CAPITOLO 2


Non lo credetti, naturalmente. Io sono un tipo tradizionalista, e persino nella narrativa amo il realismo: e quello era veramente troppo. Non avevo mai finito di leggere L’Abisso di Maracot, da ragazzo, perché descriveva un fondale oceanico luminoso. So che Conan Doyle non era mai stato laggiù, e la luce gli serviva per sviluppare la trama, che del resto non brillava per coerenza: ma la cosa mi dava fastidio. Sapevo che lo scrittore si sbagliava, lo sapevano tutti… il fondo dell’oceano non è luminoso.

Però lo era.

Il relitto roteante mi stava facendo oscillare verso l’alto, lontano dalla luce, ed io ebbi il tempo di decidere se dovevo credere o no ai miei occhi. Riuscivo ancora a leggere gli strumenti. Il quadrante della pressione indicava una profondità di millequattrocentoquaranta metri; con una rapida correzione mentale, basata sulla registrazione del termometro, aggiunsi un’altra sessantina di metri. Dovevo essere certamente vicino al fondo, da qualche parte, sulle pendici settentrionali della montagna il cui picco costituisce Rapa Nui.

Oscillai dolcemente, roteando verso l’alto, e poi ridiscesi dall’altra parte, e la mia visuale si orientò di nuovo verso il basso. Indipendentemente dal fatto che volessi credere o no ai miei occhi, questi insistevano nel dirmi che c’era luce, in quella direzione. Era una fioca luminescenza verdegialla… esattamente quella che si usa negli effetti d’illuminazione per dare l’impressione d’una scena sottomarina. Dapprima mi parve uniforme: poi dopo qualche altra giravolta circa sessanta metri più in basso, distinsi uno schema. Era formato di riquadri, con gli angoli un po’ più luminosi del resto. Non copriva interamente il fondale: l’orlo era quasi sotto di me, e si estendeva verso il nord, mi pareva, sebbene la mia bussola non reagisse troppo bene alle giravolte. Nell’altra direzione c’era la tenebra normale, consolante e spaventosa… quella era abbastanza reale.

Accaddero due cose, quasi nello stesso istante. Divenne evidente che avrei toccato fondo molto vicino all’area illuminata, e divenne altrettanto ovvia la natura di quell’area. Quella seconda rivelazione mi colpì. Per tre o quattro secondi, rimasi così infuriato e disgustato da non riuscire a ideare un piano, e di conseguenza per poco non ci lasciai la pelle.

La luce era artificiale. Credetelo, se potete.

Mi rendo conto che per una persona normale è difficile. È già una brutta faccenda sprecare energia per illuminare uno spazio all’aperto, ma talvolta è una triste necessità. Ma consumarla per illuminare il fondo marino… ecco, come dico, per qualche istante fui troppo furioso per pensare con chiarezza. Il mio lavoro mi ha portato a contatto con gente poco preoccupata per l’energia, con gente che la rubava, e persino con gente che l’usava male: ma quella era una prospettiva del tutto nuova! Adesso ero sceso ancora di più, e vedevo ettari ed ettari di luce che si estendevano verso nord, est ed ovest, fino a perdita d’occhio. Ettari ed ettari illuminati da cose sospese a pochi metri dal fondo piatto, cose visibili soltanto come punti neri al centro di aree leggermente più vivide. Se non altro, chi era responsabile di quella prodezza un po’ di senso dell’economia ce l’aveva: si serviva di riflettori.

Poi controllai l’indignazione: o fu la paura a farlo. Mi resi conto all’improvviso di trovarmi una dozzina di metri soltanto al di sopra delle luci. Non sarei sceso in mezzo ad esse, ma un poco più a sud. Non potevo dire «a sud, al sicuro». Non potevo dire «al sicuro», perché la combinazione formata dalla prua della Pugnose e dalla mia capsula girava abbastanza lentamente da consentirmi di prevedere l’assetto in cui avrebbe toccato il fondo, ed era certo che l’estremità aperta dello scafo sarebbe finita in basso.

A parte il fatto che, stando sotto il relitto, non avrei potuto vedere nulla, era molto probabile che non avrei potuto neppure fare nient’altro… per esempio, risalire alla superficie. Questa volta afferrai i comandi.

