La scalinata partiva da un grosso mucchio di sabbia dietro il castello, saliva in alto fino a scomparire nel buio. Ogni scalino era lungo circa un metro e mezzo e alto quaranta centimetri, e sembrava che fosse stato scavato nella superficie del cavo.
Dopo un po’ che salivano, Gaby e Cirocco cominciarono a pensare che forse la scala sarebbe servita a poco: s’incurvava verso sud, in direzione del vuoto. Se continuava così, presto non sarebbe più stata percorribile.
Ma i gradini restavano perfettamente piani. Poche ore dopo si trovarono a procedere su una piattaforma a terrazze, con un muro alto da un lato e il vuoto assoluto dall’altro. Non esistevano corrimano o ringhiere. Si tennero vicino al muro, tremando a ogni soffio di vento.
Poi entrarono in un tunnel.
Fu una metamorfosi graduale. A destra c’era ancora lo spazio aperto, ma la parete aveva iniziato a curvarsi sopra le loro teste.
Cirocco cercò di immaginarselo: la scala continuava a salire, avvolgendosi a chiocciola all’esterno del cavo.
Dopo altri duemila scalini precipitarono nel buio assoluto.
— Scalini — mormorò Gaby. — Costruiscono un posto come questo e ci mettono degli scalini.
Si erano fermate per tirare fuori le lampade. Avevano deciso di tenerne accesa una sola per volta, nella speranza che l’olio bastasse fino al termine della salita.
— Sarà per i casi d’emergenza, per le cadute di energia — disse Cirocco. — Probabilmente questa scala esiste anche più in basso solo che è ricoperta dal terriccio. Il che significa che questo posto è abbandonato da parecchio tempo. Se esistono alberi, devono essere mutazioni recenti.
Gaby alzò la lampada, guardò avanti, poi indietro, verso l’ultimo filo di luce. Socchiuse gli occhi.
— Secondo me qui la scala fa una svolta. Prima girava attorno all’esterno del cavo; adesso svolta a sinistra e poi sale diritta.
Cirocco studiò la situazione e pensò che Gaby aveva ragione.
— Mi dà l’impressione che passeremo proprio per il centro.
— Oh, davvero? Ricordi il posto dei venti? Tutta quell’aria passa di qui, in un punto o nell’altro.
— Se avessimo incrociato la corrente d’aria non saremmo qui. Saremmo già precipitate nel vuoto.
Gaby annusò l’aria, mentre guardava la scalinata alla luce oscillante della lampada.
— Fa caldo. Credi che la temperatura aumenterà ancora?
— L’unico modo per scoprirlo è salire.
Gaby si lasciò sfuggire un gemito e ondeggiò. La lampada le cadde quasi di mano.
— Stai bene?
— Sì, è… No, accidenti, no. — Si appoggiò alla parete tiepida. — Mi gira la testa, sono debole, mi tremano le mani. — Si guardò la mano che tremava visibilmente, cercò di calmarsi respirando profondamente.
— Forse un giorno di riposo non era sufficiente — disse Cirocco, studiando con gli occhi l’ambiente. — Speravo di spuntare in cima a questa scala prima di fermarci un’altra volta. Ma è inutile sforzarci troppo.
— Posso farcela.
— No — decise Cirocco — nemmeno io mi sento tanto in forma. Ci fermiamo qui in questo caldo, o torniamo all’aperto?
Gaby guardò i numerosi scalini alle loro spalle.
— Tanto vale sudare un po’ — disse.
Accesero il fuoco. Faceva molto caldo, ma le fiamme offrivano un conforto psicologico impagabile. Si erano portate rami e muschio nel sacco di Gene. Poi Gaby riscaldò le bistecche del giorno prima, aggiungendo un po’ di radici fresche. Cirocco, mentre la guardava lavorare, pensò: "Noi due assieme funzioniamo benissimo".
Era delizioso. Si servirono due razioni abbondanti e cominciarono a mangiare davanti al fuoco, sedute fianco a fianco. Tra il crepitio delle fiamme e l’acciottolio delle stoviglie e l’odore del cibo, Cirocco fu ben felice di rilassarsi, di non pensare a niente.
