, una vera performance da virtuoso.
— E di quali affari si tratta? — chiese il Tchork fissando minacciosamente coi suoi tre occhi i prigionieri.
— Siamo esploratori — inventò lì per lì Torwald. — Uno dei nostri si è perduto e siamo venuti a cercarlo. Ho sentito che l’avete preso voi, e se ce lo restituite ripartiamo subito.
— Non approfittare della mia pazienza — ribatté il Tchork accompagnando le parole con uno schiaffo violento. — Siete armati.
— La giungla, qui, è piena di animali pericolosi — spiegò Finn notando che Torwald era troppo intontito per parlare.
— Da che mondo venite? Non ho mai visto esseri come voi.
— Il nostro mondo si chiama Terra — disse Finn, un po’ inventando e un po’ dicendo la verità. — È a capo di un potentissimo impero e se ci verrà fatto del male, la sua vendetta sarà terribile.
— Non ti credo — dichiarò il Tchork. — Inoltre voi avete ucciso due dei nostri. — Nonostante la tracotanza, sembrava un po’ meno sicuro di prima.
— Abbiamo sparato per difesa. Loro avevano estratto le armi per primi. Cosa avremmo dovuto fare? — Finn recitava a soggetto, cercando di esprimersi in modo da persuadere il Tchork. — In fondo, erano solo umili guardiani di schiavi, indegni dell’attenzione di creature superiori.
— Infatti — ammise il Tchork — ma qui siamo a corto di manodopera... — s’interruppe bruscamente, pensando forse di avere detto troppo. — In quanti siete scesi su questo mondo, e dov’è la vostra nave?
— Noi ve l’abbiamo chiesto? — ribatté Torwald, che si era ripreso.
— Faresti bene a ricordare che noi siamo armati e voi no. Limitati a rispondere alle domande. — La nostra nave ci ha lasciati qui qualche giorno fa per compiere una ricerca preliminare. Tornerà fra trenta giorni.
— Allora avrete un accampamento. Addosso non portate un’attrezzatura sufficiente per una permanenza di trenta giorni. Dove vi siete accampati?
— Ve lo dirò solo se non avete intenzioni ostili — disse Torwald cercando di esprimersi in modo che il Tchork potesse capire il senso delle sue parole.
— Se è così, questo significa che proteggete i vostri compagni o che temete per la salvezza della vostra nave. Tornerete con me alla mia base. A bordo! — Ubbidirono, non avendo altra scelta. Appena salirono sul velivolo vennero legati con le braccia dietro la schiena e due Tchork li tennero sotto continua sorveglianza. L’apparecchio si sollevò e Torwald commentò nel tentativo di alleggerire l’atmosfera con una battuta: — Be’, ora sappiamo cos’aveva visto Kelly la notte scorsa.
Erano stremati, sporchi e indolenziti. Il capo dei Tchork li aveva sottoposti a un lungo, snervante interrogatorio fin dal momento del loro arrivo. Evidentemente i Tchork erano degli esperti in materia, perché pur essendo stati maneschi e brutali non avevano causato danni irreparabili. Dopo l’interminabile serie di inutili domande, l’ufficiale ordinò che fossero legati e sistemati sotto le palafitte di una capanna. Evidentemente non voleva fare niente di drastico finché non avesse ricevuto ordini superiori.
— Be’, poteva andare peggio — osservò filosoficamente Torwald. — Se ne sapessero di più della nostra anatomia e psicologia ci avrebbero infilato degli stecchi sotto le unghie, o ci avrebbero schiacciato...
— Non parlare così — lo pregò Nancy rabbrividendo. — È stato già abbastanza brutto così. Credo che mi cadrà qualche dente — e si tastò la mascella con cautela. — Michelle te ne metterà di nuovi quando torneremo a bordo.
— Cosa ti fa pensare che torneremo? — chiese Kelly.
— Ci stiamo scambiando le parti, Kelly — gli disse Torwald. — Di solito, i giovani come te dovrebbero essere sempre ottimisti e i vecchi spaziali incalliti pessimisti. Devo ammettere però che la nostra situazione pencola dalla parte del pessimismo.
Torwald guardò verso il villaggio dove gli indigeni continuavano il loro incessante lavoro. Per la, quinta volta cominciò a piovere ed essi si ripararono con mantelli di erbe intrecciate. Stava calando la sera e una leggera brezza mitigò la soffocante calura. Poco dopo gli indigeni accesero i fuochi.
