Sul cavo ci si sentiva più leggeri. Erano più vicini al centro di Gea di cento chilometri circa, e lontani cento lunghissimi chilometri dal suolo. La gravità era scesa a meno di un quinto di quella terrèstre. Il bagaglio di Cirocco pesava almeno due chili di meno e anche il suo peso corporeo aveva subito un analogo decremento.
— Al punto in cui il cavo si unisce alla volta mancano un centinaio di chilometri — disse Cirocco. — Direi che l’inclinazione è di trentacinque gradi. Non dovremmo avere difficoltà.
— Secondo me sono una quarantina — ribatté Gene, scettico. — Forse quarantacihque. E l’inclinazione continua a crescere. A livello della volta sarà di una sessantina di gradi.
— Ma con questa gravità…
— Non c’è da ridere su una pendenza di quaranta gradi — disse Gaby. Era seduta sul terreno e aveva l’aria di essersi appena ripresa. Aveva vomitato, ma diceva di sentirsi meglio adesso che non era più sull’aerostato. — Sulla Terra ho fatto qualche scalata con un telescopio sulla schiena. Bisognerebbe essere in forma, e noi non lo siamo.
— Ha ragione — disse Gene. — E poi la bassa gravità fa girare la testa.
— Siete dei disfattisti.
Gene scose la testa. — Non pensare che stiamo creando inutili problemi. E non dimenticare che la massa del peso che porti è rimasta uguale. Stacci molto attenta.
— Insomma, stiamo per imbarcarci in un’impresa mai tentata da nessun essere umano, e c’è qualcuno che canta? No, tutti a brontolare.
— Se vogliamo cantare — disse Gaby — cantiamo subito, perché poi ci passerà la voglia.
Bene, pensò Cirocco, ora ci siamo. Era consapevole che il viaggio si annunciava difficile, ma sentiva che la parte più difficile sarebbe venuta quando fossero giunti in cima, il che voleva dire tra almeno cinque giorni.
Si trovavano in una foresta buia. Alberi di vetro opaco incombevano su di loro, filtrando ulteriormente la scarsa luce che giungeva sin lì e proiettando tutto intorno riflessi bronzei. Le ombre erano coniche e impenetrabili, puntate a est, verso la notte. In alto, un’enormità di foglie di plastica rosa, arancione, verdi, blu e dorate: uno stravagante tramonto in una tarda sera estiva.
Il terreno vibrava dolcemente sotto i loro passi. Cirocco pensò ai grandi volumi d’aria che sfioravano il cavo risalendo verso il mozzo. Le sarebbe piaciuto poter sfruttare tutta quella forza.
Salire non era difficile. Il terreno era terra battuta, dura. I trefoli sepolti sotto il sottile strato di terra davano forma al paesaggio. C’erano lunghi crinali di corda che, dopo qualche centinaio di metri di percorso in rettilineo, seguivano la curvatura del cavo verso l’alto.
La vegetazione era più fitta tra un trefolo e l’altro, dove il terreno era più spesso. Adottarono la tattica di seguire un crinale finché non cominciava a incurvarsi; allora superavano la gola che li divideva dal crinale a sud più vicino e si mettevano a seguire quello. Dovevano spostarsi di crinale in crinale ogni mezzo chilometro circa.
In fondo a ogni gola scorreva un minuscolo canale d’acqua che si era scavato il letto nel terreno. La quantità d’acqua era scarsa, ma il flusso costante. Probabilmente l’acqua finiva col precipitare a terra in un punto a sud-ovest del cavo.
Gea era prolifica lì come cento chilometri più in basso. Molti alberi erano ricchi di frutti, e tra le fronde saltellavano animali arborei. Cirocco riconobbe un animaletto delle dimensioni di un coniglio, facile da uccidere e commestibile.
Alla fine della seconda ora Cirocco capò che il pessimismo degli altri due era giustificato. Se ne accorse quando le venne un crampo al polpaccio che la costrinse a sedersi.
— Non dite niente, eh?
Gaby sorrise, soddisfatta di sé.
— È l’inclinazione del cavo. Non sembra pesante, ma per salire si è costretti a camminare in punta di piedi.
Gene si sedette accanto a loro, con la schiena appoggiata a un trefolo. Attraverso un’apertura tra gli alberi potevano vedere buona parte di Iperione, che brillava attraente.
— Anche la massa è un problema — disse Gene. — Devo camminare quasi col naso a terra per potermi muovere agevolmente.
— A me fa male la schiena — disse Gaby.
— Anche a me — ammise Cirocco. Con un po’ di massaggi il crampo era sparito, ma sarebbe tornato.
— Forse è meglio procedere a quattro zampe — disse Gene. — Stiamo facendo lavorare troppo le gambe. Se usiamo anche le mani, il peso si distribuisce uniformemente su tutto il corpo.
— Hai ragione — disse Gaby. — E poi saremmo più in forma al momento di salire in verticale. Sarà quasi tutto lavoro di braccia.
