17

Cornamusa si era assunto il ruolo di guida e di fonte d’informazione per gli umani. Aveva detto che aveva l’approvazione della madre anteriore e poi gli sembrava che quella sarebbe stata per lui un’ottima esperienza. I terrestri erano la cosa più eccitante che fosse capitata a Titantown da molti miriariv.

Quando Cirocco espresse il desiderio di vedere il posto dei venti fuori città, Cornamusa preparò tutto per una colazione all’aperto completa di due fiasche di vino. Calvin e Gaby si offrirono volontari per la gita, ma Agosto, com’era solita fare, rimase seduta a guardare fuori della finestra. Gene era introvabile. Cirocco dovette ricordare a Calvin che aveva promesso a Bill di fargli compagnia.

Bill le chiese di aspettare finché non fosse guarito, e lei fu obbligata a ricordargli che era ancora in convalescenza. Lei capiva che era una situazione delicata per lui, costretto a letto com’era, ma fu subito contenta quando capì che si sforzava di essere protettivo nei suoi riguardi.

— È una bella giornata per un picnic — cantò Cornamusa quando Cirocco e Gaby la raggiunsero poco fuori città. — Il terreno è asciutto. Potremo andare e tornare in quattro o cinque riv.

Cirocco s’inginocchiò per allacciare le stringhe dei morbidi mocassini di cuoio che i titanidi le avevano fatto, poi s’alzò e guardò la terra bruna dove si poteva vedere il cavo della parte centrale di Rea, là dov’era il posto dei venti.

— Non vorrei contrariarti — cantò — ma a me e alla mia amica ci vorrà almeno un decariv per arrivare laggiù, e altrettanto al ritorno. Abbiamo pensato di accamparci alla base e là dormire, o avere la falsa morte, come la chiamate voi.

Cornamusa scosse la criniera. — Non vorrei che lo faceste. La cosa mi spaventa. I vermi lo sanno che non devono mangiarvi?

Cirocco scoppiò a ridere. I titanidi non dormivano mai. Trovavano la cosa molto strana, come il camminare su due sole gambe.

— Be’, ci sarebbe un’alternativa. Ho esitato a parlarne per timore d’offenderti, ma sulla Terra abbiamo animali che vi somigliano, e spesso noi cavalchiamo sulla loro schiena.

— Sulla schiena? — disse Cornamusa, perplessa. — Vuoi dire… Oh, sì, capisco. Con una gamba da una parte e l’altra… Dài, prova a saltare su. Pensi che così funzionerà?

— Ci possiamo provare, se sei d’accordo. Stendi un braccio. No, giralo… ecco, così. Adesso ci appoggio il piede e poi… — S’appoggiò alla sua mano, le mise un braccio attorno alle spalle, si diede un colpo e le saltò sul dorso. Si sedette al centro della schiena dove aveva messo una leggera coperta. — Come va per te?

— M’accorgo a mala pena che tu sei lì. Come ti trovi così appollaiata?

— È quello che sto controllando. Penso che… — Lanciò un urlo all’improvviso. Cornamusa aveva girato completamente la testa per fissarla.

— Che ti succede?

— Niente. Noi non siamo così snodati. Mi riesce strano pensare che tu possa farlo. Ma non ci pensare. Girati e guarda dove stai andando, ma soprattutto parti piano.

— Che andatura preferisci?

— Come? Oh, non so, non ne so nulla di queste cose.

— Va bene. Partirò al trotto per arrivare lentamente a un galoppo moderato.

— Ti secca se ti abbraccio?

— Neanche un po’.

Cornamusa fece un largo giro aumentando gradualmente la velocità. Correvano da Gaby, che stava urlando e salutando. Quando Cornamusa ridusse la velocità fino a fermarsi respirava ancora quasi normalmente.

— Funziona, non credi? — chiese Cirocco.

— Direi proprio di sì. Adesso lasciami provare con tutte e due.

— Ma senti, non sarebbe meglio trovare qualcun altro per lei?


Nel giro di pochi minuti Cornamusa procurò due cuscini e un altro volontario. Questi era maschio, con la peluria color lavanda, la testa bianca e una lunga criniera.

— Hey, Rocky, ho trovato una cavalcatura migliore della tua.

— Dipende da cosa guardi. Gaby, ti presento… — e ne cantò il nome, poi lo tradusse e infine disse a Gaby — … chiamalo Flauto.

— Perché non Leo o George? — borbottò lei, poi gli strinse la mano e gli balzò lesta in sella.