Si guardò le mani, che recavano tracce dello sporco raccolto durante il giorno. Ma non potevano sprecare acqua solo per lavarsi.
Gaby si deterse la fronte col dorso della mano — mani piccole e abili, le sue — e lanciò uno guardo a Cirocco. Le sorrise, un sorriso appena accennato che subito s’allargò a conquistarle il viso appena Cirocco le sorrise a sua volta. Aveva un occhio seminascosto dalle bende. Tuffò il cucchiaio nella zuppa che s’erano preparate e aspirò rumorosamente.
— Queste radici sono meglio mangiate al dente — disse. — Passami il piatto.
Gliene versò una porzione abbondante e poi si sedettero, fianco a fianco anche se alla distanza di un metro circa, e cominciarono a mangiare.
Era delizioso. Mangiavano in silenzio, ascoltando i piccoli suoni che le circondavano, il crepitio leggero delle fiamme e lo sfregamento delle stoviglie sulle ciotole.
— Hai ancora un po’ di sale?
Cirocco frugò nel suo sacco, trovò il sale e anche due dolci di cui si era dimenticata, avvolti in foglie gialle. Ne mise uno in mano a Gaby, rise alla sua espressione raggiante. Poi mangiò il suo lentamente, in due bocconi, assaporando quegli aromi che le sembravano quasi sconosciuti. Quando ebbe finito, cominciò a lanciare occhiate ingorde al dolce che Gaby aveva messo da parte.
— Se vuoi conservartelo per colazione, dovrai stare sveglia tutta la notte.
— Non preoccuparti. È solo che io sono molto educata e so che il dessert si mangia dopo il pranzo.
Gaby impiegò cinque minuti a togliere il dolce dalla foglia, poi altri cinque a studiarlo, mentre Cirocco non la perdeva d’occhio. Lo inghiottì d’un colpo, e Cirocco uscì in un uggiolio, come un cane che si fosse visto sfuggire un osso prelibato.
Si stava divertendo molto e questo la colpì; si mise a pensare. Annusare con bramosia come aveva fatto, il suo viso vicino a quello di Gaby, era saggio? Era giusto illudere a quel modo Gaby? Lei era al settimo cielo, felicissima, le brillavano gli occhi per tutte quelle attenzioni, per il fatto che loro due fossero lì, sole.
"E perché non provo anch’io le stesse sensazioni?" si chiese Cirocco.
Come se avesse intuito i suoi pensieri, Gaby si fece immediatamente seria. Le toccò la mano, la guardò con espressione intensa, scosse piano la testa. Il senso del messaggio era chiarissimo: "Da me non hai niente da temere".
Cirocco sorrise, e sorrise anche Gaby. Finirono di mangiare anche le bistecche senza curarsi troppo delle buone maniere.
Ma non era più la stessa cosa. Gaby era silenziosa. Cominciarono a tremarle le mani, le cadde il piatto. Si alzò singhiozzando, poi la mano di Cirocco si appoggiò sulla sua spalla. Gaby seppellì la faccia sotto il collo di Cirocco e si mise a piangere.
— Sto male. Sto male.
— Allora sfogati. Piangi. — Cirocco le carezzò per un attimo i capelli sottilissimi; poi le fece alzare il mento. Voleva baciarla in un punto che non fosse coperto di bende. Pensò di baciarla sulla guancia, ma all’ultimo momento, senza sapere perché, la baciò sulle labbra. Era umide, e caldissime.
Gaby la guardò per un lungo momento, poi abbassò di nuovo la testa sulla sua spalla. Smise di piangere e di tremare.
— Come fai a essere così forte? — chiese Gaby, con la voce soffocata dalla vicinanza del corpo di Cirocco.
— E tu come fai a essere così coraggiosa? Continui a salvarmi la vita.
Gaby scosse la testa. — No, parlo sul serio. Se in questo momento non ci fossi tu, impazzirei. E tu non piangi nemmeno.