— Avete ragione tutti e due — disse Cirocco. — Ho esagerato col ritmo. Dovremo fermarci più spesso. Gene, vuoi prendere la mia borsa di pronto soccorso?
Si erano portati qualche medicina per raffreddori e febbre, disinfettanti, bende e un po’ dell’anestetico che Calvin aveva usato per gli aborti. C’era anche un libretto di pronto soccorso scritto da Calvin per loro e che trattava di problemi che andavano dal sangue da naso a come effettuare un’amputazione. C’erano persino delle bacche che servivano da stimolanti. E c’era una bottiglietta di un unguento viola che Maestrocantore le aveva dato per "i dolori del cammino". Se ne strofinò un po’ sulla gamba, sperando che fosse efficace anche per gli umani come sembrava che fosse per i titanidi.
— Pronte? — chiese Gene.
— Direi di sì. Vai tu per primo, ma non marciare troppo forte. T’avvertirò se il ritmo mi sembrerà troppo sostenuto. Tra venti minuti ci fermiamo per una sosta di dieci minuti.
Un quarto d’ora dopo, Gene urlava di dolore. Si tolse un mocassino e cominciò a massaggiarsi il piede.
Cirocco, contenta di potersi fermare, gli passò l’unguento di Maestrocantore. Seduta sul sacco era in posizione quasi eretta, ma le sue gambe penzolavano di traverso sul cavo. Al suo fianco, Gaby non si era data neppure la pena di voltarsi a vedere cosa stesse succedendo.
— Quindici minuti di marcia e quindici di sosta.
— Come vuoi tu, capo — sospirò Gaby. — Per te mi farò scorticare viva, camminerò finché piedi e mani saranno solo monconi sanguinolenti. E se muoio, sulla mia lapide fai scrivere che sono morta come muore un soldato. E dammi un calcio quando sei pronta a partire. — Cominciò a russare pesantemente facendo ridere Cirocco. Gaby aprì sospettosamente un occhio, poi si mise a ridere anche lei.
— Qualcosa tipo Qui giace una spaziale? — suggerì Cirocco.
— Fece il suo dovere - disse Gene.
— Onestamente — sospirò Gaby — dov’è il romanticismo nella vita? Parla con qualcuno del tuo epitaffio e cosa ne ricavi? Prese in giro.
Durante il periodo successivo di riposo, a Cirocco tornarono i crampi. Questa volta in tutte e due le gambe.
— Ehi, Rocky — disse Gaby, toccandole timidamente la spalla — è inutile ammazzarci. Fermiamoci un’ora, questa volta.
— Ridicolo — rispose Cirocco. — È roba da niente. Ma com’è che a te i crampi non vengono?
— Mi faccio tirare. Ti ho legato una corda attorno al sedere e sei tu che mi tiri su.
Cirocco rise, malgrado la stanchezza.
— Dovrò abituarmi. Prima o poi andrà meglio. E comunque i crampi non mi uccideranno.
— Che ne dite di proseguire per dieci minuti e fermarci per venti? — intervenne Gene. — Almeno finché non riusciamo a tenere un ritmo migliore.
— No. Continueremo così per otto ore di fila, a meno che qualcuno non sia costretto a fermarsi. Il che significa… — guardò l’orologio di Calvin — ancora un po’ più di cinque ore. Poi ci accamperemo.
Gaby sospirò. — Guidaci, Rocky. È quello che sai fare meglio.
Era mostruoso. Cirocco continuò a soffrire di crampi, e anche Gaby perse la sua immunità.
L’unguento dei titanidi aveva un certo effetto, ma non potevano sprecarlo tutto subito. Il vasetto di Cirocco era già finito. Lei sperava che col tempo riuscisse ad abituarsi, che dopo qualche giorno i crampi sparissero.
Al termine della settima ora, si sentiva un po’ meno inflessibile. Che avesse ragione Bill? Provava davvero il bisogno di arrivare fino ai limiti estremi della propria resistenza, e magari oltre?
Si accamparono sul fondo di una gola. Accesero il fuoco, ma non montarono le tende. L’aria era calda e umida. Il fuoco serviva più che altro a dissipare le tenebre sempre più fitte. Vi sedettero attorno in circolo.
— Mi sembri un pavone — disse Gene, bevendo un sorso di vino.
— Un pavone molto stanco — sospirò Cirocco.
— Quanta strada avremo fatto, Rocky? — chiese Gaby.
— Direi una quindicina di chilometri.
— Esatto — commentò Gene. — Ho fatto la media dei passi che abbiamo percorso su un paio di crinali, poi ho tenuto il conto dei crinali. Dovrebbero essere quindici chilometri.
— Le grandi menti hanno le stesse idee — disse Cirocco. — Quindici oggi, venti domani. In cinque giorni arriveremo alla volta. — Si stiracchiò con voluttà e rimase un attimo a fissare i mutevoli colori delle foglie che li sovrastavano. — Gaby, sei tu l’eletta. Fruga in quel sacco e tira fuori un po’ di cibo. Ho tanta fame che mangerei un titanide.