Partirono subito, e per un po’ furono i titanidi a intonare le loro canzoni, cui le terrestri s’unirono cercando di fare del loro meglio; poi Cirocco e Gaby si produssero in una serie di cori. I titanidi ne furono deliziati: non sapevano che i terrestri creassero canzoni.

Cirocco aveva partecipato a un viaggio in zattera lungo il fiume Colorado, e ne aveva fatto un altro nell’Ofione a bordo di un vero guscio di noce. Aveva sorvolato il polo sud e attraversato gli Stati Uniti con un biplano. Aveva viaggiato in bicicletta e col gatto delle nevi, in funicolare e sui treni gravitazionali e aveva persino fatto un breve trasferimento a dorso di cammello. Ma niente di tutto quello poteva uguagliare il fatto di cavalcare un titanide sotto la volta di Gea, in quel lungo pomeriggio proiettato per sempre verso un indefinito tramonto. Di fronte a lei saliva dal terreno una scalinata per il paradiso che scompariva nel buio.

Buttò la testa all’indietro e si mise a cantare.

— È lunga la strada per Tipperary…


Il posto dei venti era roccia dura e terra stravolta.

Crinali simili a nocche contratte artigliavano il terreno buono, e fra loro si aprivano baratri profondi. Più avanti, i crinali diventavano dita che stringevano la terra e la piegavano come fosse un foglio di carta. Le dita si univano poi in una mano corrosa dagli elementi, e dietro la mano c’era un lungo braccio irregolare che usciva dalla notte.

L’aria non era mai calma. Soffi improvvisi da ogni direzione facevano turbinare ai loro piedi mulinelli di sabbia.

Poi udirono l’ululato: era un suono cupo, sgradevole, che però non possedeva la tristezza terribile del Lamento di Gea, il vento fortissimo che spirava da Oceano.

Cornamusa aveva già dato loro qualche idea di cosa li aspettava. I crinali che stavano superando erano costituiti da trefoli di cavo che emergevano dal suolo con un’angolazione di trenta gradi: non si capiva subito cos’erano perché erano coperti di terra. Il vento aveva eroso il terreno, creando canali che correvano in varie direzioni tutte orientate verso la fonte del suono.

Presero a superare buchi nel terreno, alcuni con un diametro di mezzo metro soltanto, altri abbastanza larghi da ingoiare un titanide. Ogni buco emetteva una nota diversa da quella degli altri: note non armoniche, che ricordavano gli esperimenti musicali più tetri di fine secolo. Dietro quei suoni si sentiva una nota d’organo continua.

I titanidi s’incamminarono sull’ultimo, lungo crinale. Lì il terreno era duro, roccioso; il crinale era stretto, e ai lati si aprivano baratri ampi, profondi. Cirocco sperò che i loro due accompagnatori sapessero quando era il momento di fermarsi. Già il vento le faceva piangere gli occhi.

— Questo è il posto dei venti — cantò Cornamusa. — Non osiamo avanzare oltre, poiché i venti sono talmente forti da trascinarci via. Però se scendete lungo i fianchi del pendio potete vedere il Grande Ululante. Volete che vi portiamo noi?

— Grazie, andiamo a piedi.

Cirocco e Gaby smontarono. I titanidi s’incamminarono, un po’ incerti, giù per i fianchi del crinale, proseguendo in direzione est. Seguendoli, si accorsero che il vento e il rumore diventavano sempre più forti.

— Se va avanti così — urlò Cirocco — diventiamo sorde!

Ma quando raggiunsero il punto in cui i titanidi si erano fermati, videro che non potevano proseguire.

C’erano sette buchi, ognuno sul fondo di burroni alti e ripidi. Sei buchi avevano un diametro da cinquanta a duecento metri. Il Grande Ululante avrebbe potuto ingoiarli tutti assieme.

Cirocco valutò che fosse profondo un chilometro e largo mezzo nel punto di maggiore ampiezza. L’apertura ovale si trovava in mezzo a due trefoli di cavo che si incrociavano, formando una grande V. Al loro punto d’incontro si spalancava il buco.

Le pareti interne erano così lisce da riflettere la luce del giorno, come speculi distorti. Erano state lisciate da migliaia d’anni di impatto col vento e con la sabbia abrasiva trasportata dal vento. Il colore della pietra era nero, con sfumature perlacee.

Cornamusa cantò qualcosa all’orecchio di Cirocco.

— Cos’ha detto? — volle sapere Gaby.

— Dice che chiamano questo posto l’inguine di Gea — urlò.

— Giusto. Ci troviamo su una delle sue gambe.

— Forse è questo il perché.

