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Il segnatempo di Torwald lo svegliò alle 7 antimeridiane. Per qualche minuto giacque sonnacchioso contemplando il soffitto, quindi rotolò giù dal letto. Era il suo giorno di franchigia. Mentre si radeva, lo specchio rifletteva la semplicità spartana dell’ambiente: cuccetta, tavolo, sedia, un minuscolo bagno, il tutto chiuso fra pareti dipinte con un piacevole colore neutro. La stanza era identica a milioni d’altre degli alberghi per passeggeri sparsi nei porti dei mondi abitati. E raro che uno spaziale desideri qualcosa di più lussuoso.

La borsa era già pronta ai piedi del letto, e, mentre se la caricava in spalla, Torwald controllò un’ ultima volta per verificare se avesse dimenticato qualcosa. Infine, uscì nel corridoio e salì sull’ascensore.

Mentre la piattaforma circolare scendeva velocemente i novantacinque piani fino al pianterreno, si sentì salire lo stomaco in gola. Al pianterreno si ritrovò in un atrio con le pareti decorate da vedute di mondi lontani. Un atrio come tutti gli atrii di tutti gli alberghi che ospitano spaziali.

Fuori, al livello più basso della città, il traffico era molto scarso. I grandi trasporti pubblici sarebbero entrati in servizio solo dopo un’ora. Torwald aspirò una profonda boccata d’aria. Era fresca e pulita, segno che Terraporto doveva avere intrapreso una delle sue periodiche campagne di pulizia. Questo non bastava perché la città gli sembrasse più attraente, tuttavia decise di andare a piedi allo spazioporto. Fra poco si sarebbe trovato rinchiuso nell’angusto ambiente di una nave e finché ne aveva l’opportunità voleva godersi una passeggiata. Non amava molto le città, i porti erano tutti uguali, almeno sui mondi più progrediti. e Terraporto non faceva eccezione, era un grande formicaio sovrappopolato che torreggiava nel cielo.

Verso lo spazioporto, gli edifici di mattoni e cemento cedevano il posto ad altri di una speciale plastica di recente creazione che aveva la proprietà di indurirsi istantaneamente appena versata negli stampi. Torwald trovava orribili quelle costruzioni, ma costavano poco e si poteva costruire una casa in poche ore. Tutti gli edifici in prossimità dello spazioporto erano nuovi perché la zona era stata distrutta dai bombardamenti delle forze del Signore della Guerra durante il conflitto di qualche anno prima.

Il resto di Terraporto stava svegliandosi solo allora, ma lo spazioporto e i servizi annessi funzionavano giorno e notte senza interruzione. Torwald stava cercando un posto dove si mangiava bene. Aveva l’abitudine di risparmiare parte dello stipendio per concedersi un buon pasto prima di ripartire. Su quasi tutte le navi, e specialmente su quelle più piccole, il vitto era monotono.

Si fermò davanti a un’insegna: L’autentica cucina ateniese. Decise di provare. Gli piacevano i cibi greci, e in tutti i porti abbondavano i ristoranti greci. Nel locale ristagnava odore di agnello arrosto e pane fresco. Torwald prese posto a un tavolo e ordinò un lauto pasto al citofono inserito nel ripiano del tavolo. Dopo qualche minuto arrivò un servobot, scivolando silenziosamente su ruote ben lubrificate, e depose sul tavolo piatti con sottili fette di agnello su riso pilaf, polpette avvolte in foglie d’uva, e pane croccante. Torwald divorò tutto con gusto. I cibi erano ottimi e genuini... anche se, probabilmente, l’agnello era stato clonizzato in laboratorio, e il grano per il pane proveniva da una stazione spaziale agricola. Infatti a quei tempi sulla Terra era rimasto pochissimo terreno adibito a pascolo o alle coltivazioni.

Torwald concluse il pasto con acquavite e caffè, e con un delizioso dolce di noci e miele. Prima di uscire scrisse il nome del ristorante sul suo taccuino e lo contrassegnò con quattro stelle.

All’ingresso dello spazioporto lo colpì il familiare sentore di prodotti chimici.

Inspirò profondamente. Era l’odore del suo lavoro, un odore rassicurante. Un estraneo lo avrebbe definito puzza: un misto di solventi, gas di scarico, carburante per i lanci, lubrificanti. Pochi minuti dopo, si fermò al cancello il trattore robot che trainava una fila di vagoncini su cui avevano preso posto gli operai dell’ultimo turno diretti a casa. Quando furono scesi, Torwald salì su un vagoncino. Era l’unico passeggero.

Lo spazioporto copriva un’area di quattro chilometri perfettamente spianata, occupata per la maggior parte da rimesse, officine per le riparazioni, magazzini, che Torwald attraversò durante il tragitto verso il terminal. Più avanti, sui campi di lancio si distinguevano le sagome massicce di tre Transgalattiche, navi delle linee a lungo percorso che coprivano il 97% dei traffici di tutto l’intersistema. Più oltre ancora c’erano le “carrette”, più piccole, meno sfarzose. Quelle erano le navi su cui Torwald prestava servizio. Su quelle di lusso l’unico modo per fare carriera era l’adulazione. Ma a Torwald ripugnava fare il leccapiedi, e, a causa del suo carattere orgoglioso, in tutti gli anni di servizio nella Flotta aveva raggiunto al massimo il grado di sottufficiale; ma, ancora adesso, a volte doveva accontentarsi di fare parte della truppa.

Finalmente il trattore si fermò davanti a una gigantesca cupola, l’edificio più grande di tutti gli spazioporti creati dall’uomo. In molte delle nuove colonie se ne stavano costruendo di simili. Torwald entrò nel terminal e si ritrovò in un’immensa caverna rotonda, lungo il cui perimetro si allineavano biglietterie, sale d’attesa, negozi, bar, uffici di carico e scarico, uffici della dogana e dell’immigrazione, e centinaia di altri.