Il giorno dopo non fecero venti chilometri, e nemmeno dieci. Si svegliarono con le gambe a pezzi. Cirocco era talmente indolenzita che non riusciva a piegare le ginocchia senza gemere di dolore. Si aggiravano con movimenti da ottuagenari, preparando la colazione e smontando il campo, e quindi cercarono di sforzarsi in una serie di piegamenti e di esercizi isometrici.
— Eppure lo so che questo coso è più leggero — borbottò Gaby mentre si buttava il sacco sulle spalle. — Ho mangiato due razioni di cibo.
— Il mio pesa venti chili di più — disse Gene.
— Basta con le chiacchiere. Forza, scimmie. Coraggio, un po’ di vita!
— Vita? Perché, questa è vita?
La seconda notte scese solo cinque ore dopo la prima, perché Cirocco decise che così doveva essere.
— Grazie, grande signora del tempo — mormorò Gaby, infilandosi nel suo sacco a pelo. — Con un po’ di buona volontà, forse riusciremo a stabilire un nuovo record: un giorno di due ore!
— Stasera — disse Gene — il fuoco lo accendi tu, poi prepari da mangiare. E fai piano, perché tutti quegli scricchiolii di ginocchia mi danno fastidio.
Cirocco incrociò le braccia e rimase a fissare i due.
— Così avete già deciso tutto, vero? Io invece ho buone notizie per voi: qui il capo sono io.
— Gene, l’hai sentita dire qualcosa?
— Non ho sentito neanche una parola.
Cirocco zoppicò un po’ in giro finché ebbe radunata abbastanza legna per il fuoco. Inginocchiarsi per accenderlo si rivelò presto un grosso problema che non era ben sicura di riuscire a risolvere. Dovette ricorrere a torsioni che non avrebbe mai creduto possibili.
Ma dopo un po’ i ramoscelli crepitarono, e Gaby e Gene si mossero al seguito dei propri nasi che avevano sentito l’aroma del cibo.
Cirocco trovò ancora sufficiente forza per raccogliere un po’ di terra attorno al fuoco per impedirgli di propagarsi, poi srotolò il sacco a pelo. Dormiva già quando ci s’infilò.
Il terzo giorno non fu terribile come il secondo, esattamente come l’incendio di Chicago non fu terribile come il terremoto di San Francisco.
In otto ore percorsero solo dieci chilometri, su un terreno sempre più ripido. Alla fine, Gaby disse che non le sembrava più di avere ottant’anni; le sembrava di averne solo settantanove.
Divenne necessario adottare una nuova tattica di salita. Con l’aumentare della pendenza era praticamente impossibile camminare anche a quattro zampe. I piedi scivolavano, e per non cadere all’indietro dovevano buttarsi a terra a corpo morto.
Gene suggerì che, a turno, uno di loro si arrampicasse il più in alto possibile e legasse un’estremità della loro fune a un albero; dopo di che, gli altri due potevano arrampicarsi con una certa facilità attaccandosi alla fune. Chi saliva per primo lavorava sodo per dieci minuti mentre gli altri due riposavano; poi riposava per altri due turni prima di doversi arrampicare di nuovo. In questo modo, fecero trecento metri per volta.
Cirocco guardò il torrentello che scorreva accanto al loro accampamento, la terza sera, poi decise che era troppo stanca per fare un bagno. Voleva solo mangiare. Gene, brontolando, fece cuocere un po’ di carne.
Il quarto giorno percorsero venti chilometri in dieci ore, e alla sera Gene cercò di fare l’amore con Cirocco.
Avevano sistemato l’accampamento vicino al punto in cui il torrentello che stavano risalendo si allargava a formare una polla grande a sufficienza per fare un bagno e Cirocco si era spogliata e ci si era immersa prima ancora di pensare a quello che stava facendo. Sarebbe stato utile un po’ di sapone, ma sul fondo c’era molta sabbia e lei si sfregò vigorosamente con quella. Ben presto anche Gene e Gaby la raggiunsero. Poi Gaby uscì dall’acqua per andare a cercare frutta su invito di Cirocco; poiché non avevano accappatoi, lei si sdraiò tutta nuda davanti al fuoco, quando Gene la circondò con le braccia.
— Stai fermo — ordinò lei, balzando via e coprendosi i seni con le mani.
Gene non parve minimamente impressionato.
— Dài, Rocky, non sarebbe la prima volta per te.
— E allora? Non mi piace la gente che mi salta addosso. Tieni le mani al loro posto.
Lui aveva l’aria esasperata. — E secondo te cosa dovrei fare, restarmene calmo se ho sempre attorno due donne nude?
Cirocco prese i vestiti.
— Non sapevo che le donne nude ti facessero questo effetto. Lo terrò presente.
— Va bene, va bene. Non arrabbiarti.
— No, non sono arrabbiata. Dovremo vivere a contatto di gomito per un bel po’ di tempo e non servirebbe a nessuno stare arrabbiati. — Si strinse addosso il vestito e lo guardò con circospezione per un attimo; poi si mise a ravvivare il fuoco mentre si sedeva con estrema attenzione di fronte a lui.