Poiché il problema della mimetizzazione era fondamentale, i separatori utilizzavano molle, anziché cariche esplosive. Attesi che la rotazione portasse lo scafo tra me e la luce, e premetti il pulsante. La spinta fu così leggera da indurmi a chiedermi, per qualche secondo, se non mi sarei cacciato in un guaio anche peggiore. Poi la luce cominciò a filtrare dagli oblò che prima erano coperti dallo scafo, e quella preoccupazione finì. Le molle avevano allontanato la capsula dalla regione illuminata, e così potevo vedere la prua della Pugnose profilata contro la luminescenza. La separazione aveva rallentato leggermente la mia caduta, mentre il relitto era un po’ più veloce di me, adesso. Qualcosa, se non altro, andava secondo i piani: il relitto avrebbe toccato fondo per primo, e non avrei corso il rischio di restarci intrappolato sotto.

Naturalmente, non avevo previsto di vederlo toccare il fondale. E certo non mi sarei mai aspettato di vedere ciò che accadde quando lo toccò.

In generale, le distese pianeggianti del fondo marino tendono ad essere piuttosto viscide. Lo chiamano fango di globigerine o fango di radiolari, ma comunque è fango. Potete trovare coralli e sabbia ed altra roba compatta nelle acque poco profonde, e talvolta oneste rocce sui pendii, ma dove il fondale è pianeggiante, dovete aspettarvi un incrocio tra una normale fanghiglia e lo strato superiore di uno stagno. Quando vi cade qualcosa di duro e pesante, anche se scende dolcemente, non potete aspettarvi che il fondo lo regga bene. Qualche volta potete avere delle sorprese, ma non potete mai aspettarvi che qualcosa rimbalzi sul fondo marino.

La Pugnose non rimbalzò, questo debbo ammetterlo, ma di certo non si comportò come doveva. Urtò la superficie illuminata a trenta o quaranta metri dal bordo, e ad una distanza circa doppia da me. Potei vedere bene. Toccò il fondale, come avevo previsto; e affondò, come avevo previsto. Non ci fu un vortice di sedimenti, però… nessun segno dello spruzzo al rallentatore che si vede normalmente quando qualcosa finisce nella fanghiglia. La sezione di prua, invece, sparì quasi completamente nella superficie liscia, mentre attorno ad essa si formava un’increspatura circolare che si dilatò allontanandosi dal punto dell’impatto. Poi il relitto si risollevò dolcemente, fino a rimanere scoperto per metà, e poi riaffondò di nuovo, sempre al rallentatore. Oscillò in quel modo per tre o quattro volte, prima di restare immobile, e ad ogni sobbalzo mandò un’altra increspatura a diffondersi intorno per una dozzina di metri.

Quando il relitto si fermò, si fermò anche la mia capsula. La sentii urtare contro qualcosa di duro… roccia, ci avrei scommesso con la certezza di vincere. Poi cominciò a rotolare molto, molto dolcemente, verso la luce. Non potevo vedere chiaramente la superficie su cui mi trovavo, ma mi sembrava evidente: si trattava di un solido pendio, che mi avrebbe scaricato accanto alla Pugnose entro due o tre minuti, se non avessi fatto qualcosa per evitarlo. Per fortuna, qualcosa potevo fare.

La capsula aveva quelle che noi chiamavamo gambe, supporti telescopici lunghi circa due metri, metallici, che si potevano estroflettere per mezzo di molle e far rientrare per mezzo di solenoidi. Speravo ancora di non dover usare i magneti: ma sembrava che le gambe fossero in ordine: ne feci uscire quattro in quelle che mi auguravo fossero le direzioni giuste. Comunque, il rotolio cessò, e per la prima volta mi trovai a disporre di una piattaforma d’osservazione stabile. Naturalmente, concentrai la mia attenzione sull’area che potevo vedere.

Mi trovavo al di sotto del livello delle luci. Sembravano appese in molte file, ad intervalli di circa venti metri, con la stessa spaziatura fra una fila e l’altra. Era solo un’ipotesi, però, perché in realtà non vedevo alcun supporto. La disposizione regolare confermava la mia impressione, ma il fatto che il relitto fosse sceso più o meno esattamente fra due luci senza conseguenze sembrava invece smentirla. Non mi stupii troppo nel vedere che sulla superficie piatta e illuminata non cresceva e non si muoveva nulla, anche se, naturalmente, non sarei stato sorpreso se avessi visto intorno tracce o aperture.

O almeno, non ne sarei rimasto sorpreso se non avessi visto l’arrivo della Pugnose. Ma adesso era chiaro che, qualsiasi cosa stessi vedendo, non si trattava certamente del fondo marino. Sembrava piuttosto un telo di gomma, teso come un tetto di tenda sopra tutto quanto, circa tre metri più in basso del punto del pendio su cui mi ero fermato. Il relitto l’aveva ammaccato, ma non perforato, e quella sostanza era abbastanza resistente per reggere un peso relativamente ridotto di metallo e di plastica.