— Chissà se vogliono cuocerci — disse Nancy.
— Non lasciarti andare a fantasie morbose — l’ammonì Torwald. — Hanno acceso i fuochi anche ieri sera e probabilmente prepareranno quello che per loro è il rancio.
Nessuno diede loro da mangiare, e ignorarono anche Omero che avevano chiuso in una gabbietta di metallo, lontano dagli altri perché non arrivasse a toccarli con le chele. Quasi tutti gli indigeni si accovacciarono sfiniti intorno ai fuochi, mentre la maggior parte dei Tchork sparì in una cupola eretta a ridosso della base della piattaforma. Le sei guardie incaricate della sorveglianza dei prigionieri si raggrupparono intorno al fuoco scambiandosi latrati e grugniti. Ogni tanto uno andava a dare un’occhiata ai prigionieri, poi giocarono tirandosi dei sassi che afferravano con la coda: chi lasciava cadere il sasso veniva preso a calci dagli altri.
Verso mezzanotte, nonostante la fame, il disagio e l’indolenzimento, i prigionieri cominciarono a sonnecchiare mentre i guardiani restarono svegli e continuarono i loro periodici controlli. Poco prima di cedere al sonno, Torwald scorse due nativi col mantello da pioggia che si aggiravano fra due file di capanne con fare furtivo portando un sacco in spalla. Anche i guardiani li videro e si insospettirono. Uno dei Tchork si alzò e gridò qualcosa facendo segno ai due di avvicinarsi. Quelli esitarono un po’, ma poi obbedirono. Tor trovò strana la cosa, e seguì con attenzione la scena. Quando i due furono arrivati davanti al fuoco lasciarono cadere sacchi e mantelli, e i Tchork, invece di trovarsi davanti due indigeni, fissarono stupefatti due Viver.
Mentre quello che si era alzato stava per gridare, K’Stin lo colpì con un manrovescio che lo fece rotolare in mezzo alla radura. Intanto B’Shant colpì l’altro con un calcio nel grugno, sollevandolo, e subito dopo gli squarciò il ventre con uno sperone. K’Stin ne uccise altri due prima che facessero in tempo ad alzarsi e B’Shant ne afferrò un altro per il collo spezzandoglielo, mentre con l’altra mano vibrò all’ultimo Tchork un colpo di machete che lo tagliò in due dalla spalla al petto. Le sei guardie erano morte in meno di venti secondi.
I Viver si affrettavano ad aprire i sacchi che erano pieni di armi, di cui si addobbarono, e poi liberarono i prigionieri. — Voi, creature inette, dovreste essere più prudenti, visto che è tanto facile catturarvi — disse K’Stin tagliando con le unghie affilate le corde che legavano Finn.
— Sapete — osservò Nancy — è la prima volta che vi trovo belli.
— Noi siamo sempre belli, creatura gialla e molliccia. Sappilo. Dov’è la vostra roba?
— Ho visto che la portavano là — rispose Kelly indicando una capanna poco distante. — Ce l’hanno messa alcuni Tchork che poi non sono più usciti. Probabilmente la sorvegliano. Credo che in quella capanna ci sia anche Lafayette. Ho visto un Tchork che buttava via un pacchetto di razioni vuoto. Probabilmente stanno mangiando i nostri viveri.
— Allora dobbiamo ammazzarne ancora qualcuno — commentò K’Stin con un ghigno che voleva essere una risata. — Bene! — Seguito da B’Shant si avviò verso la capanna. I due Viver camminavano senza fare rumore, tenendosi nell’ombra. Senza curarsi della scala, si arrampicarono sulle palafitte e si precipitarono nell’interno. Per qualche attimo si sentirono rumori soffocati, poi silenzio. I Viver uscirono poco dopo portando due fagotti in spalla. Scesero lasciandosi scivolare lungo le palafitte e gettarono a terra i fagotti. Da uno si sentì provenire un lamento.
— È tornato il figliol prodigo — annunciò Torwald. Tutti si affrettarono a prendere le loro armi e le attrezzature. — Lasciate la corazza. Ne fabbricheremo altre a bordo. Qui è un ingombro che ci impedisce di muoverci in fretta.
Stavano per andarsene quando da un vicolo fra le capanne comparvero alcuni Tchork guidati da quello che sembrava un ufficiale.
