CAPITOLO 19


Glielo proposi alla prima occasione, e anche lui non riuscì a capire come mai non gli fosse venuto in mente. Mi approvò vivamente, e si complimentò con me con tutta l’eloquenza concessagli da un inizio di crampo alle dita. Poi cominciò a darsi da fare.

Il piano era abbastanza semplice. Il sommergibile di Joey, naturalmente, era ancora lì. Lo avremmo sfasciato, avremmo detto a Marie che avevamo trovato il relitto, e se fosse stato necessario glielo avremmo mostrato. Avremmo fatto in modo che rimanessero intatti il numero di registrazione ed altri segni d’identificazione. Dopo esserci messi d’accordo, andammo al molo dov’era attraccato il sommergibile. Avremmo potuto metterci al lavoro appena arrivati: ma durante la nuotata di mezz’ora avevamo avuto il tempo di pensare ai dettagli. Quando riprendemmo a comunicare, i particolari non coincidevano, e impiegammo quasi mezz’ora per riconciliarli. Con questo, il lavoro vero e proprio e la ricerca, da parte di Bert, di qualcuno che ci aiutasse a trasportare il sommergibile, passarono più di sei ore prima che fossimo veramente pronti a trasferire fuori il mezzo.

Non potevamo farlo funzionare con il suo motore, anche se questo sarebbe stato possibile. Dopo la metamorfosi di Joey, era stato riempito del liquido ambiente, alla pressione locale. Riuscimmo a lavorare senza difficoltà sui comandi interni. Pensammo di portarlo alla «sala operatoria» e di collegarlo con il portello di trasferimento, per riportare sala e sommergibile alla pressione di superficie, ma poi mi venne in mente un piano più facile.

Come tutte le macchine da lavoro di profondità, il sommergibile di Joey aveva grossi serbatoi per il sollevamento e la zavorra. I primi funzionavano ancora, perché non avevano perduto molto liquido, a giudicare dalla galleggiabilità dell’apparecchio. I serbatoi della zavorra, naturalmente, adesso erano pieni del liquido che formava il nostro ambiente normale. Erano disposti in due serie principali che si estendevano per quasi tutta la lunghezza dello scafo, parallelamente allo scafo; ogni serie era divisa in quattro cellette per mezzo di paratie munite di valvole e di pompe.

Aprimmo tutte le valvole. Poi spezzammo i sigilli dei portelli di manutenzione senza aprirli completamente, in modo che il fluido potesse filtrare tra l’interno dello scafo principale e i serbatoi della zavorra. Entro un po’ di tempo, le pompe avrebbero svuotato l’interno ed i serbatoi.

Finalmente, provvedemmo a sfasciare lo scafo. Avevo dato per certo che avremmo potuto usare i normali esplosivi, dimenticando l’effetto che ha il suono su una persona immersa in un liquido. Non è che non mi volessero consegnare gli esplosivi: lì non ce n’erano mai stati, semplicemente.

Finalmente pensammo di risolvere il problema aprendo le lastre d’ispezione e togliendo parecchi dei supporti imbullonati, quelli che dovevano essere mobili, per provvedere alla manutenzione. Sembrava certo che, se avessimo svuotato lo scafo, si sarebbe schiacciato inevitabilmente.

Perdemmo parecchio tempo tentando di improvvisare qualcosa che mettesse in moto le pompe della zavorra, con un congegno ad orologeria oppure dall’esterno. Finalmente, a qualcuno (non a me), venne in mente che niente ci impediva di attivarle dall’interno e di uscir fuori, chiudendoci il portello alle spalle. La pressione non avrebbe cominciato a scendere, fino a quando lo scafo non fosse stato isolato dall’oceano.

Sembrò che questo bastasse a concludere il lavoro. Il sommergibile era già quasi in equilibrio di peso rispetto alla zavorra esterna, perciò lo rimorchiammo e ci avviammo a nuoto verso l’entrata più vicina. Eravamo in dieci, e il carico non era eccessivo. Lo arrestammo sotto l’apertura del tetto, lo spingemmo verso l’alto fino a quando arrivò al punto di contatto tra i due liquidi, e lo lasciammo lì, per indossare le mute.