— Comunque sei arrabbiata, e io non volevo che lo fossi.
— Non saltarmi addosso, questo è tutto.
— Ti manderei delle rose e dei cioccolattini, ma qui è un po’ difficile.
Lei sorrise, si rilassò un poco. Dagli occhi di Gene sembrava scomparsa l’ombra buia che aveva visto prima.
— Senti, Gene, non è che noi due facessimo faville nemmeno sull’astronave, e lo sai. Adesso sono stanca, ho fame, e mi sento ancora sporca. Se mi verrà voglia, te lo farò sapere.
— Okay, mi basta.
Nessuno dei due aggiunse qualcosa mentre Cirocco faceva divampare il fuoco cercando nel contempo di mantenerlo entro i contini della cavità che avevano scavato nel terreno.
— Non sarà… — chiese poi Gene. — … non sarà che c’è qualcosa tra Gaby e te?
Lei arrossì, sperando che lui non se ne accorgesse. — Non sono affari tuoi.
— Ho sempre pensato che fosse un’omosessuale — disse Gene, annuendo. — Ma non credevo che lo fossi anche tu.
Lei trasse un profondo respiro e lo guardò con circospezione. Le ombre che ondeggiavano sul suo viso barbuto non le rivelarono granché.
— Vuoi provocarmi? Ti ho già detto che non sono affari tuoi.
— Se non sentissi nulla per lei, mi avresti detto di no, e basta.
Qual era il suo problema con lei? Perché quello che lui le aveva detto le faceva venire la pelle d’oca? Gene era un tipo privo di tatto, abbastanza bigotto, ma capace di condurre una normale vita di relazioni sociali, se no non l’avrebbero scelto per il viaggio verso Saturno. Una personalità alquanto comune, tutt’altro che eccentrica, stando al suo profilo psicologico.
Allora, perché la metteva a disagio appena la guardava?
— Faresti meglio a stare attento a non fare del male a Gaby — gli disse. — Si è innamorata di me perché sono la prima persona che ha incontrato qui a Gea, ma è solo una fissazione. Le passerà. Non è mai stata un’omosessuale. Nemmeno uno eterosessuale, a dire il vero.
— Faceva finta — disse lui.
— Ma in che mondo vivi? Mi stupisci, Gene. Alla NASA non si può nascondere niente. Ha avuto una relazione omosessuale, sì. Ne ho avuto una anch’io, e anche tu. Ho letto il tuo dossier. Vuoi dirmi che età avevi quando è successo?
— Ero un ragazzo. Il fatto… Il fatto è che con Gaby si capiva già da prima, ecco.
— La conversazione è finita — disse bruscamente Cirocco. — Non mi va di parlare di queste cose, e poi Gaby sta tornando.
Gaby si avvicinò, lasciò cadere ai piedi di Cirocco una rete piena di frutta. Li guardò tutti e due, poi si rivestì. — Sbaglio, o mi fischiano le orecchie?
Nessuno dei due le rispose. Gaby sospirò.
— Ci risiamo. Credo che abbiano ragione quei signori che dicono che le missioni nello spazio costano più di quello che valgono.
Al quinto giorno si ritrovarono nella zona notturna. C’era solo un filo di luce spettrale riflesso dalle zone di giorno che s’incurvavano attorno a loro. Non era molto, ma bastava.
Il terreno era molto più ripido, e lo strato di terra più sottile. Spesso camminavano su trefoli nudi, che permettevano una presa migliore. Si legarono e seguirono scrupolosamente le direttive di farsi rispettivamente sicurezza quando arrampicavano.
Anche lì la vita vegetale di Gea non si era arresa. Alberi imponenti affondavano le radici direttamente nel cavo, estrudendo viticci che correvano lungo tutta la superficie e s’aggrappavano con tenacia. Lo sforzo di sopravvivere li aveva privati di ogni bellezza. Erano brutti e tozzi, con tronchi traslucidi illuminati da una pallida luce interna. In certi punti ci si poteva aggrappare alle loro radici.
Alla fine del quinto giorno avevano percorso un totale di settanta chilometri. Erano a una cinquantina di chilometri dalla loro meta. Gli alberi si erano talmente diradati che, guardando giù, si accorsero di aver già oltrepassato il livello della volta. Adesso si trovavano nello spazio compreso tra il cavo e l’imboccatura a tromba del raggio di Rea. Sotto, in fondo, si vedeva brillare Iperione.
All’inizio del sesto giorno scorsero il luccichio del castello di vetro. Cirocco e Gaby, acquattate fra le radici degli alberi, lo intravidero, mentre Gene avanzava con la fune sopra di loro.
— Forse ci siamo — disse Cirocco.
— Vuoi dire che sarebbe il tuo ascensore? — sbuffò Gaby. — Ah, guarda, io non mi fido proprio.
Sembrava un po’ una città italiana di collina, però costruita con zucchero filato vecchio un milione d’anni e mezzo sciolto. Cupole e balconate, archi, pilastri, merli e tetti appoggiati su una sporgenza colavano, giù, come uno sciroppo solidificato. Le torri, alte e agili, avevano le angolature più assurde: sembravano matite in un contenitore. E tutto era bianco.