Tornarono in cima al crinale, dove il rumore era meno forte. Chissà cosa ne pensavano i titanidi di quel posto, così vicino alla loro città. Cirocco si guardò attorno. Se la base del cavo era la mano gigantesca che avevano visto prima, erano arrivati fino alla seconda nocca di un dito. Il Grande Ululante si trovava nell’insenatura fra due dita.

— C’è un’altra via per salire? — cantò Cirocco. — Una via per raggiungere la grande pianura lassù in alto senza essere risucchiati da Gea?

Flauto, che era un po’ più anziano di Cornamusa, annuì.

— Sì, molte. Quello è il buco più grande: è la madre di tutti i buchi. Seguendo uno di questi crinali si raggiunge l’altopiano.

— E allora perché non mi ci avete portata?

Cornamusa parve sorpresa. — Hai detto che volevi vedere il posto dei venti, non salire a incontrare Gea.

— Mi sono spiegata male. Ma qual è la via migliore per arrivare in cima?

— Fino in cima? — cantò Cornamusa, spalancando gli occhi. — Ma io scherzavo. Non vorrai salire lassù?

— Voglio provare.

Cornamusa indicò il primo crinale a sud. Non sembrava più difficile da superare di quello su cui si trovavano. I titanidi avevano impiegato un’ora e mezzo, per cui lei pensava di farcela in sette o otto ore. Altre sei ore di terreno in salita per raggiungere l’altopiano, e poi…

Visto da lì, il cavo inclinato era una montagna enorme. Si alzava nel cielo per cinquanta chilometri circa, fino a scomparire nel buio. Per i primi tre chilometri non cresceva niente; c’era solo terriccio scuro e roccia. Poi, qualche altro chilometro di alberi contorti, privi di foglie. Più in alto, la resistentissima vegetazione di Gea si era abbarbicata al cavo, che verdeggiava per tutto il resto della sua lunghezza. Impossibile capire se si trattasse di erba o di alberi.

Il verde arrivava fino alla zona di tramonto di Rea. Il passaggio dalla luce al buio era graduale; dal verde al bronzo, all’oro scuro e al rosso cupo, per finire col colore di una coltre di nubi che oscurassero la luna. Il cavo diventava completamente invisibile, raggiungeva le tenebre della volta e spariva nell’apertura del raggio. Si riusciva a distinguere il raggio che si restringeva gradualmente, ma gli altri particolari si perdevano nel buio.

— Si può fare — disse a Gaby. — Per lo meno possiamo arrivare fino alla volta. Speravo che qui, alla base del cavo, ci fosse un ascensore meccanico, o qualcosa del genere. E forse c’è davvero, ma dovremmo impiegare mesi per trovarlo. — E agitò la mano a indicare tutto quel terreno corrugato.

Gaby studiò il cavo inclinato, sospirò e scosse la testa.

— Io vado dove vai tu, però è una follia. Non arriveremo mai oltre la volta. Dài un’occhiata. Da lì in su, dovremmo risalire un’inclinazione di quarantacinque gradi.

— I rocciatori non fanno altro. E una cosa del genere l’abbiamo fatta anche noi, quando ci preparavamo a partire con Ringmaster.

— Sì. Per dieci metri. Qui si tratta di cinquanta o sessanta chilometri. E per finire ti do la notizia migliore: più avanti dobbiamo salire in verticale. Per quattrocento chilometri.

— Non sarà facile, ma dobbiamo tentare.

Madre de Dios! - Gaby si colpì la fronte col dorso della mano e roteò gli occhi.

Cornamusa aveva seguito con attenzione ogni gesto di Cirocco.

— Salirai la grande scalinata? — cantò.

— Lo devo.

Cornamusa annuì, poi si chinò a baciare la fronte di Cirocco.

— Vorrei che la piantaste — disse lei, in inglese.

— Perché ha fatto così? — chiese Gaby.

— Non ti preoccupare. Andiamo.


Lasciato il posto dei venti, si fermarono a mangiare. Il cibo era caldo, custodito in termos vegetali. Gaby e Cirocco mangiarono solo un decimo delle provviste; i due titanidi divorarono tutto il resto.

A cinque chilometri da Titantown, Cornamusa girò la testa, con un’espressione di tensione e di tristezza insieme. Guardò la volta buia.

— Gea respira — cantò, depressa.

— Cosa? Sei sicura? Credevo che il suo respiro fosse rumoroso e che si facesse in tempo a… Vuoi dire che arriveranno gli angeli?

— È rumoroso da ovest — precisò Cornamusa. — Da est il respiro di Gea è silenzioso. Mi sembra di sentirli. — Incespicò, e per poco Cirocco non volò a terra.

— Allora sbrighiamoci, maledizione! Se vi trovano qui non avete possibilità di salvezza!