Al centro erano sistemate vetrine con modelli e plastici che illustravano la storia delle esplorazioni spaziali. Torwald girellò fra le vetrine in attesa che si aprisse l’Ufficio Assunzioni Personale di Bordo. Quel museo gli piaceva molto. Ne aveva letto quando, da ragazzo, viveva sul fiordo a Trondheim e sognava il giorno in cui avrebbe volato nello spazio. Ma la sua iniziazione era stata brutale: lo avevano reclutato a sedici anni, nella Flotta Spaziale, quando il Triumvirato aveva assalito la Repubblica. Molti degli oggetti in mostra illustravano le navi del Triumvirato e gli armamenti di quel crudele impero, che per fortuna aveva avuto vita breve.

Quando si accese la luce sopra la porta, Torwald si diresse verso l’ufficio. L’uomo seduto alla scrivania era un esemplare caratteristico degli impiegati portuali o delle compagnie spaziali: uniforme impeccabile, espressione annoiata. Torwald sfilò il bracciale d’oro da spaziale e lo porse al funzionario che lo inserì nel quadro comandi del computer. Sul braccialetto erano registrati i dati relativi alle sue prestazioni nella flotta spaziale e in quella mercantile: i dati ufficiali almeno. Dopo avere letto sullo schermo, il funzionario inarcò le sopracciglia e disse: — Ci sono due Prima Classe della Linea Satsuma in partenza, a la Starvoyager della Compagnia Quattro Pianeti. Con le vostre qualifiche potreste ottenere una sistemazione su quella che preferite.

— Non mi interessano. E le “carrette”?

— Oh, mi spiace — disse affabilmente il funzionario. — Avete problemi psicologici?

— Sì, detesto le uniformi.

— Be’, vediamo un poco... C’è la Space Angel che ha bisogno di un quartiermastro. Ieri il comandante ha esaminato per tutto il giorno gli uomini che gli abbiamo mandato, ma li ha scartati tutti. D’accordo che li avevano espulsi da tutte le compagnie, ma quello è un tipo molto esigente. Però nessuno degli aspiranti aveva le vostre qualifiche. Secondo me, è il lavoro che fa per voi.

— Pare anche a me. Quando posso vedere il capitano?

— Fra un’ora circa. Vi avvertirò.

— Bene. Mi troverete al caffè. — Torwald si caricò la sacca in spalla e andò a depositarla in un armadietto prima di salire al Livello Sei dove c’era il caffè più grande dello spazioporto, frequentato abitualmente dagli spaziali delle svariate compagnie. Torwald andò al blocco di servizio più vicino al suo tavolo e spinse il pulsante contrassegnato CAFFÈ NERO-DOLCIFICANTE. Subito salì sul ripiano una tazza di plastica che lui portò al tavolo, aguzzando le orecchie per ascoltare i discorsi degli altri avventori. La vita gli aveva insegnato presto a parlare poco e ad ascoltare molto. Sebbene fosse in grado di sintonizzarsi su parecchie conversazioni contemporaneamente, non scoprì niente d’interessante. Le solite chiacchiere di tutti gli astroporti: qualcuno aveva scoperto degli alieni intelligenti; qualcun altro aveva completato regolarmente i giri ogni sei mesi terrestri... tutte cose che Torwald aveva già sentito un sacco di volte. La Satsuma aveva in cantiere un progetto di fusione con la Linea Nebula. Be’, questo poteva essere interessante. Fusioni di quella portata erano illegali. Torwald incamerò l’informazione.

A un tratto si accorse che qualcuno gli stava vicino.

— Oh, scusatemi, signore.

Torwald alzò gli occhi e vide un ragazzo sui diciassette anni coi capelli biondi lisci e una faccia smunta da denutrito. Indossava una vecchia tuta militare troppo piccola per lui.

— Avanti, siediti — gli disse Torwald indicando la sedia al capo opposto del tavolo.

— Grazie — rispose il ragazzo, mettendosi a sedere. — Su quale nave siete imbarcato? Aveva un sorriso timido e gli ricordava così tanto un cucciolo che a Torwald veniva voglia di dargli una grattatina sulla testa.

— Non ho ancora trovato un ingaggio. Forse combinerò nel pomeriggio — disse, e tornò a occuparsi del suo caffè. Il ragazzo lo fissava ammirato, cosa che metteva sempre in imbarazzo Torwald.

— Volete dire che potete scegliere la nave che vi pare?

— Di solito sì — borbottò Torwald. — Sono poche le mansioni di bordo che non sono in grado di svolgere, a parte quelle di tecnico e ufficiale di plancia. Quando in `un porto ci sono tre navi, sono sicuro di trovare un posto che fa per me.

Se con questo Torwald sperava di avere concluso la conversazione, si sbagliava.

— Ho cercato di trovarne una che mi imbarcasse per un anno — disse con aria delusa il ragazzo.

— E allora?

— Manco dì esperienza. Prendono solo gli esperti. Ma come faccio a diventarlo se non lavoro a bordo di una nave?

— È facile — gli disse Torwald. — Arruolati nella Flotta. È così che ho imparato a diventare spaziale. LA potrai farti tutta l’esperienza che vuoi, e al congedo ti daranno il braccialetto di spaziale — concluse mostrandogli il suo.

— Non so quante volte ho provato — ribatté il ragazzo, — ma al giorno d’oggi richiedono una laurea, e inoltre io sono astigmatico dall’occhio sinistro. Non vogliono gente con difetti fisici.

— Mi dispiace, figliolo. Quando mi arruolarono, contavano le braccia e le gambe, e se il totale assommava a quattro ti arruolavano. Se poi uno sapeva leggere, meglio. Ma allora c’era la guerra e non erano tanto schizzinosi.

— Già, ma adesso che la guerra è finita ci sono pochi posti e troppi spaziali. La Flotta ha ridotto gli arruolamenti ed esige una laurea. Non c’è posto per me — aggiunse con una smorfia di rammarico.

— Cosa fai? — gli chiese Torwald per cambiare discorso. — Intendo dire quando non cerchi di arruolarti. Cosa fanno i tuoi genitori?

— Non li ho — rispose il ragazzo non senza fierezza. — Sono solo. Fino ai sedici anni ho vissuto in un orfanotrofio, e poi mi hanno buttato fuori. C’erano troppi orfani, dopo la guerra.

— E allora come te la sei cavata?

Il ragazzo alzò le spalle. — Ho fatto un po’ di tutto, e lo Stato mi passa un sussidio. Almeno non mi lasciano morire di fame.