— È un cimitero, Rocky.
— Lo vedo. Ma potrò fantasticare, no?
Il castello combatteva una battaglia silenziosa contro innumerevoli ciuffi di rampicanti bianchi. Aveva subito danni mortali, ma quando Gaby e Cirocco raggiunsero Gene si accorsero che sotto le mura i rampicanti erano secchi, morti.
— Sembra quasi muschio — osservò Gaby mentre ne raccoglieva una manciata.
— Solo che è più grande.
Gaby si strinse nelle spalle. — Se Gea non può costruirlo in una forma più economica, è perché probabilmente non se ne preoccupa.
— Lì c’è una porta — disse Gene. — Volete entrare?
— Puoi scommeterci.
Tra l’orlo della sporgenza e le mura del castello c’erano cinque metri di terreno piano. Vicino a loro sorgeva un arco rotondo, non molto più alto della testa di Cirocco.
— Ehi! — sospirò Gaby, appoggiandosi alle mura. — Mi gira la testa. Non ricordavo più come si cammina sul terreno piano.
Cirocco accese una lampada e seguì Gene oltre l’arco. Si trovarono in un atrio tutto specchi.
— Sarà meglio non disperderci.
Una certa prudenza sembrava consigliabile. Nessuna delle superfici era del tutto riflettente, però nell’insieme quel posto ricordava un labirinto di specchi. Attraverso le pareti si vedeva una infinità di altre stanze, oltre le quali sorgevano altre stanze ancora, dello stesso materiale.
— E poi come facciamo a uscire? — chiese Gaby.
Cirocco puntò l’indice a terra.
— Seguiamo le nostre impronte.
— Già. Che stupida. — Gaby guardò lo strato sottile di polvere sul pavimento. — È vetro smerigliato — disse. — Dovrebbe essere robusto. Cerchiamo di non cadere.
Gene scosse la testa. — Lo pensavo anch’io, ma non è vetro. È sottile come una bolla di sapone e non ha nessuna resistenza. — Appoggiò delicatamente la mano a una parete: la parete si frantumò con un leggero tintinnio. Gene prese uno dei pezzi che erano caduti e lo sbricciolò stringendolo nel palmo della mano.
— Quante pareti credi che si possano abbattere prima che il secondo piano ci cada addosso? — chiese Gaby, indicando la stanza sopra di loro.
— Direi parecchie. Questo posto è un labirinto, ma originariamente non lo era. Noi siamo entrati perché era solo una serie di cubi uno dentro l’altro, senza vie d’uscita e senza vie d’accesso. Qualcun altro le ha abbattute prima di noi.
Gaby e Cirocco si guardarono.
— Come quell’edificio che abbiamo trovato sotto il cavo — disse Cirocco, poi lo descrisse a Gene.
— E chi costruisce case dove non si può né entrare né uscire? — chiese Gaby.
— Il nautilo — rispose Gene.
— Cosa?
— Il nautilo. Si costruisce una conchiglia a spirale. Quando la conchiglia diventa troppo piccola, l’ingrandisce, sigillando la parte vecchia. Alla fine salta fuori una cosa simile a quella che avete visto voi: stanze più piccole sul fondo, più grandi verso l’esterno.
— Però quelle stanze mi sembrano più o meno tutte uguali — osservò Cirocco.
Gene scosse la testa. — La differenza non è grande. Questa stanza è un po’ più alta di quell’altra. Da qualche altra parte ci saranno anche stanze più piccole. Queste creature costruivano in senso orizzontale, non verticale, e in tutte le direzioni.
Le creature che avevano costruito quei castelli di vetro dovevano essere state simili ai coralli marini. La colonia abbandonava le case a mano a mano che diventavano troppo piccole, costruendo sui resti. Alcune parti del castello avevano più di dieci piani. La stabilità dell’edificio era data non dalle pareti sottilissime ma dalle strutture che formavano gli angoli. Sembravano sbarre di lucite, spesse come il polso di Cirocco, molto dure e robuste. Se anche l’intero castello fosse crollato, quell’intelaiatura sarebbe rimasta in piedi come la struttura portante di un grattacielo.
— Comunque le creature che l’hanno costruito non sono state le ultime a usarlo — disse Gaby. — Qualcuno ha occupato il castello in seguito e ha apportato molte modifiche, a meno che quelle creature non fossero molto più sofisticate di quanto non crediamo noi. In ogni caso, qui la vita è scomparsa da chissà quanto tempo.
Cirocco cercò di non sentirsi delusa, ma non ci riuscì. Sperava di aver trovato il suo ascensore, e invece avrebbero dovuto proseguire a piedi.
— Non essere arrabbiata.
— Che succede? — Cirocco si svegliò lentamente. Era duro credere che fossero già passate otto ore.
Ma poi come faceva a saperlo lui? Era lei che aveva l’orologio.