— È troppo tardi — cantò Cornamusa, e già la sua faccia si deformava in una smorfia di odio.

— Muovetevi! — Cirocco lo cantò con tale autorità che i due titanidi si misero a galoppare l’uno vicino all’altro.

Dopo un po’ anche lei sentì il gemito degli angeli. Cornamusa era irrequieta, voleva correre alla battaglia.

Si stavano avvicinando a un albero isolato. Cirocco prese una decisione.

— Fermatevi. Non abbiamo molto tempo.

Si fermarono sotto le fronde. Cirocco saltò a terra. Cornamusa tentò di correre via. Cirocco la calmò momentaneamente con uno schiaffo in faccia.

— Gaby, leva quelle bisacce. Flauto, fermo! Torna qui!

Indeciso, Flauto tornò indietro. Cirocco e Gaby si misero freneticamente a tagliare a pezzi i vestiti, fabbricando corde robuste.

— Amici miei — cantò Cirocco — non ho tempo di spiegare. Vi chiedo di avere fiducia in me e di fare quello che vi dico. — La forza di convinzione che mise nel canto funzionò, almeno un poco, anche se i due titanidi continuavano a guardare verso est, irrequieti.

Li fece sdraiare sui fianchi.

— Fa male — si lamentò Cornamusa quando Cirocco le legò le zampe posteriori.

— Scusami. È per il tuo bene. — Le legò anche le zampe anteriori e le braccia, poi lanciò a Gaby una fiaschetta di vino. — Fagliene bere più che puoi. Devono essere tanto ubriachi da non riuscire a stare in piedi.

— Okay.

— Figlia mia, voglio che tu beva — cantò. — Anche tu. Bevetene molto. — Incollò la fiaschetta alla bocca di Cornamusa. Adesso il gemito degli angeli era più vicino. Le orecchie dei titanidi si alzavano e si abbassavano freneticamente.

— Cotone, cotone — mormorò Cirocco. Strappò un po’ di stoffa dalla tunica già lacera, l’arrotolò e l’infilò nelle orecchie di Cornamusa. — Ha funzionato per Ulisse, speriamo che funzioni anche per noi. Gaby, tappagli le orecchie.

— Fa male! — cantò Cornamusa. — Fammi alzare, Mostro-della-Terra. Questo gioco non mi piace. — Cominciò a mugolare ma solo di tanto in tanto le note che emetteva si trasformavano in suoni d’odio.

— Ancora un po’ di vino — ordinò Cirocco, e la costrinse a bere. Adesso il richiamo degli angeli era fortissimo. Cornamusa cominciò a gridare per rispondere a quel richiamo. Cirocco afferrò le grandi orecchie del titanide, si mise la sua testa in grembo, si chinò su di lei e le cantò una ninnananna.

— Rocky, aiuto! — urlò Gaby. — Non conosco quelle canzoni. Canta più forte!

Con un colpo improvviso delle mani legate, Flauto spinse via Gaby.

— Prendilo! Non lasciartelo scappare!

— Ci provo. — Gaby gli corse dietro, cercò di fermarlo, ma il titanide era troppo forte. La colpì ancora, facendola rotolare a terra; poi si mise a mordere la corda che gli stringeva i polsi, e si liberò quasi subito.

— Rocky, cosa faccio? — urlò Gaby, disperata.

— Vieni qui a darmi una mano. Se provi ancora a fermarlo, quello ti ammazza. — Ormai era troppo tardi per fermare Flauto.

Quando si fu sciolto completamente dalle corde, partì alla carica verso Titantown, senza nemmeno voltarsi a guardarle. Scomparve dietro la cresta di una collina.

Gaby non parve rendersi conto che stava piangendo quando s’inginocchiò a fianco di Cirocco, né fece nulla per detergersi il sangue che le rigava il volto dove l’aveva colpita Flauto.

— Cosa posso fare?

— Non lo so. Toccala, accarezzala, fai tutto quello che ti passa per la mente e che possa servire a distogliere la sua mente dagli angeli.

Cornamusa si stava agitando, i denti serrati, il viso esangue. Cirocco le si appressò il più possibile, osando, mentre Gaby le legava strettamente le braccia dietro la schiena.

— Calma, calma — mormorava Cirocco. — Non c’è nulla da temere. Resterò qui con te finché tornerà la tua madre posteriore. Ti canterò le sue canzoni.

Gradualmente Cornamusa si quietò, nei suoi occhi tornò l’intelligenza che Cirocco vi aveva visto la prima volta che si erano incontrate. Era infinitamente meglio dell’animale impaurito di poco prima.