— Spaziale di Prima Classe Torwald Raffen — disse in quella la voce dell’altoparlante. — A rapporto dal capitano del mercantile indipendente Space Angel per un colloquio.

— E per me — disse Torwald alzandosi. — Mi ha fatto piacere parlare con te, figliolo. Auguri. — Si allontanò senza voltarsi. Non voleva fare il duro, anzi, in cuor suo provava compassione per quel ragazzo, solo che erano talmente tanti i giovani speranzosi di diventare spaziali che faceva male al cuore guardarli. Non si poteva fare niente per loro e, al confronto, Torwald si sentiva disgustosamente fortunato.

Si avviò verso la nave attraversando i punti di attracco dello spazioporto. Anche se avesse tardato un poco a presentarsi, il capitano non se la sarebbe presa. Era molto scarso il personale qualificato disposto a prestare servizio su una vecchia carretta. Strada facendo passò davanti alle enormi navi della Satsuma. Indubbiamente erano bellissime, ma lui ci si sarebbe trovato male. Le Classe Uno erano state i cavalli da tiro della compagnia per parecchi anni, e ora correva voce che sarebbero state sostituite da un altro tipo di vascello, denominato Supernova, costruito secondo un progetto d’avanguardia. Ma ufficialmente la Satsuma non aveva lasciato trapelare niente di quel progetto. Torwald passò poi davanti alla Starvoyager, addetta al trasporto emigranti, pronta a caricare migliaia di persone desiderose di lasciare la Terra sovrappopolata per emigrare su qualche mondo che offrisse la possibilità di una vita migliore.

Le carrette, le navette e le navi che percorrevano linee brevi erano molto diverse; limitate nello spazio, avevano equipaggi di una ventina di persone al massimo. Logore e malconce, erano quasi sempre vecchi scarti venduti all’ asta quando una compagnia di navigazione metteva in servizio nuovi modelli di navi. Ma Torwald le trovava più belle di qualsiasi modernissima nave spaziale di lusso.

La Space Angel era l’ultima della fila, e proprio la sua posizione rivelò a Torwald quali fossero le sue fortune. Gli attracchi più lontani, quasi all’estremità del porto, erano i meno costosi. La nave era una vera anticaglia. Le fiancate, originariamente lucide e levigate, erano adesso opache e segnate dallo sfregamento del pulviscolo spaziale, dopo anni e anni di servizio. Dal nome Torwald aveva appreso che quella nave un tempo era appartenuta alla vecchia Angel Line, una compagnia composta da un proprietario, una manciata di navi e da equipaggi costituiti da uomini rotti a tutte le avventure. Ai loro tempi erano state belle navi: la Star Angel, l’Angel of Sirius, la Guardian Angel, l’Angel of the Nebulae. Probabilmente la Space Angel era l’ultima ancora in servizio. Torwald salì il barcarizzo, e arrivato in cima fu accolto da un ometto dotato di un gran paio di baffi.

— Chiedo il permesso di salire a bordo — disse Torwald, secondo l’uso.

— Permesso accordato — rispose l’ometto. Gli spaziali erano dei tipi molto formali.

L’interno era così domestico che a Torwald venne voglia di togliersi gli stivali. Ponte, paratie e soffitti erano rigati dalle piastre magnetiche applicate alle suole degli stivali quando ancora non era stato inventato il campo gravitazionale.

Torwald bussò al portello della cabina del capitano e qualcuno da dentro grugnì: — Avanti! Il capitano della Space Angel era una donna dall’aspetto coriaceo, sulla cinquantina, con una faccia dura e un sigaro Sirius V che le sporgeva dai denti. Portava uno di quei ridicoli berretti a visiera di stoffa, prediletti da molti comandanti. Gli tese la mano e Torwald vi lasciò cadere il bracciale che lei inserì nella consolle. — Sapete usare un coltello a raggio corto? — chiese di punto in bianco.

— Sì.

— Dove l’avete imparato? — Pareva sorpresa. — Ho rifiutato una mezza dozzina di aspiranti, ieri, perché non ne erano capaci... Lavoravate come minatore sugli asteroidi?

— No. Sono stato prigioniero di guerra su Signet. Lo adoperavamo nelle risse.

— Si fidavano a lasciare ai prigionieri gli utensili a laser? — chiese incredula la comandante.

— Ci avevano messo dei collari esplosivi e usavano il metodo di sorveglianza a distanza. Non era possibile fargliela.

— Bene, io ho bisogno di un quartiermastro, che sappia anche servirsi di un’arma a raggio corto e sia in grado di tenere a bada una squadra. Credete di essere all’altezza?

— Certamente.

— D’accordo. Spaziale Raffen, vi assumo. Così mi manca solo un uomo.

— Per quale incarico?

— Mozzo. Ci servono ancora su questi vecchi trabiccoli. L’ultimo era diventato troppo vecchio per quel lavoro e ci ha lasciato su Altair Tre. Era un bravo ragazzo.

— Io ho proprio quello che fa per voi. L’ho incontrato poco fa al terminal. Non credo di aver mai visto uno tanto patito per la navigazione spaziale. Ma anch’io ero così una quindicina di anni fa.

— Portatelo a bordo.

— Ha bisogno di un corredo.

La donna allungò la mano ed estrasse dalla consolle una sottile piastrina di metallo e gliela porse.

— Comprategli quello che gli occorre — disse. — Detrarremo le spese dalla sua paga. Portatemelo fra un paio d’ore. Salperemo a mezzogiorno in punto.

Torwald salutò e se ne andò con la piastrina di credito in tasca, convinto di essersi messo al servizio di un ottimo comandante. Almeno sotto il punto di vista umano.

Kelly, seduto al caffè, rimuginava tristi pensieri sulla tazza ormai semivuota e fredda. Pensava allo spaziale con cui aveva parlato; un uomo alto e snello, con qualche filo grigio nei capelli, che si muoveva con la disinvolta scioltezza di chi ha passato la vita ad adattarsi alle diverse gravità che gli spaziali incontrano durante la loro carriera. Indossava la tuta grigia e gli stivali consunti di chi la lavorato sulle navi indipendenti. Ed era proprio questa la carriera che sarebbe piaciuta a lui: trovare un ingaggio, trasportare merce verso qualsiasi destinazione, e poi aspettare di firmare un altro contratto. Le carrette non avevano una sede e non seguivano turni e linee fissi. Kelly si sarebbe accontentato anche di un ingaggio su un postale Terra-Luna, pur di volare nello spazio.