— È il cambio della guardia! — gridò Torwald. — Sparate! — Puntò il fucile e fece fuoco, imitato dagli altri. Prima di cadere i Tchork riuscirono a loro volta a sparare qualche sventagliata di raggi verdi, che per fortuna andarono a vuoto. Ma il rumore richiamò l’attenzione dei compagni che erano nella baracca.
— Scappiamo! — gridò Torwald, mentre i Viver lanciavano alcune bombe contro la baracca. Mentre arrancavano ai margini della giungla, giunse fino a loro l’eco delle esplosioni. Pochi minuti dopo furono raggiunti dai Viver che si portarono a grandi balzi all’avanguardia. B’Shant portava in spalla Lafayette.
— Seguiteci! — gridò K’Stin. Dopo una corsa estenuante sbucarono in una radura dove li aspettava la sorpresa più bella della loro vita: l’AC, il veicolo terrestre, mimetizzato alla meglio con foglie e rami. Si affrettarono ad imbarcarsi tutti, compreso Omero che salì a bordo con un incredibile balzo.
— Andiamocene subito! — urlò Torwald. — Stanno per raggiungerci.
Achmed era ai comandi, e Ham manovrava un pesante mitragliatore a raggi montato su un treppiede nella sezione di coda.
— Tutti qui! — ordinò Ham. — Ventre a terra e mirate nella direzione da dove siamo venuti. Dimentichi dei disagi e della stanchezza, tutti si affrettarono a ubbidire. Mentre il veicolo si sollevava sbucò dagli alberi un gruppo di Tchork. Ham mise in funzione la mitragliera e luminosi raggi viola cominciarono a falciare i Tchork. Una ventina di alberi presero fuoco. I Tchork cominciarono a sparare a loro volta, circondati dalle fiamme. Ormai il veicolo si era innalzato e i colpi dei Tchork non lo raggiungevano. Qualcuno tirò un sospiro di sollievo e fece per alzarsi, ma Ham glielo impedì gridando: — Non muovetevi, non è ancora finita. Finché non raggiungeremo la Space Angel,o meglio ancora l’iperspazio, non saremo al sicuro. — A conferma delle sue parole una grossa sagoma scura si stagliò nel cielo a mezzo chilometro da loro: il velivolo dei Tchork.
— Visto?... Lasciamolo avvicinare un po’, se ci riesce. È troppo buio per potere mirare bene. Voi Viver avete dei razzi?
— Naturalmente, anche razzi agli infrarossi. Se non riescono a distinguere bene a questa distanza, i razzi li illumineranno accecandoli, e io e B’Shant potremo vederli.
— Buona idea, ma non è detto che anche loro non riescano a vedere nell’infrarosso. E poi noi abbiamo bisogno della luce normale per vedere il bersaglio.
— Lo scafo di quel velivolo respinge o assorbe i laser e i raggi a energia — ricordò Torwald. — Lo abbiamo scoperto quando ci hanno catturato. Forse la mitragliera avrà più effetto.
— Proviamo — disse Ham. — Quell’apparecchio è scoperto?
— C’è un incavo per i passeggeri e il carico — rispose Finn. — Non credo che sia un mezzo militare. Sul davanti ha un ampio parabrezza. Non so se anche quello sia a prova di raggi.
— Lo scopriremo presto. Si stanno avvicinando. Voi tenetevi pronti coi fucili. K’Stin, B’Shant, illuminatemi quel coso coi razzi. I due piccoli razzi si accesero proprio quando il velivolo dei Tchork passava loro sopra, illuminandolo in pieno. Dai razzi principali se ne staccarono poi altri più piccoli, direzionali, che si piazzarono sul mezzo inseguitore. Alcuni Tchork cercarono di abbatterli, ma era impossibile colpire bersagli così piccoli perché lo spostamento d’aria del velivolo li faceva sobbalzare in su e in giù.
— Fuoco! — gridò Ham azionando la pesante mitragliera. I raggi dei fucili non ebbero alcun effetto sul parabrezza, e anche i micidiali raggi della mitragliera furono respinti o assorbiti dallo scafo. Dopo avere sparato qualche colpo, Ham desistette dal tentativo. — Torwald, te ne intendi di razzi esplosivi?
— Abbastanza.
— Allora sparane uno sopra quell’affare.
