CAPITOLO 16


Per la prima volta, mi trovai in una galleria chiaramente ripida: il peso della cintura zavorrata mi permise di accertarlo senza alcun dubbio, quando ci pensai sopra. Eravamo diretti verso il basso, con un’inclinazione di sessanta gradi. Le lampade della galleria, che costituivano le uniche caratteristiche spiccate delle pareti, mi passavano accanto molto velocemente, il che dimostrava che il nostro movimento era facilitato dalle pompe: c’era una netta corrente in discesa. Mi chiesi se al ritorno avremmo dovuto risalire nuotando controcorrente, e pensai che sarebbe stato impossibile. Se non avessero invertito la corrente, avremmo dovuto usare un’altra galleria.

Non notai alcun cambiamento di temperatura, benché sapessi che stavamo andando a visitare un congegno a calore. Forse costoro avevano scrupoli morali, circa lo spreco d’energia, quando si trattava delle perdite che sottraevano efficienza ad una macchina, anche se poi si comportavano in modo riprovevole per il resto.

Non riuscii a calcolare la lunghezza della discesa, prima di arrivare alla sala comando. Certamente era di parecchie decine di metri, probabilmente centinaia, forse addirittura un miglio. In seguito vidi le carte topografiche, ma le idee strane in fatto di scala che gli esecutori avevano adottato mi confondono le idee ancora oggi. Certamente, la profondità era tale da costituire un ostacolo insuperabile per ogni difesa basata sulla forza bruta, con la pressione usata come corazza.

La sala era così grande che era difficile scorgerne l’estremità più remota. Il liquido, come forse ho dimenticato di riferire, spandeva un po’ la luce, e conferiva un aspetto nebuloso agli oggetti che si trovavano oltre i cinquanta metri.

Comunque, come sala comandi era fin troppo convenzionale. Lungo le pareti c’era una serie di cavi che persino io potei riconoscere: erano una rete di distribuzione. Più sotto c’era un’altra serie, più difficile da riconoscere ma dall’orientamento spiccatamente verticale, e io sospettai che indicasse i circuiti del fluido attivo tra la sottostante sorgente di calore ed i convertitori in alto. Una macchina a calore, di qualunque tipo sia, funziona in base alla termodinamica elementare, e i suoi diagrammi finiscono inevitabilmente per somigliare a quelli di altri impianti simili, sia che si tratti di una turbina a vapore che di una termocoppia.

Lungo i cavi di entrambi i diagrammi c’erano indicatori, quasi tutti del solito tipo con quadrante ad ago, interruttori e reostati. Non c’era niente di enigmatico: era un comando d’una centrale elettrica, e tale appariva a prima vista. Con un po’ di fortuna e di competenza, era possibile impararlo a memoria in un paio di mesi.

Trenta o quaranta sommozzatori, con mute e caschi come noi, fluttuavano a poca distanza dalla parete, e le dedicavano tutta la loro attenzione. Questo era abbastanza soprendente. Mi sarei aspettato un numero minore di operatori, con un quadro di quelle dimensioni. Se erano tutti indispensabili per i comandi manuali, era un punto a discredito del livello generale della competenza tecnica, come la fibbia tagliente. Mi auguravo che la scarsa coordinazione da parte loro producesse soltanto seccature, non catastrofi. Senza dubbio, c’erano interruttori di sicurezza nella rete della distribuzione d’energia elettrica, e scolmatori d’emergenza, qua e là: ma anche così, quella folla di operatori conferiva al quadro generale una certa aria primitiva. Osservai pensieroso la scena. Quelli che ci avevano accompagnati guardavano con lo stesso interesse che provavo io: ebbi l’impressione che anche loro non fossero mai venuti lì prima. Bene, era possibile. Difficilmente l’intera popolazione poteva essere formata da ingegneri elettrotecnici.

Tuttavia, questo rendeva più fitto il mistero, perché sapevo che non lo era neppure Bert. Aveva una preparazione generica in fatto d’ingegneria, come me, quella che è necessaria per poter identificare gli sprechi di energia. Perché mai avrebbe dovuto godere di una qualche autorità, laggiù?

Bert si voltò e rivolse alcuni gesti alla nostra scorta. Poi mi scrisse un messaggio.

«Non avvicinarti troppo: potresti distrarre questa gente. Più della metà sono apprendisti.» Questo faceva apparire la situazione in una luce un po’ migliore.

«Prendete molto sul serio l’istruzione, qui,» risposi io.

«Puoi star certo. E presto capirai il perché. Vattene pure in giro quanto vuoi, e guarda quello che ti interessa… ne sai abbastanza, tu, e non sarò costretto a tenerti d’occhio come gli altri. Ma non metterti davanti agli operatori.»