— È difficile che io pianga — disse Cirocco.
— Nemmeno se ti violentano? Dio, è stato orribile. Per te, per lui, per tutto. Non so cos’è stato peggio.
— Gaby, vorrei fare all’amore con te se questo servisse ad alleviare il tuo dolore, ma non me la sento. Fisicamente.
Gaby scosse la testa.
— Non è questo che voglio da te anche se tu lo sentissi moltissimo. Se devi sforzarti di fare una cosa, a me non va. Io non sono Gene, e preferirei essere violentata io piuttosto che capitasse qualcos’altro a te. A me, basta volerti bene.
Cosa dirle, cosa dirle? "Quello che vuoi, ma non dirle bugie", si disse.
— Senti, non so se sarò capace mai di amarti come vorresti tu. Però credimi, sei la migliore amica che io abbia mai avuto.
Gaby uscì in un sospiro tenero.
— Per ora dovrà bastarmi.
Cirocco pensò che si sarebbe rimessa a piangere. Invece l’abbracciò un attimo e le diede un bacio sul collo.
— La vita è dura, eh? — chiese, con una voce sottilissima.
— Maledettamente dura. Andiamo a dormire.
Si cercarono un posto comodo; Gaby s’indirizzò verso est, Cirocco dalla parte opposta. Fra di loro tennero il fuoco che attizzarono prima di coricarsi.
Quella notte, Cirocco si svegliò urlando. Rivedeva Gene che le puntava il coltello sotto il mento e il sudore le imperlava il corpo. Gaby, che si era addormentata un gradino più sotto di lei, era al suo fianco e cercava di calmarla.
— Da quanto tempo sei qui? — le chiese.
— Da quando ho ricominciato a piangere. Grazie per avermi lasciata salire.
Bugiarda. Ma le venne da sorridere.
Per un migliaio di scalini la temperatura continuò a salire. Le pareti scottavano, la suola delle loro scarpe bruciava. Cirocco sentì il sapore della sconfitta. Dovevano essere ancora lontane dal centro parecchie migliaia di scalini, ed era logico aspettarsi che solo al centro la temperatura scendesse.
— Altri mille scalini, se ce la facciamo — disse. — Se il caldo continua ad aumentare, torniamo indietro e proviamo a salire all’esterno del cavo. — Ma era un’idea impossibile: gli alberi erano già pochi quando erano entrate nel tunnel, e ormai l’inclinazione del cavo doveva essere di ottanta gradi. Si sarebbe trovata di fronte alla sua ipotetica montagna di vetro, la probabilità peggiore cui avesse pensato quando stava preparando il viaggio.
— D’accordo su tutto, ma aspetta un momento. Mi tolgo la camicia. Mi sto sciogliendo.
Si tolsero le camicie e proseguirono all’interno di quella fornace. Cinquecento scalini dopo, si rivestirono. Altri trecento scalini, e furono costrette a infilare i maglioni.
Le pareti erano ricoperte di ghiaccio, e sotto i loro piedi scricchiolava la neve. Si misero i guanti, alzarono i cappucci delle giacche a vento. La luce della lampada, riflessa dalle pareti di un bianco candido, era quasi abbagliante. Il loro fiato si condensava in cristalli ghiacciati. Più avanti, il tunnel si restringeva gradualmente.
— Altri mille gradini? — chiese Gaby.
— Mi hai letto nel pensiero.
Il ghiaccio che pendeva dal soffitto costrinse ben presto Cirocco ad abbassare la testa, poi ad avanzare carponi. Il buio diventò più fitto quando Gaby, che reggeva la lampada, la superò di diversi scalini. Cirocco dovette sdraiarsi ventre a terra.
— Ehi, non ci passo! — Era una situazione paurosa, ma bastava tornare indietro per liberarsi. Era contenta di non sentire toni di paura nella voce.
Lo scricchiolio che la precedeva si fermò di colpo.
— Okay — le rispose Gaby. — Mi sembra che il tunnel qui si allarghi. Vado avanti a vedere per una ventina di metri, poi ti dico.