Torwald calcolò la distanza, inserì nel pannello dei comandi i dati relativi all’altitudine e alla distanza, e schiacciò un pulsante. Un attimo dopo vi fu una fragorosa esplosione qualche metro a poppa del mezzo nemico. Torwald aggiustò la mira e tornò a premere il pulsante. Questa volta il razzo scoppiò proprio sopra il velivolo dei Tchork, a meno di tre metri. L’ondata d’urto e i micidiali frammenti straziarono i corpi degli occupanti, sollevandoli e mandandoli a fracassarsi nella giungla sottostante. Pochi attimi dopo, il velivolo precipitò in picchiata esplodendo fra gli alberi.
— Badate alle vostre armi! — gridò Ham. — Bel tiro, Tor.
— Però ha sprecato un razzo — fece notare K’Stin.
— Capita a tutti di sbagliare — disse Torwald.
Pochi minuti dopo avvistarono la Space Angel. Il veicolo entrò a velocità sostenuta nel compartimento, poi rallentò di colpo mandando a gambe all’aria quelli che stavano in piedi. Solo quando il portello interno si richiuse Achmed si rilassò ai comandi e disse che era stato colpito.
— Non stategli addosso — ordinò Ham agli altri. — Andate tutti ai vostri posti, e tu, Michelle, corri a prendere la cassetta del pronto soccorso. L’hanno colpito a un polmone.
Poco dopo arrivò la comandante con l’eterno sigaro fra i denti. — Credi che ce la farà, Ham?
— Sì, Gertie. — Ham prese fra le braccia il piccolo egiziano che aveva la bocca coperta da una schiuma sanguigna. Michelle tornò con la cassetta e gli altri si allontanarono. Gli ufficiali addetti ai comandi salirono in plancia a preparare la nave per il decollo, mentre Michelle e Torwald legavano il ferito a una cuccetta dopo che Michelle lo aveva medicato cospargendo la ferita con una gelatina gialla. Quando tutto fu pronto, la nave decollò, con un po’ di fatica poiché le riparazioni non erano ancora finite.
— Tutti ai posti di combattimento — ordinò la comandante. — Non perdete tempo con le imbracature anti-accelerazione, é probabile che dovremo passare al più presto nell’iperspazio.
— Kelly, vieni con me. — Torwald salì nella cupola osservatorio dov’erano stati installati i comandi delle armi pesanti. Torwald si legò al sedile davanti alla consolle del depolarizzatore e cominciò a controllare i comandi mentre Kelly prendeva posto vicino a lui. — Facciamo un controllo di prova — disse, e Kelly inserì i dati di bersagli immaginari facendo comparire sugli schermi puntini luminosi e forme strane che si muovevano velocemente in direzioni diverse. Torwald cancellò uno per uno i finti nemici azionando i comandi manuali, poi inserì gli stessi dati e lasciò che il computer facesse il resto. Tutto funzionò alla perfezione.
— All’orizzonte stanno comparendo navi aliene — riferì la comandante. Ham si unì a Torwald e Kelly e prese i comandi del cannone a laser.
— Non ho molta fiducia visto l’esito che hanno avuto i colpi della mitragliera — disse. — Probabilmente le navi sono fatte dello stesso materiale del velivolo abbattuto.
— È quello che ho pensato anch’io — osservò Torwald. — Però se sono fatte di molecole comuni, il depolarizzatore dovrebbe disintegrarle.
— Purtroppo ha una portata molto limitata.
— Eccole! — gridò in quella Kelly indicando due grossi punti luminosi sullo schermo dei bersagli. I punti attraversarono la griglia, diminuendo lentamente la distanza con la Space Angel.
— Hanno sparato qualcosa — disse Kelly mentre su un altro schermo comparivano quattro puntolini in avvicinamento.
— Sono piuttosto lenti — osservò Torwald. — Devono essere siluri. Prova un po’ col cannone, Ham.
— Ne arrivano altri! — gridò ancora Kelly. — Molto più piccoli... sono almeno un centinaio.
Ham e Torwald passarono immediatamente i dati al computer che poteva controllare completamente sia il cannone sia il depolarizzatore e sparare molto più velocemente. Nel giro di pochi secondi i puntolini si sparpagliarono su tutto lo schermo disponendosi a grosse chiazze, mentre le due navi nemiche acceleravano.
— Siamo nei guai — dichiarò Ham con calma. — Stanno cercando di avvicinarsi per potersi servire delle armi a raggi. Scommetto che i nostri laser non avranno nessun effetto. Prova con un siluro, Tor.