A un tratto si sentì battere sulla spalla, e alzò gli occhi. Era lo spaziale di prima.

— Vieni, figliolo. Siamo arruolati tutt’e due sulla Space Angel.

A un isolato dallo spazioporto c’erano dozzine di negozi che rifornivano gli spaziali. La fine della guerra aveva gettato sul mercato milioni di tonnellate di residuati, e magazzini grandi e piccoli erano spuntati come funghi da un giorno all’altro. Erano i negozi ideali in cui uno spaziale poteva rifornirsi senza spendere troppo.

Torwald entrò in quello che, a occhio, gli dava più affidamento. — Prima qualcosa per contenere il resto — disse, e il proprietario portò una sacca spaziale grigio scuro, lucida, di quelle che la Flotta forniva verso la fine della Guerra. La sacca di Torwald era di un blu più tradizionale.

E adesso qualcosa per proteggersi continuò Torwald fregandosi le mani. Si divertiva, e Kelly era addirittura affascinato nel vedere ammucchiare tutta 1’ attrezzatura che gli era necessaria per il suo nuovo lavoro. Si recarono nel reparto dove gli indumenti protettivi pendevano in lunghe file, e andavano dalle tute antimissili personali ai completi di piastre articolate di fibra ceramica indurita. Torwald scelse una tuta di stoffa corazzata.

— Serve a fermare i proiettili? — chiese Kelly.

— In parte sì, ma andrai in posti dove zanne, artigli, spine e aculei sono più pericolosi dei proiettili. La stoffa corazzata serve soprattutto per questo. Hai un coltello? — Kelly ne trasse uno di tasca, un tipo da poco prezzo con la lama a scatto. — Buttalo via. Serve solo a pungere. Te ne trovo uno migliore. — Esaminò l’assortimento esposto in una vetrina e infine scelse un coltello a lama pesante dotato anche di numerosi altri utensili e chiuso in una fondina. — Con questo puoi fare tutto — disse Torwald al ragazzo — e, se proprio vuoi, potrai anche infilzare qualcuno.

Poi scelse indumenti pesanti, un cronocalcolatore da polso, guanti da lavoro e da ultimo portò Kelly nel retro, dove c’erano mucchi di scarpe e stivali fra i quali frugarono a lungo. Intanto, Torwald impartiva a Kelly una lezione sulle virtù dei buoni stivali.

— Forse non ci crederai, ma gli stivali sono il capo più importante dell’abbigliamento di uno spaziale. Questo perché non si può mai sapere dove si metteranno i piedi, su quale terreno, in che clima. E poi non devi dimenticare che uno spaziale ha ben poco a che fare con lo spazio, allo stesso modo che un marinaio ha ben poco a che fare con l’acqua. Sia in mare sia nello spazio si vive a bordo, e quando si scende a terra gli stivali sono indispensabili. Ah, trovato! — esclamò estraendone dal mucchio un palo. — Autentici stivali spaziali di prima della guerra!

— Come fate a sapere che sono di prima della guerra?

Torwald gli mostrò le suole. — Vedi queste file di forellini? Qui si avvitavano le piastre magnetiche. Non le si usava da cinquant’anni, ma la Flotta esigeva che le suole avessero gli appositi fori per montarle, casomai l’apparato gravitazionale si guastasse. Quando poi scoppiò la guerra abolirono questa norma, insieme a molte altre, per ridurrei costi. Questi stivali ti dureranno tutta la vita.

Prima di uscire, Kelly si rimirò in uno specchio, felice di vedersi indosso tuta e stivali spaziali, come aveva sempre sognato. La tuta gli stava larga perché era troppo magro. In realtà, più che uno spaziale, sembrava un ragazzino mascherato da spaziale.

— È un po’ grande — mormorò imbarazzato notando che Torwald lo guardava sorridendo.

— La riempirai con quello che mangerai a bordo. La comandante non è tipo da tenere un cuoco che non sappia il fatto suo.

Tornarono a piedi al terminal, dove Torwald ritirò la sua sacca. Presero una navetta per raggiungere la nave. Durante il percorso Kelly continuò a guardarsi attorno ammirato. Fino a quel giorno non gli era mai riuscito di entrare su un campo di lancio, e stentava ancora a crederci. Quando la navetta si fermò sotto la Space Angel guardò con tenerezza le fiancate scrostate e gli ammortizzatori schiacciati dal contatto col terreno di chissà quanti mondi. Dalla punta del suo muso tozzo all’ estremità dei congegni di atterraggio gli sembrò più bella del più lussuoso palazzo che mai avesse sognato.

Torwald lo precedette sul barcarizzo e poi si ripeté la formalità del permesso di salire a bordo, questa volta per Kelly, in quanto Torwald, ormai membro dell’equipaggio, non era tenuto a farlo. Il barcarizzo terminava all’inizio di una rampa curva che saliva inarcandosi fino alla parete opposta. Torwald la salì con la disinvoltura dell’abitudine, ma Kelly inciampò e cadde bocconi per effetto del campo gravitazionale della nave. La “parete” verso cui si dirigevano era diventata il ponte, e la nave, che stava eretta sugli ammortizzatori, gli sembrò improvvisamente orizzontale. Si voltò e scoprì che la pavimentazione di cemento del campo adesso torreggiava su di lui e l’uomo fermo sulla sommità del barcarizzo se ne stava steso per traverso sfidando la gravità. In preda alle vertigini, Kelly tornò a voltarsi, si alzò e seguì Torwald.

La rampa sboccava attraverso un portello in uno stretto corridoio che svoltava a destra, per poi trasformarsi in una passerella sospesa su una stiva cavernosa, a cui faceva seguito un altro corridoio lungo il quale si allineavano alcune porte con le scritte: GRU, IDROPONICA, LAVANDERIA, BAGNO. C’erano anche altre porte prive di targa. Più avanti, Torwald salì una scaletta che portava al ponte superiore dove si trovava la cabina della comandante. Torwald bussò.

— Avanti — disse una voce dall’interno.