— Non guardarlo. — L’aveva detto con lo stesso tono, ma Cirocco si sentì gelare e si arrestò col braccio alzato a metà. Il viso di Gene, come lo vedeva lei alla luce del fuoco morente, era color arancio. Era inginocchiato su di lei.
— Perché… cosa vuol dire, Gene? C’è qualcosa che non va?
— Non arrabbiarti, solo questo. Non volevo farle male, ma non potevo lasciare che guardasse, ti pare?
— Gaby? — Provò ad alzarsi e lui le mostrò il coltello. Con tutti i sensi all’erta, s’accorse di diverse cose: Gene era nudo; Gaby giaceva, nuda, a faccia in giù, e sembrava non respirasse più; Gene aveva un’erezione. Aveva le mani sporche di sangue. I suoi sensi erano ora al massimo dell’acutezza. Poteva non solo sentire il proprio respiro ma anche l’odore del sangue e della violenza.
— Non arrabbiarti — ripeté lui, apparentemente calmo. — Non volevo che andasse così, ma mi ci hai costretto.
— Io ho solo detto…
— Sei arrabbiata, si vede. — Con un sospiro di rassegnazione tirò fuori un altro coltello, quello di Gaby. — Se ci pensi, è solo colpa tua. Di cosa credi che sia fatto, io? Ah, donne!
Cirocco provò a pensare a qualche risposta, ma apparentemente lui non voleva ascoltarla.
Gene spinse la punta del coltello sotto il mento di Cirocco, la ferì leggermente. La lama del coltello era più fredda dei suoi occhi.
— Non capisco perché lo fai — disse lei.
Lui esitò. Il secondo coltello si stava muovendo in direzione del suo stomaco: si fermò appena fuori dalla sua visuale. Cirocco s’inumidì le labbra e sperò di vederlo riapparire di nuovo.
— Una domanda interessante. Ci ho pensato spesso. Ah, ma è inutile stare a spiegarti. Sei solo una donna.
— Provaci. — Il secondo coltello andò ad appoggiarsi, di piatto, sulla sua coscia. La fronte di Cirocco si imperlò di sudore. — Non c’è nessun bisogno che tu faccia così. Metti giù il coltello e ti darò tutto quello che vuoi.
— Ah ah. — Il coltello si mosse in su e in giù, come il dito ammonitore di una madre. — Non sono mica stupido. Lo so come fate voi donne.
— Te lo giuro. Non voglio che tu lo faccia così.
— Ma devo. Ho ucciso Gaby, e tu non me lo perdoneresti mai. Insomma, non è giusto. Voi state sempre a provocarci, dite sempre di no, e noi non dovremmo fare niente. — Ansimava, ma nel giro di pochi secondi tornò tranquillo. Cirocco trovava molto pericolosa quella tranquillità.
— Sto solo facendo un po’ di giustizia. Quanto tutti voi mi avete abbandonato al buio ho deciso di fare quello che mi andava. A Rea mi sono fatto degli amici, ma forse a te non piacerebbero molto. D’ora in poi il capitano sono io, come doveva essere fin dall’inizio. Dovrai obbedirmi. Adesso non fare stupidaggini.
Boccheggiò, mentre la punta della lama le lacerava i calzoni. Era preoccupata da quello che avrebbe potuto fare con quel coltello, e si chiese se sarebbe stato meglio essere stupida e morta o viva e mutilata. Ma una volta che le ebbe tolto i calzoni non usò più quel coltello. La sua attenzione tornò a quello che aveva puntato al mento.
Lui la penetrò. Lei girò la faccia e la punta del coltello la seguì. Le faceva molto male, ma non era importante ora. L’unica cosa importante era la mano di Gaby che si spostava lentamente verso l’accetta, il suo occhio aperto a metà, invaso da un furore terribile.
Cirocco guardò Gene e non trovò difficoltà nel parlargli con voce piena di paura.
— No, per favore, no! Non sono pronta. Mi ucciderai!
— Tu sei pronta quando lo dico io. — Alzò la testa, e Cirocco azzardò uno sguardo verso Gaby, che sembrava capisse. Il suo occhio, adesso era chiuso.
Era qualcosa di distante da lei. Lei non aveva corpo: era qualche altra che stava subendo quella violenza. Solo la punta del coltello poggiata sul suo mento significava qualcosa finché lui non si fosse stancato.
Ma quale prezzo avrebbe dovuto pagare se lui non fosse riuscito nel suo intento?
No, doveva aiutarlo. Attese il momento in cui sembrava essere più rilassato, poi cominciò a muoversi sotto di lui. Era la cosa più disgustosa che le fosse mai capitato di fare.
— Adesso sì vediamo le cose nello stesso modo — disse lui con un sorriso sognante.
— Non parlare, Gene.
— Così si fa. Vedi com’è tutto migliore se non ti opponi?
Era la sua immaginazione oppure la sua pelle non era più in stretto contatto con la punta del coltello? L’aveva forse tirato indietro? Si baloccò un attimo con quel pensiero, attenta a non attirare la sua attenzione, poi decise che era davvero così. Aveva ormai acquisito una sensibilità altissima. Quella leggerissima pressione che ora non avvertiva più la faceva sentire come se fosse stata liberata da un gran peso.