— Va bene. — Rimase in ascolto del suono che svaniva davanti a lei. Scese l’oscurità, e lei ebbe abbastanza tempo da farsi venire i sudori freddi prima che riapparisse la luce. In un attimo Gaby era tornata.
La sua faccia era incrostata di cristalli di ghiaccio.
— Questo è il punto peggiore.
— Allora passerò. Non sarò arrivata fin qui per restare intrappolata come una scema.
— Mangia meno dolci, cicciona.
Gaby tirò fuori la piccozza e cominciò a picchiare sul ghiaccio, scrostandone un po’ dalle pareti.
— Lascia andare il fiato — disse a Cirocco, poi l’afferrò per le mani e tirò. Cirocco riuscì a passare dall’altra parte.
Alle loro spalle, una lastra di ghiaccio lunga un metro cadde sugli scalini e volò giù, verso la luce.
— Dev’essere il cavo che si flette — disse Gaby. — Dev’essere per questo che il passaggio è aperto. Se non facesse cadere ogni tanto un po’ di ghiaccio, questo passaggio sarebbe ostruito.
— Quello, e l’aria calda che sale dietro noi. Comunque muoviamoci e stiamo attente che non ci arrivi qualcosa sulla testa.
Ben presto il ghiaccio scomparve e loro poterono rimettersi diritte. Si tolsero i maglioni, chiedendosi che altro le aspettasse.
Il rombo iniziò quattrocento scalini dopo. Divenne sempre più forte. Dovevano esserci delle macchine in azione dall’altra parte del muro del tunnel. Una delle pareti era calda, ma non in maniera insopportabile.
Senza dubbio era l’aria che veniva risucchiata dal posto dei venti e risaliva in alto, verso una destinazione ignota.
Altri duecento scalini, e si trovarono in una zona calda. La superarono di corsa, senza nemmeno togliersi i vestiti perché sapevano di essere vicine alla fine del tunnel. Il caldo raggiunse punte estreme, da sauna, che Cirocco stimò essere sui cinquanta gradi; poi Gaby, sempre in testa, vide la luce. Era solo una piccola striscia argentea che apparve alla loro sinistra e diventò sempre più grande, finché non si trovarono su una sporgenza che usciva dal cavo. Si diedero una pacca sulla schiena, poi ricominciarono a salire.
Si trovavano sulla cima del cavo e sempre arrampicavano mentre il cavo s’inarcava sempre più, su verso l’ampia gibbosità e in giù verso la lontanissima base. Adesso il cavo era assolutamente nudo: né alberi, né terreno. Per la prima volta, Gea sembrava l’incredibile, enorme macchina che era, costruita da esseri che forse vivevano ancora nel mozzo. Il cavo saliva, liscio e diritto, con un’inclinazione di sessanta gradi, avvicinandosi sempre più all’orlo svasato del raggio. Ormai, lo spazio che le divideva dal raggio era di due chilometri appena.
A sud, la scalinata entrò in un altro tunnel. Si avventurarono senza timori, sicure di non avere sorprese. Superarono la prima zona calda e si stavano congratulando l’un l’altra quando la temperatura cominciò a diminuire. Arrivò a livelli di freddo glaciale, insostenibile.
— Dannazione! Qui la disposizione è diversa. Andiamo, presto!
— Da che parte?
— Indietro no, sempre avanti. Forza!
Sarebbero state in pericolo solo se una di loro due fosse caduta e si fosse ferita, e questo spaventava Cirocco, che dovette ricordare a se stessa di non prendere mai nulla per scontato su Gea. E dovette anche ricordarsi che il cavo era composto da un centinaio di trefoli intrecciati, e che quindi il percorso dei fluidi caldi e freddi che vi scorrevano attraverso doveva essere molto complesso.
Oltrepassarono una zona di vibrazioni, sempre al centro; un’altra zona fredda, meno rigida della prima; e riemersero sul lato nord del cavo.
Dopo di che, infilarono un altro tunnel, e tornarono a emergere sul cavo.