Entrarono.

— Dunque questo sarebbe il nuovo mozzo? — chiese la donna scrutando impassibile Kelly da capo a piedi. — Come ti chiami?

— Kelly... signora.

— Quando ti rivolgi a me devi chiamarmi capitano o comandante. Io mi chiamo Gertie, ma se ti azzarderai a chiamarmi così a bordo ti prenderò a calci. Capito? Comandante andrà bene. Kelly, e poi? Non hai un altro nome o cognome?

— No, sì... comandante. Era il mio solo nome quando quelli dell’ orfanotrofio mi presero nel campo profughi, così...

— Allora vada per Kelly — disse lei premendo qualche tasto sulla consolle. Poco dopo, da una fessura, uscì una sottile striscia d’ oro flessibile: Lei la prese e l’allacciò al polso destro del ragazzo.

— Adesso sei uno spaziale a bordo della Space Angel. La tua qualifica è Tirocinante di Seconda Classe. Una volta al mese, mesi di bordo intendo, tu, come tutti gli altri, mi porterai il braccialetto da aggiornare. E adesso — concluse nel suo caratteristico modo sbrigativo, — consegnatemi tutti e due le vostre armi.

Senza fare commenti, Torwald frugò nella sacca per tirar fuori due pistole con relativa fondina. Una era una pistola comune che sparava missili di metallo ad alta velocità, ma l’altra che Kelly guardò a bocca aperta, era un laser militare che solo gli ex-ufficiali avevano il permesso di portare sulla Terra. La comandante prese le pistole e chiese rivolgendosi a tutti e due: — Nient’altro?

— No, solo un paio di coltelli che abbiamo comprato in un magazzino di residuati militari. Volete anche quelli?

— No, potete tenerli purché non vene serviate per fare a fette i vostri colleghi. Ma ricordate che se avete con voi altre armi, a laser o a proiettili, dovete consegnarle prima del lancio, perché se ne sarete trovati in possesso poi, vi scaraventerò fuori bordo senza sistema di sostentamento. Capito? — e guardò arcigna Kelly perché si imprimesse bene in testa la minaccia. Poi, con meno grinta, concluse: — Adesso scendete in mensa per fare conoscenza coi vostri colleghi.

Uscendo, lo sguardo di Kelly cadde sul cronometro sopra al portello, e lesse automaticamente: — Undici e zero otto del ventisette marzo duemilacentonovantasei. — Una data che non avrebbe mai scordato.

Il resto dell’equipaggio stava bevendo tè e caffè, intorno a un lungo tavolo. Torwald trovò un posto libero e si sedette, imitato da Kelly.

— Torwald Raffen quartiermastro — si presentò. — E questo è Kelly, il nuovo mozzo. Chiamatemi Tor.

— Ham Sylvester — si presentò un pezzo d’uomo di colore che pareva un gorilla seduto a un’estremità del tavolo. La sedia al capo opposto, riservata al comandante, era vuota. — Sono il secondo di bordo ed economo. — Questa seconda mansione risaliva a tempi lontani, ma perdurava ancora su qualche vecchia nave. Il sorriso di Sylvester ricordava la tastiera di un piano. — E questa — continuò indicando una splendida donna alla sua sinistra, — questa è Michelle LeBlanc, medico e cuoco. — La donna sfoderò uno smagliante sorriso, e Kelly intuì che Torwald era già preso all’amo.

— Achmed Mohammed, capo motorista e pilota — si presentò l’ometto coi baffoni che si trovava in cima al barcarizzo quando erano saliti a bordo, e poi, indicando un giovane paffuto rosso di capelli, di un paio d’anni più anziano di Kelly, aggiunse: — E questo è Lafayette Rabinowitz, il mio aiutante.

— Finn Cavanaugh, navigatore e distillatore — disse un uomo alto, scuro di occhi e di capelli seduto vicino a Lafayette.

— Bertrand Sims — annunciò un tipo anziano, coi capelli bianchi, seduto vicino a Finn. — Addetto al carico, contabile e filosofo. La bellezza esotica di fronte a me è Nancy Wu, addetta alle comunicazioni e all’idroponica e all’occorrenza specialista in botanica esotica. — Piccolina e minuta, capelli corvini e occhi a mandorla, Nancy sembrava troppo giovane per essere un ufficiale.

— Tutti svolgono un doppio incarico su questa nave? — chiese Torwald.

— In genere sì — rispose Ham. — Siamo tutti persone eclettiche. Michelle è zoologa, Finn chimico, io sono un esperto in armi pesanti, Bert conosce a fondo la storia. Nancy suona il violino e Achmed è un bravo olografo. E tu cosa sai fare oltre al tuo mestiere?

— Parecchie cose, devo elencarle?

— Sì, così sapremo quando ci potrai essere utile.

— Be’, so fare un po’ di tutto. Durante la guerra ho prestato servizio su apparecchi monoposto, biposto o con tre uomini di equipaggio. Questo significa che si deve sapere fare un po’ di tutto a bordo. Sono un abile ricognitore e cartografo, m’intendo un po’ di geologia, di lavori minerari e di scavi. So pilotare veicoli atmosferici e nautici, e maneggiare armi leggere ed esplosivi.

— Bene — commentò il secondo. — Con un equipaggio ridotto all’osso come il nostro è bene che ci sia qualcuno che sa fare un po’ di tutto. Qual è stato il tuo ultimo imbarco?

— Sulla Purple Turkey, una piccola nave addetta alla ricerca di minerali della Orion Crystals e Metals. La società è fallita e la nave è stata venduta all’asta.

— Mi spiace per loro, ma noi ci abbiamo guadagnato — commentò Ham, e a Kelly: — Figliolo, tu dovrai imparare il mestiere di spaziale cominciando dall’ultimo gradino. Chi ha subito bisogno di lui? — chiese guardandosi intorno.

— Io! — rispose Achmed. — Insieme a Lafayette devo fare una completa revisione del motore e ripulirlo da cima a fondo, appena saremo nello spazio. Ci serve qualcuno che ci dia una mano.

— Posso aiutarvi anch’io, se avrò del tempo libero — si offrì Torwald.