Annuii. Per mezz’ora feci proprio ciò che mi aveva detto Bert, esaminando l’intero quadro con la massima meticolosità. La sistemazione mi appariva sempre più logica, con il passare del tempo. Una ragione sorprendente per questa sensazione era che i quadranti e le manopole dei comandi erano contrassegnati da numeri normalissimi. E questo non me l’ero aspettato, dopo aver visto che cosa usavano lì al posto della scrittura.

I numeri erano soli, purtroppo; non erano indicate cose come i volt o i megabar. Nonostante questo, la posizione di ogni strumento sul diagramma che formava il quadro, di solito lasciava intuire abbastanza chiaramente la sua funzione. In meno di un’ora, mi convinsi di aver compreso piuttosto bene l’intero sistema.

Dieci pozzi portavano fino agli assorbitori di calore, alla sorgente… presumibilmente una sacca di magma. I dettagli degli assorbitori non risultavano evidenti dal quadro, ma conoscevo abbastanza le installazioni vulcaniche per poterli immaginare. Una volta, avevo effettuato un’inchiesta sugli sprechi a Giava. Il fluido operante, là, era acqua; l’impianto che faceva entrare l’acqua marina e la dissalava, le unità elettrolitiche che estraevano metalli alcalini dai sali recuperati, e gli alimentatori ad iniezione di ioni apparivano perfettamente evidenti nel quadro.

Anche i convertitori erano dieci, ma confluivano tutti in un condensatore comune, che sembrava raffreddato dall’acqua marina esterna. Non serviva come preriscaldatore per il distillatore, e questo mi sembrava uno spreco. Poiché sui contatori mancavano le unità, non potevo sapere con certezza quanta potenza netta sviluppasse, ma sembrava ovvio che fosse nell’ordine di vari megawatt.

Non avevo notato il suono di cui aveva parlato Bert, forse grazie alla muta. Decisi di correre il rischio, e allentai leggermente uno dei polsini, tra la manica e il guanto. Il suono c’era veramente, un rombo pesante, come di un’immane canna d’organo, e senza dubbio dovuto ad un’identica causa fisica. Non era doloroso, ma mi rendevo conto che sarebbe stato imprudente togliere la muta protettiva. Mi chiesi se eravamo veramente molto vicini ai condotti del vapore, che dovevano essere la fonte del rombo. E soprattutto, mi chiesi come veniva provveduto alla manutenzione, ma per il momento dovetti rinunciare ai particolari.

Quelli che erano arrivati con Bert e con me erano rimasti più lontani dal quadro, presumibilmente perché l’aveva ordinato lui. Per un po’ stettero a guardare quel che succedeva, ma poi cominciarono a parlare tra di loro, a giudicare dai movimenti delle mani. La scena mi ricordava degli scolaretti che hanno perso l’interesse per il film. Ancora una volta, ricordai quant’era strano il fatto che Bert potesse dare ordini, o anche fare da guida.

Dopo i primi minuti, lui non aveva badato ai quattro che ci avevano seguiti. Mi aveva rivolto un cenno, come per farmi capire che sarebbe ritornato dopo, e se ne era andato a nuoto. Io continuai ad ispezionare il quadro.

Per quasi un’ora, la ragazza ed i suoi compagni mi seguirono dappertutto, ma senza avvicinarsi ugualmente al quadro ed agli operatori. Sembravano interessarsi più a me che agli aspetti tecnologici della centrale. Considerai la cosa comprensibile, nel caso della ragazza, e supposi che gli uomini si limitassero a starle dietro.

Finalmente decisi di non poter ricavare più nulla dall’esame del quadro e cominciai a domandarmi dov’era andato Bert. Sembrava impossibile chiederlo: lui si era portato dietro la tavola per scrivere, e comunque avevo avuto modo di constatare l’inutilità di quel metodo. Se tra i miei accompagnatori vi fosse stato qualcuno che non aveva partecipato al precedente tentativo, forse avrei cercato di riprovare comunque; ma così come stavano le cose, l’assenza del materiale per scrivere costituiva più una sfida che una seccatura. Pensai che fosse ora di imparare il locale linguaggio dei segni.

Mi allontanai dal quadro dei comandi, portandomi verso la parete di fondo, e gli altri mi seguirono. Cominciai quella che speravo sarebbe stata una lezione linguistica, secondo il metodo abituale presentato dai romanzi. Indicai vari oggetti, e cercai di indurre gli altri ad usare i gesti corrispondenti.