— Siluro fuori! — Un ordigno subnucleare Classe K filò veloce verso gli inseguitori. La velocità del siluro, aggiunta a quella della nave nemica in avvicinamento, fece rapidamente diminuire la distanza e l’ordigno era ormai troppo vicino perché gli avversari potessero intercettarlo. L’esplosione danneggiò una delle navi, che perse il controllo e cominciò a zigzagare all’indietro.
— Strano, Tor. Evidentemente non conoscono ancora l’effetto Doppler.
— Non dimenticare che sfruttano ritrovati tecnici ideati da altri, Ham. Quei buffoni sapranno guidare le navi, ma, probabilmente, lasciano molto a desiderare quanto a balistica computerizzata. — Dopo di che, non ci fu più il tempo per parlare anche perché l’altra nave nemica stava aprendo il fuoco coi cannoni a raggi. La mira dei Tchork non era molto accurata, ma potevano sempre sperare che qualche scarica andasse a segno. Come Ham aveva previsto, il laser era inservibile contro le difese dello scafo nemico, e la Space Angel sarebbe stata distrutta prima che la nave aliena fosse a portata del depolarizzatore.
— Un altro siluro, Ham?
— Proviamo.
— Fermi! — tuonò la voce della comandante dall’interfono. — Invertiamo la marcia. Rotta di collisione.
— Ma non è una tattica suicida? — chiese Torwald.
— Zitto e ascolta la comandante — sibilò Ham.
— Come ha fatto notare Ham, Torwald, quei poco di buono non riescono a colpire qualcosa che punti dritto verso di loro. Se invertiamo la rotta può darsi che ci avviciniamo abbastanza per colpirli col depolarizzatore. Qualcuno ha una proposta migliore?
Nessuno fiatò. Senza rallentare, la comandante fece compiere un rapido dietrofront alla Space Angel nel momento in cui, trovandosi dalla parte opposta di una delle lune del pianeta, il nemico non poteva vederla. Questo tipo di manovra era possibile unicamente grazie al campo gravitazionale, perché senza di esso l’equipaggio sarebbe stato ridotto in polpette e la nave distrutta.
Quando la Space Angel ricomparve sugli schermi della nave avversaria, stava velocemente puntando contro di essa da qualche secondo. I Tchork spararono all’impazzata senza esito, e poco dopo si trovarono alla portata del depolarizzatore. Torwald lo attivò e improvvisamente sembrò che la nave nemica fosse diventata molto più grande. Il punto sullo schermo si allargò, sbiadendo fino a scomparire, completamente disintegrato. La seconda nave, intanto, aveva cambiato rotta e stava allontanandosi. Un coro di evviva sopraffece per qualche istante la voce dall’interfono.
— Bene, bene, calma adesso! — gridò la comandante. — Non distribuisco sigari finché non saremo al sicuro nell’iperspazio. Restate ai vostri posti.
Sedevano esausti alla tavola della mensa trangugiando un caffè dopo l’altro, dopo avere ingurgitato le razioni che Michelle aveva imposto loro a viva forza, costringendoli anche a prendere le medicine che aveva prescritto. Erano in attesa che lei tornasse per sapere in che condizioni fossero Achmed e Lafayette.
— Quella manovra è stata un capolavoro di maestria, comandante — disse Sergei. — Su che tipo di nave avete prestato servizio, durante la guerra?
— Oh, pilotavo un Marauder, e Ham era il mio mitragliere capo.
— Questo spiega tutto.
Aveva ragione. Il piccolo mezzo dotato di armi pesanti e leggere aveva preso parte a quasi tutte le azioni e invasioni planetarie durante il conflitto. Ogni Marauder era indispensabile... e spendibile. E infatti ne erano andati distrutti in quantità enormi e meno del dieci per cento del personale che aveva prestato servizio sui Marauder era sopravvissuto.
Poco dopo entrò Michelle. — Achmed ce la farà. Sta già meglio — disse lei versandosi il caffè. — Lafayette è un po’ malconcio, ma non ha niente di grave.
— Le sue parole furono accolte da un generale sospiro di sollievo. — Bene, questo è tutto — disse la comandante accendendosi un sigaro. — Domande?
Si guardò attorno ma, fatta eccezione per Michelle e i Viver, tutti avevano reclinato la testa sul tavolo e si erano addormentati.