— Grazie — disse l’arabo, e in quella l’interfono mandò uno squillo. — Si parte fra cinque minuti — annunziò Ham. — Lafayette, accompagna Kelly al suo alloggio e mostragli come deve prepararsi per il decollo. Torwald, tu vieni con me.

Kelly seguì Lafayette. Usciti dalla mensa scesero al ponte inferiore e attraversarono la passerella sospesa sulla stiva. Subito dopo Lafayette aprì un portello che dava su un cubicolo arredato con un branda pieghevole, un tavolo e una sedia. Kelly, su invito di Lafayette, si sdraiò sulla branda. Poi l’altro gli legò con cinghie petto e cosce, lasciando libere le braccia. — Non è che sia strettamente necessario — disse, — ma il regolamento lo esige al momento del decollo. Col campo gravitazionale in funzione non sentirai niente. O quasi. La mia cabina è qui di fronte, e quella di Achmed è subito dopo la mia. Potrai sfibbiare le cinghie quando sentirai un altro segnale. — Detto questo uscì chiudendosi il portello alle spalle.

Kelly aspettò, teso e ansioso, e ancora incredulo che in due sole ore il suo destino fosse radicalmente cambiato. Temeva che fosse tutto un sogno, e che al risveglio si sarebbe trovato su una branda in un dormitorio pubblico.

La Space Angel cominciò a vibrare, e Kelly sentì in tutto il corpo una leggera pressione che durò solo pochi attimi e fu seguita da una sensazione di mancanza di peso. Poi entrò in funzione il campo gravitazionale artificiale, grazie al quale solo gli strumenti avrebbero rilevato l’accelerazione, ma Kelly si accorse, da quello che aveva provato, che non era stato ancora ideato un campo gravitazionale perfetto.

Quando sentì lo squillo sfibbiò le cinghie e si alzò, guardandosi intorno. La sua cabina! In vita sua, non aveva mai avuto una stanza tutta per sé. Il compartimento era angusto ma lui non l’avrebbe cambiato con il più lussuoso albergo della Terra. Quella era la cabina di uno spaziale, larga circa quattro passi e lunga tre, e i pochi mobili la riempivano tutta. Le pareti erano di un verde pallido e in una era infisso un gancio, mentre su quella a capo del letto qualcuno aveva laboriosamente inciso, forse con un punteruolo, il panorama di un mondo sconosciuto.

Kelly stava ancora confrontando quel suo piccolo regno con la promiscuità a cui era stato abituato all’orfanotrofio e nei dormitori pubblici, quando Torwald aprì la porta.

— Hai sistemato la tua roba?

— Mi sono alzato solo un minuto fa...

— Se sei così lento non diventerai mai un bravo spaziale, Kelly. Qua, metti la tua roba nell’armadietto. — Aprì uno sportello nella parete di fronte alla branda e aiutò il ragazzo a sistemare gli indumenti e quel poco che possedeva. Poco dopo fece capolino Finn, il navigatore.

— Venite in lavanderia a prendere le lenzuola, voi due. Torwald, tu sei addetto alla lavanderia fino a nuovo ordine.

— Me l’aspettavo. Al quartiermastro affibbiano sempre le incombenze più disparate che non sono di competenza specifica di qualcun altro.

Quando Kelly tornò con lenzuola e coperte, Torwald gli mostrò come ripiegare la branda in modo che restasse aderente a un incavo della parete, poi se ne andò. Kelly diede un’ultima, affettuosa occhiata alla cabina, e poi uscì a sua volta. In sala mensa trovò Ham e la comandante che esaminavano alcune carte.

— Kelly — disse la comandante, — perché non vai a dare una mano a Michelle e Tor in cambusa?

— Subito, comandante — rispose il ragazzo abbozzando un saluto militare.

Trovò Michelle e Torwald nell’angusta cambusa, permeata da un odore che non conosceva, ma che trovava delizioso.

— Cos’è questo odore, Torwald? — chiese.

— È il pane che sta cuocendo in forno, ci crederesti? Siamo finiti in una miniera d’oro, figliolo.

— Ma certo che faccio il pane — disse Michelle. — Almeno finché dura la farina. Kelly, prendi qualche piatto e prepara la tavola, e tu Tor, prendi tre cipolle da quel secchio e affettale. — Tor s’infilò un grembiule e si mise al lavoro, e Kelly, dopo una lunga ricerca, trovò i piatti e andò a preparare la tavola alla mensa. Al ritorno trovò Torwald che affettava le cipolle. Si era arrotolato le maniche e Michelle stava osservando interdetta le cicatrici che gli deturpavano i polsi.

— Santo cielo, dove te le sei fatte? — chiese.

— Mai visto cicatrici da manette, Michelle? Dovresti vedere le caviglie. Gli anelli di ferro alle gambe sono più pesanti delle manette.

— Avevo sentito dire che riservavano questo trattamento ai prigionieri di guerra, ma mi sono sempre rifiutata di crederci — disse lei rabbrividendo.

— Non bisogna credere a tutta la propaganda, però certe cose erano vere.

Kelly aveva visto a Terraporto altri spaziali reduci di guerra con quelle cicatrici, e aveva sentito raccontare storie orripilanti sul trattamento riservato ai prigionieri di guerra, perciò si rese conto che Torwald doveva essere dotato di un fisico e di un equilibrio eccezionali per essere sopravvissuto a un simile trattamento sano di corpo e di mente.

Torwald e Michelle lavoravano insieme con la disinvoltura di due persone abituate a preparare pasti per molti commensali in una cambusa angusta. Kelly fu incaricato di porgere utensili e suppellettili, mentre Torwald preparava i cibi e Michelle li cuoceva.

— Mi è appena venuta in mente una cosa — disse a un tratto Michelle. — Quanti posti hai preparato, Kelly?

— Dieci.

— Aggiungine un altro. A bordo c’è un tizio che voi due non avete ancora conosciuto. E 1’agente, o che so io, della società che ha noleggiato la nave per questo viaggio.

— Già, che incarico abbiamo? — chiese Torwald. — Ho notato che la stiva è vuota.

— Si tratta di una cosa molto misteriosa. La comandante e Ham non ne hanno ancora fatto parola. Penso che lo sapremo dopo il pranzo.