In due giorni superarono altri sette tunnel. La loro marcia venne ritardata dal quarto, così incrostato di ghiaccio che nemmeno Gaby riuscì a evitare di strisciare. Impiegarono otto gelide ore per scavarsi un sentiero nel ghiaccio.
Ma quando spuntarono di nuovo sul lato sud del cavo, non c’erano più tunnel. L’inclinazione era ormai fra gli ottanta e i novanta gradi, e la scalinata saliva all’esterno del cavo, senza offrire la minima protezione come la strisciolina rossa di un pacchetto di gomma da masticare.
L’idea di accamparsi su un gradino sospeso sul vuoto era inaccettabile anche perché erano a 250 chilometri dal suolo. Cirocco tossiva nel sonno, e sarebbe bastato un niente a scaraventarla giù. Così, per quanto stanche, continuarono a marciare, tenendosi ben vicine al cavo sulla loro sinistra, solido e rassicurante.
A Cirocco non piaceva quello che vedeva sopra di sé. Più salivano, più l’impresa appariva impossibile.
Dai rilievi eseguiti sul Ringmaster sapevano che i raggi possedevano una sezione trasversale ovale, con due diametri massimi rispettivamente di cinquanta e cento chilometri circa; poi si svasavano fino a incontrare l’orlo esterno. Avevano appena oltrepassato la parte svasata, e le pareti del raggio sembravano quasi verticali. Però nessuno di loro aveva previsto la sporgenza che correva attorno al mostruoso foro centrale del raggio, una sporgenza larga almeno cinque chilometri.
Il cavo entrava in un foro della sporgenza e probabilmente proseguiva verso l’alto, fino a unirsi all’elemento che lo congiungeva al mozzo. Durante una sosta, studiarono la sporgenza: sospesa sopra di loro, sembrava vicinissima, e invece era lontana due chilometri. Un tetto gigantesco che pareva protendersi all’infinito. Il foro cenrale, rimpicciolito dalla prospettiva, era un ovale di quaranta chilometri per ottanta; ma tra loro e il foro si frapponevano i cinque chilometri della sporgenza.
Gaby guardò Cirocco con aria interrogativa.
— Non facciamoci altre preoccupazioni. Finora Gea ci è stata amica. Forza, mia cara.
E Gea fu di nuovo buona con loro. Quando arrivarono al punto in cui il cavo si infilava nella sporgenza trovarono un altro tunnel che le passava attraverso.
Accesero la lampada, anche se ormai erano a corto di olio e ricominciarono a salire.
Il tunnel girava verso est come se seguisse ancora il cavo, ma loro non potevano essere sicure che il cavo ci fosse davvero. Contarono duemila scalini, poi altri duemila.
— Mi è venuta un’idea — disse Gaby. — Forse questo tunnel arriva fino al mozzo. Ma non credere che sia una buona notizia. Pensaci un attimo.
— Lo so, lo so. Avanti. — Ormai erano a corto di olio per la lampada e di cibo, e le riserve di acqua erano dimezzate. Al mozzo mancavano ancora trecento chilometri, il che significava, grosso modo, un milione di scalini.
Incollò gli occhi all’orologio. Avevano un ritmo di quasi due scalini al secondo. Bastava una spinta minima per proiettarsi in alto, allo scalino successivo. La gravità lì era circa un ottavo di quella terrestre.
A due scalini al secondo, un milione di scalini significava mezzo milione di secondi, cioè circa sei giorni, senza contare le ore di sosta. Secondo una stima approssimativa…
— Lo so cosa stai pensando — disse Gaby alle sue spalle. — Ma ce la faremo lo stesso se restiamo al buio?
Era quello il punto cruciale. Il cibo poteva durare per due settimane, e l’acqua, razionandola, sarebbe bastata fino in cima, non certo per tornare.
Il guaio era che non avevano più olio per le lampade. Avevano al massimo un’autonomia di luce di cinque ore, e procurarsi altro olio era impossibile.