Non mi ero ancora abituato. Non avevo avuto occasione di chiedere a cosa serviva la piccola bombola sulla schiena… la mia teoria, come forse ricorderete, non costituiva una spiegazione valida. E in quel momento non avevo la possibilità di chiederlo. Bert mi aiutò a sistemare tutto a dovere, anche se non sapevo sempre con esattezza quello che stava facendo. In tre o quattro minuti cominciammo ad espellere la zavorra esterna, e il sommergibile entrò in acqua per l’ultima volta.

Gli lasciammo un po’ di galleggiamento negativo, e alcuni di noi camminarono sorreggendolo, mentre gli altri lo spingevano a nuoto. Bert ed io non avevamo fatto piani precisi circa il punto in cui si doveva inscenare il naufragio: evidentemente, non doveva essere troppo vicino ad un’entrata, altrimenti sarebbe stato impossibile far credere che non l’avessero trovato prima. D’altra parte, non sarebbe stato possibile portarlo troppo lontano. Dopo un’ora di viaggio, lasciammo che lo scafo si posasse sul fondo.

Personalmente, non sarei riuscito a trovare la strada del ritorno fino all’ingresso da cui eravamo passati, e sarebbe stato un colpo di fortuna se ne avessi trovato uno qualunque. Bert e gli altri però non sembravano preoccupati. Pensai che conoscessero bene la zona, o che disponessero di un sistema di orientamento di cui non sapevo ancora nulla. L’unica luce era quella delle nostre lampade, la cui radiazione formava una piccola cupola luminescente nella tenebra immensa del Pacifico. Eravamo lontanissimi dal tendone, come continuo a chiamare l’area coltivata. Non sapevo neppure in quale direzione si trovasse, e anche se l’avessi saputo non mi sarebbe servito a nulla, dato che non avevo una bussola.

Bert mi indicò a gesti di accostarmi al portello stagno del sommergibile. L’aprii ed entrai. In un certo senso, mi dispiaceva moltissimo: ma l’idea mi sembrava ancora buona.

Una volta entrato, mi sbrigai in fretta: dovevo soltanto fare scattare due interruttori. Mi richiusi il portello alle spalle, e raggiunsi gli altri.

Avevamo ricaricato le batterie del sommergibile, e non c’era da temere che non ci fosse energia sufficiente per svuotarlo. Ero molto fiero di aver ricordato quel particolare: i serbatoi erano grandi, e avrebbero causato un enorme lavoro per le pompe. Tuttavia, avevo appena raggiunto il gruppo quando fummo costretti a ricordare qualcosa cui non avevamo pensato né io né Bert, qualcosa per cui non potevamo trovare una giustificazione.

Vuotando i serbatoi della zavorra con i serbatoi del sollevamento ancora pieni, il sommergibile acquisì un galleggiamento positivo. E naturalmente cominciò a sollevarsi.

Per fortuna, il movimento ascendente iniziale non fu rapido. Riuscii ad afferrarmi allo scafo, aprii il portello elettricamente (manualmente non ci sarei riuscito, dato che si era già stabilita una differenza di pressione), e dissigillai ed aprii le valvole per lo scarico del liquido di galleggiamento. Quando uscii di nuovo, il sommergibile era già a una sessantina di metri dal fondo. I sommozzatori mi stavano intorno, illuminando la scena con le loro lampade: guardai la parte superiore dello scafo e vidi la scia oleosa del liquido di galleggiamento che usciva. L’ascesa stava già rallentando, e dopo un paio di minuti cessò e si invertì. Seguimmo la discesa del sommergibile sul fondo, fino ad un punto non molto lontano da quello che avevamo scelto.

E aspettammo. Aspettammo. Aspettammo.

I nostri aiutanti conversavano tra loro a segni. Bert ed io non potevamo parlare, poiché avevamo lasciato la tavoletta all’entrata, quando avevamo indossato le mute. Ognuno di noi sapeva ciò che stava pensando l’altro, e via via che il tempo passava e che lo scafo continuava a star lì tranquillo, cominciammo a scambiarci occhiate interrogative.