Doveva aspettare che chiudesse gli occhi. Ma non li chiudeva mai gli occhi quello?
Li chiuse e lei stava per scattare quando lui li riaprì di scatto. Mi sta mettendo alla prova, pensò, accidenti a lui. Ma non s’accorse di alcun inganno. Di solito come attrice faceva pena, ma la punta del coltello le dava l’ispirazione.
Lui inarcò la schiena. Chiuse ancora gli occhi. La pressione del coltello era svanita.
Cirocco lo colpì con una botta al braccio e girò la testa dall’altra parte; il coltello le sfregiò la guancia. Lo afferrò alla gola, per strozzarlo, ma lui riuscì a tirarsi indietro. Lei si contorse, scalciò, sentì il pugnale sfiorarle la spalla. Finalmente fu libera. Balzò via… ma non correva ancora. Per alcuni agonizzanti secondi i suoi piedi non toccarono il suolo e lei continuava ad aspettarsi di sentire il morso del coltello.
Ma non accadde e lei aveva tanta forza nelle dita dei piedi da fare un nuovo balzo e liberarsi definitivamente da lui. Si guardò al di sopra della spalla mentre era a mezz’aria e capì che il calcio che gli aveva dato era stato più forte di quanto si fosse immaginata. L’aveva quasi sollevato, e proprio in quell’istante lui stava piombando a terra. Anche Gaby era balzata. L’adrenalina riusciva solo a causare dolori ai muscoli terrestri indeboliti dalla bassa gravità.
Poi la caccia incominciò.
Gene si mise a correre dietro di lei, probabilmente senza sapere che aveva Gaby alle spalle. Se l’avesse vista, se avesse visto la sua espressione, non si sarebbe buttato così allo sbaraglio.
Si erano accampati sulla piazza centrale del castello, un’area piana che i costruttori non avevano mai suddiviso. Il fuoco era a venti metri dalla prima galleria di stanze. Cirocco stava ancora prendendo velocità quando colpì la prima parete. Non smise di correre. Ne abbatté una decina prima di aggrapparsi a una delle intelaiature d’angolo. Inarcò il corpo a novanta gradi e si proiettò verso l’alto, salendo di tre piani, prima di fermarsi a mezz’aria. Gene fracassò qualche parete, poi si fermò. Non aveva capito la sua manovra.
Cirocco mise i piedi su un’altra intelaiatura angolare e si proiettò di nuovo in alto. Salì con una lentezza incredibile, da sogno, avvolta in una nube di vetri. Si buttò sulla destra e attraversò tre pareti prima di fermarsi. Corse a sinistra, salì di un altro piano, poi volò su e giù per due piani. Si fermò ad ascoltare.
Lontano le giunse un tintinnio di vetri. Era buio. Si trovava al centro di un labirinto di stanze che correvano in ogni direzione: sopra, sotto, ai lati. Non sapeva più dov’era, ma non lo sapeva nemmeno Gene, ed era proprio questo che lei voleva.
Il rumore di vetri infranti diventò più forte. Vide Gene che saliva nella stanza alla sua sinistra. Corse verso destra e si tuffò in basso. Due piani più sotto, saltò su una struttura angolare e si proiettò ancora verso destra. Poi si immobilizzò.
Se non fosse stato per il rumore dei vetri, non avrebbe capito dove si trovava Gene. Adesso lui era più in basso di lei; ma il peso del suo corpo era troppo per un pavimento già colpito dai frammenti lanciati attorno dal passaggio di Cirocco. Il pavimento franò sotto i piedi di Gene, che precipitò in basso.
Cirocco si diede una spinta verso il basso. L’impatto dell’atterraggio fu fortissimo. Precipitò a corpo morto sul primo piano del castello. Confusa, girò la testa, e vide Gene che incombeva minaccioso su di lei. Poi dal buio spuntò l’accetta che colpì Gene alla testa. Cirocco svenne.
Si risvegliò all’improvviso, urlando. Non le era mai successo. Non sapeva dove si trovasse, ma era stata di nuovo nel ventre della bestia, e Gene era con lei, le spiegava perché voleva violentarla.
L’aveva violentata davvero. Smise di urlare.
Non era più nel castello di vetro. Alla sua vita era legata una corda.
Il terreno davanti a lei scendeva verso il basso. Molto sotto c’era la macchia argentea di Rea.
Gaby era seduta accanto a lei. Alla sua vita erano allacciate due corde. Una era legata allo stesso albero a cui era legata Cirocco. L’altra penzolava sull’abisso di tenebre. Le lacrime avevano scavato un solco nel sangue disseccato sulla sua faccia. Stava usando un coltello per tagliare una delle due corde.
— Quello è il sacco di Gene, Gaby?
— Sì. Non ne avrà più bisogno. Come stai?
— Non sono in perfetta forma. Tiralo su, Gaby.