Andò male, logicamente. Andò così male che non ero neppure sicuro che quelli avessero capito cosa volevo, quando Bert ritornò. I quattro avevano rivolto una quantità di cenni con le mani, le braccia e le dita, sia a me che ai loro compagni, ma non riuscivo a capire se rappresentassero i nomi delle cose che indicavo, oppure simboli per i verbi delle azioni che io compivo. Probabilmente, mi sfuggivano molte sottigliezze, ma non notai mai un gesto che si ripetesse abbastanza spesso perché fosse possibile impararlo. Era l’esperienza più frustrante che avessi vissuto da… be’, da qualche ora, almeno. Forse da un giorno o qualcosa di più.

Quando Bert ritornò e vide quello che stava succedendo, ebbe un altro attacco di quasi-risate.

«Ci avevo provato anch’io,» scrisse poi, «quando sono arrivato qui. Vengo considerato un buon linguista, ma non ho mai fatto progressi. Non vorrei sembrarti presuntuoso, ma non credo sia possibile, se non cominci da bambino.»

«Devi pur avere imparato qualcosa.»

«Sì. Una cinquantina di simboli fondamentali… credo.»

«Ma tu stavi parlando con costoro. Ho avuto l’impressione che dicessi loro cosa dovevano fare.»

«In un certo senso, e in modo zoppicante. Le poche decine di gesti che conosco includono i verbi più ovvii, ma non so eseguire bene neppure quelli. Tre quarti della gente non riescono a capirmi affatto… quella ragazza è una delle migliori. Io posso leggere ciò che dicono solo quando fanno i segni molto lentamente.»

«E allora, come diavolo fai a dire loro cosa debbono fare? E non ti sembra in contraddizione con quanto mi avevi detto… che nessuno può dire agli altri ciò che debbono fare?»

«Forse mi sono espresso male. Non è un governo autoritario, questo, ma di solito il consiglio del Comitato viene accettato, almeno nelle questioni sia pur lontanamente collegate con il funzionamento dell’installazione.»

«E questo Comitato ti ha conferito una sorta di autorità? Perché? E questo significa che Marie ha ragione di credere che tu abbia voltato le spalle al Consiglio e all’umanità e sia passato completamente dalla parte di questi sprecatori?»

«Una domanda per volta, prego,» scarabocchiò in fretta Bert. «Il Comitato non mi ha conferito nessuna autorità. Io mi limito a dare suggerimenti nella mia qualità di membro.»

Presi la tavola, e la cancellai, cercando nel contempo di attirare il suo sguardo. Finalmente scrissi: «Ripeti, per piacere? I miei occhi debbono avermi ingannato.»

Lui sogghignò e riscrisse la frase. Lo guardai con un’espressione che lo raffreddò di colpo: e riprese a scrivere.

«Non — sottolineato — «sono qui per restare, qualunque cosa ne pensi Marie, e nonostante ciò che ti ho detto prima. Mi dispiace di doverti mentire. Sono qui per svolgere un lavoro: cosa succederà quando l’avrò ultimato, non lo so. Tu sei nella stessa situazione, e lo sai benissimo.» Dovetti annuire in segno di assenso. «Faccio parte del Comitato a causa della mia abilità di linguista e dei miei precedenti generali.» Ero così assorto nel tentativo di ricavarne un senso che per poco non dimenticai di leggere quello che Bert scrisse dopo; dovetti fermarlo, mentre stava per cancellare la tavoletta e lasciar spazio ad altre parole. «Vi sono altre informazioni relative a questo posto che preferivo non riferirti, ma ho cambiato idea. Te lo farò vedere, e potrai decidere tu stesso se e come includerlo nel tuo compito di indurre Marie a optare in un senso o nell’altro. Io ho una mia opinione sul modo in cui bisognerebbe servirsene: ma tu hai il diritto di pensarla come vuoi. Vieni. Voglio farti conoscere l’ingegnere responsabile del lavoro di sviluppo e manutenzione.»

Se ne andò a nuoto, e io lo seguii, tallonato dagli altri. Non sentivo l’impulso di parlare, anche se fosse stato possibile. Cercavo ancora di capire in che modo qualcuno che conosceva il linguaggio locale sì e no come un bambino di due anni poteva essersi assicurato una posizione ufficiale grazie alle sue doti linguistiche.

Senza dubbio ormai l’avrete capito, poiché ho cercato di spiegarmi onestamente: ma per me era troppo. Ero così indietro rispetto alla realtà da restare sbalordito di fronte a qualcosa che, probabilmente, voi già vi stavate aspettando. Entrammo a nuoto in un ufficio all’estremità della grande sala, e io vidi, fluttuante davanti ad un visore per microfilm, ignaro di quanti lo circondavano, il mio buon amico Joey Elfven.



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