Durante il pasto nessuno parlò molto, ma tutti continuavano a guardare l’uomo, seduto alla sinistra della comandante. Era un tipo piccolo e atticciato, calvo e con un accenno di pancetta. Non era certo uno spaziale.

Sebbene non avesse mai mangiato così bene in vita sua, Kelly sospirò di sollievo quando la cena ebbe termine perché trovava snervanti le abitudini e le manie degli spaziali durante i pasti. Prima, Lafayette lo aveva rimproverato perché porgeva la saliera con la sinistra: molti spaziali provenivano da civiltà in cui era proibito maneggiare gli oggetti con la sinistra, per cui tutti si attenevano a quella norma. Poi, quando Kelly aveva passato — con la destra! — un piatto di prosciutto ad Achmed scoprì con sua grande sorpresa che tanto il tecnico quanto la comandante appartenevano a religioni che proibivano di cibarsi di carne suina. Kelly ne era rimasto tanto mortificato che fu contento quando il pasto terminò e la comandante presentò loro lo sconosciuto.

— Questo è Sergei Popov, agente della Minsk Mineral, incaricato di dirigere i lavori di cui ci ha incaricato la sua società. Volete spiegare voi all’equipaggio di cosa si tratta, Sergei?

— La Minsk Mineral è una società piccola e di recente creazione — cominciò Popov. — È stata fondata da un geologo, Alexander Strelnikov che, durante la guerra, si occupò della costruzione di prefabbricati in previsione di un futuro incremento della Flotta. Come geologo compì numerosi viaggi su diversi pianeti per studiare le caratteristiche del suolo. Su Alfa Tau Pi Rho Quattro, un pianeta singolare sotto l’aspetto geologico, scoprì una vena di cristalli diamantiferi così larga da poter essere tagliata a strati. Non occorre dire che non ne fece parola coi suoi superiori.

— Adesso capisco! — esclamò Torwald.

— Come? — chiese Popov perplesso.

— Capisco perché prima di assumermi la comandante mi ha chiesto se sapevo usare un coltello a breve raggio.

— Infatti, perché quando arriveremo a destinazione la vostra esperienza in scavi minerari ci sarà utile. Ma dove ero rimasto? Ah, sì. Quando Strelnikov tornò a casa alla fine della guerra, trovò alcuni finanziatori e così venne fondata la Minsk Mineral. Per non dare nell’occhio, abbiamo lavorato qualche anno svolgendo piccoli incarichi per terzi, arrotondando il capitale coi profitti. Ma adesso ci aspetta il vero lavoro. Abbiamo chiesto e ottenuto la concessione per fare sondaggi in quella località, con il pretesto di saggiare il terreno alla ricerca di minerali. Poi, coi proventi di questa prima spedizione, chiederemo un’opzione per tutto il pianeta. Abbiamo deciso di noleggiare una carretta per non attirare l’attenzione dei concorrenti.

L’equipaggio pendeva dalle sue labbra. Il cristallo diamantifero era uno dei più preziosi minerali naturali, richiesto da centinaia d’industrie. La voce che esisteva una grossa vena di cristallo purissimo su un mondo ancora libero avrebbe attirato su quel mondo le maggiori società minerarie come un branco di piranha. Se riuscivano a riportare indietro la nave a pieno carico senza che nessuno venisse a sapere niente, sarebbero diventati ricchi e non avrebbero avuto noie di alcun tipo per tutta la vita.

— La Minsk — spiegò la comandante, — assicura all’Angel una buona percentuale sugli utili che ricaverà da questa spedizione, più una generosa gratifica a tutti i membri dell’equipaggio. — Tutti capirono immediatamente che il noleggio della nave non era legale e che se la spedizione falliva non sarebbero stati pagati e avrebbero dovuto cercare subito un altro ingaggio. — Qualche obiezione?

— Eh, no! — si azzardò a dire Torwald vedendo che nessun altro rispondeva.

— Quando la posta in gioco è molto grossa, è logico che si debbano correre grossi rischi.

— Ma come mai Strelnikov non partecipa alla spedizione? — chiese Finn.

— Purtroppo perdette la vista nella battaglia di Li Po, e ci vorranno anni prima che i suoi occhi artificiali possano permettergli di viaggiare nello spazio.

— Altre domande? — chiese la comandante. Nessuno parlò. — Bene. Allora, Lafayette e Kelly siete incaricati di lavare i piatti dopo ogni pasto, mentre Michelle si occuperà della cucina con l’aiuto di Torwald. D’accordo? Torwald non fece obiezioni.

— Tor — gli disse Ham, — domani occupati della dispensa e del magazzino, di cui d’ora in avanti sarai il responsabile. Sono in un disordine spaventoso. Troverai fra l’altro due coltelli a raggi che abbiamo comprato all’asta sulla Terra. Allora funzionavano. Controllali e bada che si conservino in perfetto stato.

— C’è altro? — chiese la comandante.

— Sì — disse Michelle. — Kelly, prendi questo — e gli gettò una scatoletta piatta di metallo unita a una catenella. — Mettitela al collo e non toglierla mai — gli disse. — Nella scatola ci sono circa trecento pastiglie che contengono tutte le sostanze necessarie alla sopravvivenza. Se ci trovassimo a corto di viveri ti saranno indispensabili.

Kelly aveva un’aria perplessa.

— Esistono migliaia di pianeti dove i nativi si cibano di sostanze dannose all’organismo umano — spiegò Sims. — E solo su una dozzina o poco più esistono tutti gli elementi indispensabili al corpo umano.

— Se terreno e atmosfera sono simili a quelli della Terra — continuò Michelle, — la flora e la fauna possono fornire proteine, carboidrati e vitamine, ma mancano nei cibi tracce di altri elementi, come il fosforo o il magnesio e altri che ci sono indispensabili, altrimenti moriremmo come se ci mancasse l’acqua. Perciò se ti troverai arenato su un pianeta di questo genere quella scatola sarà l’unica cosa in grado di farti sopravvivere. Bada che sia sempre piena.

— Grazie — rispose Kelly infilando la catenella. — E complimenti alla cuoca, non ho mai mangiato così bene in vita mia.

— Grazie, sei molto galante — rispose sorridendo Michelle. — Ma se sei anche sincero devi avere sempre mangiato molto male.