Cirocco stava ancora meditando sulla situazione, cercando di trovare un modo per sopravvivere, quando emersero alla base del raggio.
Niente l’aveva mai fatta sentire più piccola: né O’Neil Uno, né le stelle nello spazio, né il suolo di Gea. Vedeva tutto, e il suo senso prospettico la tradiva.
Era impossibile scorgere la curvatura delle pareti. Come un orizzonte capovolto, si allontanavano da lei gradualmente e si piegavano all’improvviso. Lo spazio pareva più semi-circolare che circolare.
Tutto era immerso in una luminescenza color verde pallido. La fonte di luce erano quattro file verticali di finestre da cui partivano raggi luminosi che si incrociavano al centro.
Non era del tutto vuoto: nel centro si trovavano tre cavi verticali annodati assieme, simili a una gigantesca treccia di capelli; e dai raggi di luce uscivano volteggiando nubi strane, cilindriche, che si muovevano sotto i loro occhi.
Era quella la vera cattedrale, non la pallida imitazione incontrata a terra sotto i trefoli del cavo. Gea non cessava di sorprenderle.
— Credevo di aver visto tutto — disse Gaby, indicando la parete che avevano alle spalle. — Ma una giungla verticale?
Non esisteva altro modo di descriverla. L’interno delle pareti del raggio era folto di alberi, coi rami che si protendevano in ogni direzione. In alto, molto più in alto, a una distanza imperscrutabile, gli alberi lasciavano posto a un tappeto d’erba.
E ancora più sopra si alzava una volta grigia.
— Secondo me dovrebbero essere circa trecento chilometri.
Gaby socchiuse un attimo gli occhi, poi costruì una sorta di reticolo con le dita e cominciò a calcolare sottovoce secondo un sistema tutto suo.
— Copre l’esatto numero di gradi.
— Sediamoci un momento a riflettere.
Cirocco aveva più bisogno di sedersi che di riflettere. Fino a quel punto era convinta di potercela fare. Adesso capiva che la sua illusione nasceva solo dall’incapacità di afferrare il problema nella sua interezza. E il problema era lì, tangibile: trecento chilometri. Da superare in verticale.
In verticale.
Doveva essere pazza.
— Punto primo. Ti sembra che esista un modo per arrivare fin là in alto?
Gaby guardò in su, scrollò le spalle.
— E cosa significa? Fin qui ci siamo arrivate, no? E la strada che abbiamo percorso non si vede più.
— Giusto. Però speravamo di trovare una scala che ci portasse fino al mozzo. Tu la vedi?
— No.
— Bene. Prima pensavo che quelle scale dovessero arrivare fino in cima. Adesso comincio a pensare che si fermino qui.
— Forse. Dovrebbero aver preordinato una strada per raggiungere il mozzo. Ci sarà pure un modo per arrivarci. Probabilmente quegli alberi non dovrebbero trovarsi lì. Avranno nascosto tutto, come sul cavo.
— E in questo caso…
— In questo caso abbiamo un bel po’ di arrampicata da fare — finì Gaby per lei. — Con tutta questa giungla è difficile da vedere. Ammesso che esista un percorso, probabilmente è più facile vederlo dall’alto che da qui. Non so se riusciremo mai a trovarlo.
— Già. Però mi è venuta in mente un’altra cosa. Ammettiamo di arrivare fino al mozzo. Poni che arriviamo in alto e scopriamo che una scala non esiste proprio. In questo caso, come facciamo a ridiscendere?
Gaby si mise a ridere.
— Se vuoi propormi di tornare indietro, dillo pure. Non ho nessuna intenzione di prenderti in giro.
— Torniamo indietro? — Non aveva pensato al punto interrogativo, ma le venne spontaneo.
— No.
— Ah. Capisco. — Da tempo s’erano scordate le distinzioni fra Comandante ed equipaggio. Cirocco si mise a ridere, scosse la testa. — Va bene. Cosa proponi allora?
— Per prima cosa cerchiamo come si deve. Se ci fosse il tuo ascensore e non lo trovassimo, che figura ci faremmo?