Lei la fissò a bocca spalancata.
— Non voglio perdere la corda.
La faccia di Gene era una maschera di sangue. Un occhio era completamente chiuso, l’altro solo gonfio. Il naso era rotto, e aveva perso tre denti.
— È conciato male — disse Cirocco.
— Non come avrei voluto conciarlo io.
— Apri il suo sacco e bendagli l’orecchio. Perde ancora sangue.
Gaby stava per esplodere. Cirocco le lanciò un’occhiata dura.
— Non ho intenzione di ucciderlo, quindi levatelo dalla testa.
L’orecchio di Gene era rimasto tagliato dal colpo d’accetta di Gaby. Non era stata quella la sua intenzione: lei voleva aprirgli in due la testa, ma l’accetta aveva ruotato su se stessa per aria e lo aveva colpito lì, facendogli perdere i sensi. Gene brontolò mentre Gaby lo medicava.
Cirocco cominciò a frugare nel sacco di lui, scegliendo le cose che potevano essere utili. Tenne il cibo e le armi; tutto il resto lo gettò nel vuoto.
— Se non lo uccidiamo ci inseguirà, lo sai.
— Può darsi, e l’idea non mi va. Infilalo nel paracadute. Lo buttiamo giù.
Gli sistemarono addosso l’imbracatura. Lui gemette un poco e lei voltò la testa per non vedere cosa gli stava facendo Gaby.
— Credeva di avermi uccisa — disse Gaby mentre stringeva con forza gli ultimi nodi. — Voleva uccidermi, ma io ho girato la testa.
— Hai una brutta ferita?
— Non è molto profonda, ma continua a sanguinare. Sono svenuta. Per fortuna ero troppo debole per alzarmi subito dopo che… subito dopo che lui… — Si pulì il naso col dorso della mano. — Quando mi sono svegliata ho visto che era sopra di te.
— Sono felice che ti sia svegliata in quel momento. Ho fatto un gran casino con la mia fuga. Ma grazie a te che mi hai salvato il culo un’altra volta.
Gaby le lanciò uno sguardo torvo e Cirocco si pentì immediatamente dell’infelice scelta di parole. Sembrava che Gaby si sentisse personalmente responsabile di quanto era accaduto. Non doveva essere facile, pensò Cirocco, mantenere la calma mentre la persona che ami viene violentata.
— Perché non lo uccidi?
Cirocco guardò Gene, si sentì investire da una ondata di collera, ma cercò di controllarsi.
— Io… lo sai anche tu che prima non era così.
— Io non so niente. Sotto sotto, dev’essere sempre stato un maledetto maiale, se no non l’avrebbe fatto.
— Tutti noi lo siamo. Certi sentimenti li reprimiamo, ma lui non ci riusciva più. Mi ha parlato come un ragazzo triste, non rabbioso, solo triste perché le cose non vanno come vorrebbe lui. Gli è successo qualcosa dopo la distruzione della nave, esattamente come è successo a me. E a te.
— Ma noi non abbiamo tentato d’ammazzare qualcuno. Ascoltami, buttiamolo giù col paracadute, su questo sono d’accordo. Però, lascia che prima gli tagli le palle. — Alzò il coltello, ma Cirocco scosse la testa.
— No. Non mi è mai piaciuto molto, però si riusciva a vivere assieme. Era un buon navigatore, e adesso è pazzo, e… — Voleva dire che in parte era colpa sua, che Gene non sarebbe mai impazzito se lei non avesse permesso la distruzione della nave, ma non ci riuscì. — Gli offro una possibilità in nome di quello che era. Ha detto di avere amici, laggiù. Forse straparlava, ma forse è vero. Slegagli le mani.
Gaby lo slegò. Cirocco strinse i denti e diede un calcio al corpo di Gene. Lui cominciò a rotolare, e parve rendersi conto solo in quel momento della situazione. Urlò un attimo mentre il paracadute si apriva, poi svanì oltre la curvatura del cavo.
Loro due non videro nemmeno se il paracadute si era aperto davvero.
Restarono sedute lì per molto tempo. Cirocco aveva paura di parlare, perché sapeva che avrebbe potuto mettersi a piangere senza riuscire più a fermarsi, e non c’era tempo. C’erano ferite da medicare, e un viaggio da terminare.
La ferita alla testa di Gaby non era orribile. La disinfettò e fasciò alla meglio. Le sarebbe rimasta una cicatrice sulla fronte. Anche a Cirocco sarebbe rimasta qualche cicatrice: una sulla fronte per la caduta sul pavimento del castello, una tra il mento e l’orecchio sinistro, e un’altra sulla spalla. Fortunatamente, nessuna delle ferite era preoccupante.
Cirocco scrutò il lungo pezzo di cavo che dovevano ancora salire per arrivare al raggio.
— Penso che sia meglio tornare al castello e fermarci un paio di giorni per rimetterci in forze — disse.
— Certo — rispose Gaby. — Ma l’ultima parte del viaggio sarà più facile. Mentre riportavo giù voi due ho scoperto una scalinata.