CAPITOLO 5


Potevo provare ad azionare le gambe metalliche, naturalmente. E provai. Era così buio, adesso che la luce irradiata dal pozzo d’entrata e dal telone era ridotta a un remoto barlume, che forse l’uomo non si accorse neppure di quel che stavo facendo. Se fosse stato aggrappato ad una delle gambe, sarebbe rimasto sconcertato, quando io la facevo rientrare, e magari si sarebbe preso una grossa botta quando la facevo estroflettere di nuovo: ma a quanto pareva non accadeva niente del genere. Azionai parecchie volte tutte le gambe senza ottenere il minimo cambiamento nel ritmo dei rumori.

Provai a spostare il mio peso, per far rotolare la capsula. Funzionò, ma al mio passeggero la cosa non diede alcun fastidio. Era logico. Un sommozzatore non sta a badare molto se si trova a testa in su o a testa in giù, e il passeggero clandestino di un mezzo subacqueo, nell’oscurità più totale, se ne preoccupa meno ancora. L’unico ad esserne infastidito ero io.

Ma perché quell’uomo era ancora vivo, cosciente e attivo? Ormai la capsula era risalita per più di trecento metri, attraverso una differenza di pressione che sarebbe stata sufficiente a fargli scoppiare la tuta, se era davvero ermetica come pensavo io. Se invece non lo era, e se lui stava facendo uscire il gas per tenere normale il volume dei suoi polmoni, si sarebbe trovato nei guai al momento di ridiscendere; e comunque, indipendentemente dai problemi di volume, e dal fatto che lui respirasse elio o chissà cosa, ormai avrebbe dovuto essere fuori uso a causa dell’embolia.

Ma la triste verità, invece, era che quello andava ancora forte, e io non avevo alcuna possibilità di liberarmene.

I genii del Consiglio d’Amministrazione che avevano preparato la missione non avevano previsto una situazione del genere. Non c’era dubbio che presto sarebbe comparso un sommergibile per catturarmi… non c’era altra spiegazione logica, tenendo conto del fatto che quell’individuo aveva deciso di restarmi cucito addosso. C’erano sempre le eventualità illogiche da prendere in considerazione, naturalmente: forse quello aveva deciso di sacrificarsi perché io non potessi risalire alla superficie. Ma anche quella possibilità comportava la comparsa di qualcosa. Magari un siluro. Personalmente, dubitavo molto dell’idea del sacrificio. Molta gente è capace di sacrificarsi per una causa che considera importante, ma non ho mai incontrato un violatore delle leggi che si comportasse in quel modo. E soprattutto, non ho mai visto uno sprecatore di energia capace di tanto: per quegli individui, la parola d’ordine è egoismo.

Ma lascia perdere la psicologia: che cosa si può fare? Forse quel tipo è un cadavere che si muove, ma resta il fatto che continua a lanciare il suo segnale. Perché non sono sceso con un sommergibile da lavoro? Niente, salta questa domanda: è uno spreco di tempo e di pensiero. Come posso staccarmelo di dosso, o almeno come posso impedirgli di far rumore?

Una domanda formulata male. Non posso fargli niente. Lui è fuori, io sono dentro, e data la differenza di pressione non possiamo incontrarci. Allora, come posso persuaderlo a mollare la presa o a smettere? Se non comincio a comunicare, non posso neppure convincerlo. È ovvio.

Accesi le luci, esterne e interne. Questo, almeno, attirò l’attenzione dell’uomo: smise di battere per un momento. Poi riprese, ma meno regolarmente, e lo intravvidi, mentre si spostava in modo da poter guardare all’interno attraverso uno degli oblò. Mi scostai, in modo che potesse vedermi chiaramente, e per qualche secondo restammo a guardarci. I colpi cessarono di nuovo.

Era l’uomo che aveva scoperto la capsula. Non sono un lettore del pensiero: ma dalla sua espressione compresi che solo in quel momento s’era reso conto che dentro c’era qualcuno, e che quella rivelazione lo sorprendeva e lo turbava. Riprese a battere, con un ritmo molto più irregolare. Dopo qualche secondo intuii che stava trasmettendo in una sorta di codice, sebbene non riuscissi a decifrarlo.

Tentai di fargli capire a gesti che quel baccano mi torturava le orecchie, ma lui si limitò a scrollare le spalle. Anche ammesso che il mio benessere gli stesse a cuore, non doveva avere un ordine di priorità molto elevato. Alla fine, terminò di trasmettere il suo messaggio in codice e riprese a battere regolarmente. Non sembrava infuriato: non faceva smorfie, non agitava i pugni nella mia direzione, non faceva niente del genere: ma non aveva neppure l’aria di considerarmi un vecchio amico perduto e ritrovato. Vedevo la sua faccia chiaramente, senza distorsioni, attraverso il casco: ma la sua espressione non tradiva un autentico interesse. Impiegai un po’ di tempo nel tentativo di indurlo a rispondere ai miei gesti e, quando vidi che non mi badava, pensai di scrivere un biglietto e di mostrarglielo attraverso l’oblò, anche se non sapevo quali lingue poteva conoscere. Riuscii a trovare qualche pezzo di carta in una delle mie tasche; ma non scovai niente con cui scrivere, e dovetti rinunciare all’idea. Alla fine desistetti e spensi di nuovo le luci. Era inutile aiutarlo a guidare fino a noi il sommergibile.