Questo poteva essermi utile, pensai. Non immaginavo perché mai chi stava sotto la tenda ci tenesse ad illuminare l’esterno; ma a meno che quel materiale fosse completamente opaco, quelli laggiù non avrebbero potuto fare a meno di vedere l’ombra e l’ammaccatura sul tetto. Avrebbero mandato qualcuno a indagare, e io avrei potuto vederli facilmente senza accendere i riflettori e senza tradire la mia presenza. Mi bastava soltanto scorgere chiaramente degli esseri umani non autorizzati sul fondo del Pacifico: questo fatto, più l’enorme spreco di energia che già potevo calcolare, sarebbe stato sufficiente per il mio rapporto… al resto avrebbe provveduto una grande spedizione di controllo. Nessuno pretendeva che io arrestassi un gruppo di individui abbastanza numeroso per creare un’installazione di quel genere, e non nutrivo ambizioni del genere. Per dirla chiaramente, la capsula non era abbastanza manovrabile per fungere da auto della polizia: io non ero in grado di arrestare neppure un gambero. Mi bastava soltanto di vedere un sommergibile, o uno scafandro corazzato, o anche un robot telecomandato… qualunque cosa dimostrasse che quell’impianto era organizzato e in attività. Mi sarebbe bastata un’occhiata, e avrei sganciato la zavorra.

Non sarei risalito troppo in fretta, naturalmente, e per due ottime ragioni. Un addetto al sonar, logicamente, non avrebbe fatto molto caso ad un oggetto che affondava, pensando che si trattasse di un relitto, o magari di una balena morta, e non avrebbe provato troppa curiosità. Ma era molto improbabile che sentisse la stessa indifferenza verso un oggetto che risaliva. Dovevo tener conto del pericolo rappresentato dal sonar. Era consolante che finora non ve ne fosse traccia: ma non era conclusivo.

L’altra ragione che mi dissuadeva dall’affrettarmi non la conoscevo ancora, e la scopersi soltanto diverse ore più tardi.

Io non sono il tipo che tiene sempre gli occhi sull’orologio. Sapevo di avere un ampio margine di sopravvivenza, dentro la capsula, e non tenevo conto scrupolosamente del tempo che era passato. Quando la seconda ragione divenne evidente, non pensai mai di controllare il tempo, e per diverse ore ebbi altro da fare che badare all’orologio. Non saprei dire, quindi, per quanto tempo restai seduto nella capsula, in attesa che succedesse qualcosa. Posso affermare che furono diverse ore: abbastanza da annoiarmi, irritarmi, e convincermi, quasi, che non c’era nessuno nelle vicinanze, sotto quel tetto. L’idea che si trattasse di qualcuno del tutto disinteressato a un pezzo di nave finito sul tetto era troppo assurda perché valesse la pena di prenderla in considerazione: se qualcuno l’avesse visto, certamente avrebbe deciso di prendere qualche provvedimento.

Nessuno aveva fatto niente. Perciò, non si vedeva nessuno. E se sotto quella specie di telone non c’era nessuno in vista, tanto valeva che andassi io a dare un’occhiata da vicino. Forse avrei potuto anche dare una sbirciatina al di sotto.

Un’idea pericolosa, ragazzo. Non permettere che tutti quei kilowatt sprecati ti diano alla testa. Tu sei soltanto un occhio: se non torni indietro a portare le informazioni, tutto quello che riuscirai a fare sarà puro spreco… e «spreco», naturalmente, è la bestemmia più oscena per il Consiglio di Amministrazione.

Comunque, la tentazione era forte. Nessun movimento… nessun segno di vita umana, tranne le luci e il telo da tenda, e pochissimi segni di vita non umana. Niente suoni. Niente sul monitor della frequenza del sonar. Perché non dovevo rotolare dolcemente fino all’orlo del telone e studiarlo più da vicino?

La risposta migliore a questa domanda, naturalmente, era che si sarebbe trattato di un’idiozia. Ma via via che il tempo passava, mi venne in mente un paio di volte che limitarmi a star lì non significava dar prova del livello più elevato dell’intelligenza umana. Se dovevo comportarmi da sciocco, tanto valeva che lo facessi sul serio. Non so da dove possa scaturire un ragionamento del genere; forse dovrei rivolgermi veramente a uno psichiatra.

Non so esattamente quanto arrivassi vicino a cedere all’impulso. So che per tre volte allungai la mano per far rientrare le gambe telescopiche e che ogni volta cambiai idea.