Ormai le pompe avevano avuto il tempo di vuotare completamente l’interno. Dentro doveva esserci praticamente il vuoto.

Non avevamo badato a ciò che era rimasto nei serbatoi dell’aria. Non poteva essercene tanta da contare qualcosa, a quella pressione. Dagli ugelli della zavorra non erano uscite bollicine, ma l’aria liberata dai serbatoi interni poteva essere entrata in soluzione, a quella pressione, prima di venire espulsa.

Ma il problema non stava nel fatto che la pressione interna corrispondesse a zero o a poche atmosfere; dovevamo stabilire cosa potevamo fare per rimediare al mancato schiacciamento dello scafo. La pressione sarebbe rimasta bassa fino a quando le pompe avessero esaurito il carburante, e anche dopo. Sarebbe occorso comunque parecchio tempo prima che il combustibile finisse, poiché ora le pompe lavoravano a vuoto. Considerando la generale affidabilità del materiale del Consiglio, forse ci sarebbero voluti mesi, prima che una minuscola falla permettesse alla pressione interna di aumentare al punto che fosse possibile aprire il portello stagno. Non sapevo per quanto tempo ancora noi potevamo star lì senza fare rifornimento di ossigeno: di certo, non per mesi. Anzi, sarebbe già stato abbastanza difficile spiegare i tre giorni o più che erano già trascorsi da quando avevo visto Marie. Un altro ritardo avrebbe reso le cose ancora più complicate, ma non potevo tornare da lei senza aver pronta una storia convincente sulla sorte di Joey.

Una bomba di profondità sarebbe stata utile. Forse sarebbe bastata anche una piccola carica di esplosivo: lo scafo, dopo tutto quello che avevamo fatto, doveva essere molto, molto vicino al suo limite. Purtroppo, non c’erano esplosivi disponibili.

La sola cosa che riuscivo a pensare era riportare indietro il sommergibile; poi io o Bert saremmo entrati nella sala di conversione, avremmo collegato lo scafo al portello che doveva servire a quello scopo, fare tutto quel che bisognava fare per riportare un uomo alla pressione di superficie e ridurre quella della camera, in modo che potesse entrare nel sommergibile e ricominciare tutto daccapo. L’idea non mi andava. Ero sicuro che non sarebbe andata neppure a Bert, ma date le circostanze non mi veniva in mente altro. Non era un’idea che si poteva comunicare a gesti. Avrebbe richiesto già parecchio tempo anche usando la tavoletta per scrivere.

Riuscii a far capire a Bert che dovevamo tornare indietro per discuterne. Quando cercai di spiegargli che bisognava portarci dietro il sommergibile, però, si oppose seccamente. Dopo un paio di minuti, rinunciai ad insistere. Come ho detto, quel piano del resto non mi entusiasmava.

Bert rivolse alcuni cenni agli altri: tranne quattro, vennero tutti con noi. I quattro si calarono su un tratto fangoso, ad una ventina di metri dallo scafo, e cominciarono non so che gioco. In un altro momento, sarei stato curioso di scoprirne i dettagli.

Il tragitto di ritorno, naturalmente, fu più rapido di quello di andata… o meglio, lo sarebbe stato, se l’avessimo portato a termine.

Non so quanto fossimo arrivati lontano in quegli otto o dieci minuti. Dovevamo aver percorso circa quattrocento metri, credo. Non sono il nuotatore più efficiente del mondo, e non ci mettevo neppure molto impegno.

L’interruzione, come gran parte delle cose che erano andate storte nei nostri piani, avrebbe dovuto venire prevista: ma non l’aveva prevista nessuno. Se l’avessimo immaginato, non saremmo rimasti in attesa nei pressi del sommergibile, dopo aver messo in moto le pompe della zavorra.

Fu una cosa abbastanza ovvia e l’unica ragione per cui non capii cos’era successo un secondo dopo l’evento fu che, naturalmente, avevo perso i sensi.



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