Non riuscivo a pensare ad un piano più pratico, e tornai a domandarmi come facesse a sopravvivere quell’uomo. Durante il periodo in cui erano rimaste accese le luci eravamo risaliti di parecchie altre decine di metri, e dalla sua muta non era sfuggita neppure una bolla. Cominciavo a chiedermi se era veramente una tuta a pressione ambiente. Era difficile capire come mai una sostanza tanto sottile, e soprattutto tanto flessibile, potesse costituire una corazza antipressione: d’altra parte, le strane caratteristiche del telone indicavano che erano stati fatti molti progressi nel campo dell’architettura molecolare. Non ero in grado di affermare che un’armatura del genere era impossibile: ma avrei voluto almeno avere una vaga idea di com’era fatta.

Adesso, naturalmente, a ripensarci mi sento un po’ sciocco. L’uomo era in piena vista, a poche spanne da me, ed era rimasto così per cinque minuti buoni, e mi era sfuggito il fattore-chiave… non in quello che vedevo, ma in qualcosa che non vedevo. Se non altro, non sono il solo a sbagliare così.

Quello continuava a battere. Il rumore non era in verità abbastanza forte da diventare doloroso, ma mi dava fastidio, un po’ come la tortura cinese della goccia d’acqua. Forse era fastidioso anche per l’uomo che stava la fuori, e mi consolai un po’ pensando che, oltre tutto, gli costava fatica. Mi consolò ancora di più l’idea che, sebbene insistesse da un pezzo, l’aiuto che stava invocando non era ancora arrivato.

Seicento metri: non avevo ancora coperto metà della distanza che mi separava dalla superficie, sebbene per il mio passeggero clandestino fosse un cambiamento di pressione insopportabile. Non mi tranquillizzava molto sapere che avevo lasciato tant’acqua sotto di me: neppure il doppio sarebbe stato sufficiente. Non c’era una squadriglia della polizia pronta a raccogliermi: non c’era neanche una scialuppa. La capsula aveva soltanto le normali emittenti automatiche per chiedere aiuto; non sarebbero entrate in funzione se non quando fossi arrivato alla superficie… ed era improbabile che ci arrivassi. Quasi sicuramente c’era un mezzo del Consiglio a poche miglia di distanza, poiché il piano non prevedeva che io navigassi nella capsula aperta fino all’Isola di Pasqua, dopo essere affiorato alla superficie: ma non mi sarebbe stato di utilità immediata. La tempesta probabilmente stava infuriando ancora, e quelli non sarebbero riuciti a vedermi neppure a cinquanta metri di distanza. E se anche mi avessero visto, quasi certamente non avrebbero potuto far niente, a meno che avessero a bordo l’attrezzatura specializzata da recupero, il che non mi pareva molto verosimile. Anche una piccola tempesta oceanica è un affar serio, e non è facile ripescare una capsula a pressione che galleggia sulle acque sconvolte.

Tuttavia, quel pensiero aveva anche un aspetto incoraggiante. Se fossi arrivato alla superficie, sarebbe stato un problema per qualunque sommergibile abbrancare la capsula. Allora la mia emittente sarebbe entrata in funzione e forse… forse, se avesse attirato nei dintorni una nave del Consiglio, gli inseguitori avrebbero preferito non farsi vedere. D’altra parte, era almeno altrettanto verosimile che quelli fossero disposti a fare di tutto per impadronirsi di me, alla faccia degli eventuali testimoni, dopo quello che avevo visto laggiù. Ma era meglio aggrapparmi all’altra speranza: mi era di maggior conforto. Poiché sono un essere umano civile, solo in seguito mi venne in mente la possibilità che, se non fossero riusciti a catturarmi, avrebbero potuto aprire un bel buco nella capsula e lasciarmi affondare.

Forse ce l’avrei fatta. I minuti continuavano a trascorrere. Ognuno sembrava impiegarci un anno: ma passavano. Ognuno mi portava circa sessanta metri più vicino alle ondate tempestose, se c’erano ancora. Non mi ero preso il disturbo di controllare le previsioni meteorologiche, oltre al momento in cui era stata fissata la mia immersione, ed ero rimasto sul fondo diverse ore. Non sono affatto impervio al mal di mare, ma mi auguravo che il moto ondoso fosse ancora abbastanza vivace da farmelo venire, questa volta. Forse sarebbe riuscito anche a costringere il mio amico, là fuori, a mollare l’appiglio cui stava aggrappato. Ecco, potevo sperare anche in questo.

Ma prima doveva arrivarci, a quelle onde, e mancavano ancora ottocento metri. E quello continuava a battere. Se fossi stato in qualunque altro posto, avrei preferito ormai la goccia d’acqua della tortura cinese, ma non era il luogo più adatto per augurarsi sgocciolii. Cercai di non ascoltare il rumore, rivolgendo l’attenzione ad altre cose, per esempio l’indicatore di pressione (l’ago ondeggiava leggermente, forse per il moto ondoso alla superficie) o il problema del cibo. Se lassù c’era ancora in corso una mareggiata, avrei fatto meglio a non mangiar niente.

Continuavo a spostarmi da un oblò all’altro, nel tentativo frenetico ma vano di individuare il sommergibile che senza dubbio si stava avvicinando: ma il mio passeggero lo vide prima di me.



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