Dieci minuti dopo, scomparve anche l’ultimo angelo.

Cornamusa era madida di sudore come uno che si fosse iniettato eroina e in più si fosse anche riempito d’alcol.

Cominciò a ridacchiare mentre loro controllavano che gli angeli non tornassero. Cirocco gli si sdraiò a fianco, col viso vicino, tenendole abbracciata la testa e fu subito in allarme quando il titanide cominciò a muoversi. Ma non stava tentando di liberarsi dai legacci come aveva fatto poco prima. Era un movimento scopertamente sessuale. Diede un umido bacio a Cirocco.

— Vorrei essere un ragazzo — mormorò con voce impastata, da ubriaco. Cirocco guardò in giù.

— Gesù — mormorò Gaby. Il grosso pene del titanide era scivolato fuori dalla sua guaina e l’estremità pulsava contro la sabbia.

— Potrai essere anche una ragazza per te — cantò Cirocco — ma sei troppo come ragazzo per me.

Cornamusa trovò la cosa divertente. Grugnì e cercò ancora di baciare Cirocco ma non se la prese troppo quando Cirocco si tirò indietro.

— Ti farei troppo male — gorgogliò. — Ma questo è per le aperture posteriori, e tu non ne hai. Vorrei essere un maschio e avere un membro adatto a te.

Cirocco sorrise e l’ascoltò vaneggiare, ma i suoi occhi non sorridevano. Al di sopra della spalla di Cornamusa teneva d’occhio Gaby.

— Gaby — disse Cirocco, in inglese — se cercasse di liberarsi quando gli angeli tornano, prendi quel sasso e dalle un colpo in testa. Se scappa, è morta.

— Capito. Di cosa stavate parlando?

— Voleva fare all’amore con me.

— Con quel coso? Farei meglio a dargliela subito la botta.

— Non essere sciocca. Non corriamo rischi con lei. Se si liberasse, non ci vedrebbe neanche. Li senti? Stanno tornando.

— Li sento.

Ma quando gli angeli tornarono, fu tutto più facile. Le tapparono le orecchie, e lei non si agitò molto. Poi gli angeli scomparvero nel buio eterno del raggio alto sopra Rea.


Cornamusa si mise a piangere, quando la liberarono: il pianto a singhiozzi, disperato, di un bambino che non capisce cosa gli sia successo. Poi cominciò a lamentarsi che le facevano male le zampe e le orecchie. Cirocco le massagiò come poté.

Pareva non sapere bene cosa avesse fatto Flauto, ma non si mostrò rattristata quando le dissero che era corso in battaglia. Si mise a baciarle, a stringersi amorevolmente contro di loro, il che preoccupò un po’ Gaby. Cirocco dovette spiegarle che fra i titanidi i rapporti sessuali anteriori e posteriori erano due cose distinte. Gli organi frontali servivano a produrre uova semi-fertilizzate, che poi venivano trapiantate manualmente nella vagina posteriore e portate a piena fecondità dal pene posteriore.

Cornamusa era troppo ubriaca per riuscire a reggere Gaby e Cirocco. Furono loro a guidarla verso la città. Dopo un paio d’ore montarono in sella tutte e due.

Quando trovarono Flauto, Titantown era già in vista.

Il sangue era asciutto sul suo pelo blu. Una lancia gli usciva dal fianco, puntando dritto verso il cielo. Lo avevano mutilato.

Cornamusa s’inginocchiò accanto a lui e pianse, mentre Cirocco e Gaby smontavano e le si ponevano a fianco. Cirocco si sentiva la bocca amara. Era possibile che Cornamusa nutrisse rancore nei loro confronti? Avrebbe preferito morire con Flauto, o era solo un’idea tipica dei terrestri? I titanidi non provavano l’ebbrezza della battaglia; combattevano perché spinti da un istinto irresistibile. Cirocco li ammirava per la prima qualità, ma li compiangeva per la seconda.

Doveva gioire per chi aveva salvato o piangere per chi era caduto? Non poteva fare tutt’e due le cose, così pianse.

Cornamusa si rialzò, sembrava più affaticata di prima. E ha solo tre anni, pensò Cirocco. Ma non voleva dire nulla. Aveva l’innocenza di un umano della stessa età, ma per un titanide era già adulta.

Raccolse la testa tagliata di Flauto, la baciò, poi l’adagiò accanto al corpo. Non cantò niente. I titanidi non avevano canti per quei momenti.

Gaby e Cirocco le montarono in groppa. Cornamusa si avviò al trotto verso Titantown.

— Domani — disse Cirocco. — Partiamo per il mozzo, domani.

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