— All’orfanotrofio ci tenevano a stecchetto — spiegò serio Kelly.

— E allora goditi la vita finché dura — lo incoraggiò Achmed. — Fra poco le scorte di viveri freschi finiranno e passeremo ai surgelati; e quando anche questi saranno finiti dovremmo contentarci dei concentrati, a meno di non avere la fortuna di trovare cibi indigeni commestibili.

— Scusate... — cominciò Kelly, per subito interrompersi.

— Parla — lo incitò la comandante. — Siamo fra colleghi. — Ma forse è sciocco...

— Avanti — sogghignò Bert. — Durante il primo viaggio capita a tutti di dire delle sciocchezze. Ci sfamo abituati.

— Be’, è che... che sono nello spazio ma non l’ho ancora visto... cioè, non lo spazio, ma le stelle. Volevo chiedere se su questa nave c’è un oblò o un finestrino. Finora non riesco ancora a persuadermi di essere in viaggio. Forse, se vedessi le stelle...

— Ma certo intervenne Finn. — C’è la vecchia cupola del navigatore attigua al mio compartimento degli strumenti. All’epoca in cui venne costruita la Star Angel era indispensabile un posto dove il navigatore potesse seguire la rotta coi suoi occhi se gli strumenti si guastavano, sebbene non abbia mai sentito che sia successo un inconveniente del genere nello spazio. Quando avrai finito di rigovernare vieni da me che ti aprirò il compartimento. Per quanto mi riguarda sono anni che non guardo le stelle.

— Verrò anch’io, se non avete niente in contrario — disse Bert. — Sarà bello rivivere la vecchia emozione di trovarsi nello spazio. Alla mia età, una nostalgia del genere mi fa ringiovanire.

Finì che si ritrovarono in otto nella cupola-osservatorio, un compartimento di otto metri di diametro a cui erano state tolte da tempo tutte le attrezzature e che sapeva di chiuso e di stantio. Ham portò una scatola di sigari Taurus, Bert qualche bottiglia di vino e alcuni bicchieri. Nancy arrivò col suo violino, e mentre lo accordava Torwald fece scattare il coltello, ne fece uscire un cavatappi e cominciò a stappare le bottiglie.

— Ricordati di avere sempre a portata di mano un cavatappi — raccomandò a Kelly. — E un utensile indispensabile nelle zone civilizzate della Galassia.

Kelly sedette sul ponte coperto da una moquette e alzò gli occhi alla cupola di glassite al di là della quale si vedevano le stelle e i pianeti con un nitore negato a chi li osservasse dalla Terra. Finn gli indicò le principali stelle e gli disse il nome dei pianeti.

Bert colse l’occasione per sfoderare un po’ della sua filosofia. — Ragazzo mio, là fuori tu vedi l’Universo con l’U maiuscola. Naturalmente hai sempre visto il cielo e le stelle, ma qui le vedi con una chiarezza impossibile attraverso qualsiasi atmosfera. E lasciami dire che è strano ed enigmatico.

— Misterioso è la parola giusta — disse Ham.

— Lì fuori succedono cose che sulla Terra ti sembrerebbero incredibili... salvo forse che in Irlanda — disse Bert.

— Oh, no — sussurrò Michelle a Torwald, — adesso imbottirà la testa di quel povero ragazzo con storie sul folclore spaziale.

Il breve silenzio che seguì fu rotto da una voce sepolcrale, che disse: — Figliolo, hai mai sentito parlare delle Luci Blu?

— Mi pare di averne letto qualcosa, Ham.

— Be’, sono piccole sfere di luce blu che infestano le navi prima di una catastrofe. Conosco spaziali che le hanno viste.

— E poi ci sono i Vascelli Fantasma — aggiunse Finn, mescolando al vino il contenuto di una fiaschetta da tasca. — Vecchi scafi che portano il nome di navi che non fecero mai ritorno e che appaiono alle navi condannate. Io ne ho visto uno; una volta.

— Credevo che non fossi mai salito qui.

— Devo confessare una cosa, Kelly. Vengo spesso qui a guardare stelle e a meditare, senza che nessuno lo sappia. Una volta, durante la guerra, ero arruolato su una nave da carico al seguito delle truppe che parteciparono all’invasione di Li Po. La notte prima dell’ora H stavo meditando in una cupola uguale a questa, quando all’improvviso comparve davanti ai miei occhi lo spettro di una nave: uno di quegli antichi vascelli tutti tubi e sfere. Aveva le fiancate sfondate e all’interno si vedevano degli scheletri. Sul ponte c’era la luce rossa in uso durante gli allarme su quelle antiche navi. Riuscii anche a leggerne il nome, Nevsky, e più tardi venni a sapere che quella nave era scomparsa durante una spedizione su Titano nel duemilaventidue con molti scienziati a bordo. Il giorno dopo... be’ tutti sanno quello che accadde a Li Po.

— Finn — sbottò Ben, — se io non fossi un vecchio spaziale che conosce bene quali cose strane si possano incontrare fra le stelle, direi che sei l’irlandese più bugiardo dell’Universo. Ma stando così le cose ti concedo il beneficio del dubbio.

— Non devi credere a tutto quel che dicono Finn o Ham, Kelly — disse Torwald, — ma dopo essere stato per un po’ nello spazio, vedrai anche tu delle cose strane. — Gli altri annuirono. — Prima di tutto devi aprire la tua mente a qualunque possibilità, perché qui tutto è possibile. La parola impossibile è rimasta sulla pista da dove siamo partiti.

Nessuno lo contraddisse.

Nancy, che finalmente era riuscita ad accordare il violino come voleva, cominciò a suonare una rapsodia di Kalliò, l’unico grande compositore che fosse stato anche astronauta. Dopo Kalliò suonò alcuni brani di Debussy, Ravel, Respighi e Holst, i compositori terrestri che gli spaziali preferivano perché le loro melodie impressionistiche evocavano il sapore della vita fra le stelle meglio degli altri, anche di quelli che non erano vissuti solo sulla Terra.

Poi i membri dell’equipaggio si ritirarono alla spicciolata, Nancy ripose il violino, gli altri portarono via bottiglie e bicchieri, l’aroma dei sigari si dissolse, e infine nella cupola rimase solo Kelly a guardare le stelle.

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