La prima volta, a trattenermi fu la vista di qualcosa che si muoveva: poi scoprii che era uno squalo piuttosto grosso. Era il primo essere vivente di una certa grandezza che vedevo da quando avevo raggiunto il fondo, e per un po’ avviò i miei pensieri su di un’altra tangente. Le altre due volte che mi accinsi a far muovere la capsula, venni trattenuto del ricordo dello squalo. Era sparito… aveva udito qualcosa che io non potevo sentire, e si era spaventato? Non avevo strumenti all’esterno per scoprire le frequenze più basse e quelle udibili: c’erano soltanto i ricettori del sonar.

So che tutto questo non mi fa apparire come un genio, e neanche come un operatore competente. Vorrei avere avuto un po’ più di tempo a disposizione per rivedere un po’ i miei ricordi, prima di dover raccontare questa storia. Per giustificare la decisione che presi, prima dovrei avere una possibilità di apparire come un adulto ragionevole. Tutto quello che posso dire a mia difesa, sul momento, è una di quelle frasi tipo «vediamo, vediamo se voi sapete fare di meglio.» Sapete esattamente ciò che avreste pensato voi, se vi foste trovati praticamente impotenti in una sfera di plastica di due metri, sul fondo dell’oceano, ad una profondità di un miglio? Se non lo sapete, allora, per favore, prima di criticarmi aspettate che io abbia finito.

Finalmente apparve la seconda ragione per non scaricare troppo in fretta la zavorra. La mia attenzione era ancora concentrata sul relitto, perciò non la vidi sopraggiungere. La scorsi per la prima volta con la coda dell’occhio, e per un istante pensai che fosse un altro squalo: poi mi resi conto che si trattava invece di un essere umano, ed ebbi la prova che cercavo. Benissimo. Non appena fosse scomparso, avrei potuto risalire verso la superficie.

Impossibile. Avevo bisogno di una prova convincente, e se i miei occhi non bastavano a convincere me, era molto improbabile che le mie parole avrebbero potuto convincere qualcun altro. Quel che vedevo era una persona, e fin qui tutto bene; uno scafandro corazzato da dieci centimetri, adeguatamente fornito di energia, per sopportare la pressione di una tonnellata e un quarto per pollice quadrato che esercita l’acqua marina alla profondità di un miglio. Un’armatura di quel genere lascia a chi la porta l’aspetto di un essere umano e gli permette di muoversi, camminando a passo molto goffo.

Tuttavia, a meno che quell’individuo sia immerso in un oceano di mercurio, non gli permette di nuotare: e invece quella figura chiaramente umana stava nuotando.

Comparve in lontananza, sulla mia sinistra, e entrò nella luce all’improvviso, come se fosse discesa dall’oscurità sovrastante. Nuotava verso di me ed il relitto, ma senza troppa fretta. Quando si avvicinò, i dettagli risultarono più nitidi: e il più evidente di tutti, ancora più del fatto che era una femmina, era che non portava affatto uno scafandro corazzato. Indossava una muta da sommozzatore per acque fredde, assolutamente normale, a parte il fatto che al posto della maschera del respiratore aveva un casco trasparente e sferico, e la zavorra sembrava distribuita qua e là in cerchi, intorno al corpo ed agli arti, invece di essere fissata alla cintura. Ripeto — anzi, dovetti ripeterlo a me stesso parecchie volte — che non si trattava affatto di uno scafandro corazzato. I movimenti con cui la donna nuotava mostravano chiaramente che era flessibile quanto la pelle, proprio come deve essere una muta da sommozzatore.

Sembrava non aver notato la mia capsula, e questo mi diede un senso di sollievo. Non mostrò neppure di aver visto il relitto fino a quando fu arrivata ad una ventina di metri di distanza. Nuotava molto lentamente lungo il bordo del tetto, con l’aria tranquilla di chi sta facendo una passeggiata pomeridiana. Poi, arrivata a quel punto, cambiò direzione e si avviò verso la prua della Pugnose.

Questo non quadrava affatto. Chiunque fosse laggiù avrebbe dovuto andare in cerca di quel relitto, non certo trovarlo per caso. Io mi ero aspettato che arrivasse una squadra intera.

Bene, sono parecchie le cose che non avevo previsto, in quella storia. «Finiscila con le ipotesi operative, fratello: non hai i dati sufficienti neppure per questo, ancora. Limitati ad osservare», (mi rivolsi a me stesso senza chiamarmi neppure per nome).

Perciò osservai. La osservai mentre girava a nuoto intorno alla prua sfondata, vi entrava e ne usciva, e le passava sopra. Poi la vidi sganciare un oggetto che risultò una lampada, e che teneva agganciato alla cintura, ed entrare di nuovo nel relitto. Questo mi preoccupò un poco: il camuffamento della capsula non era stato realizzato per reggere ad un’ispezione del genere. Le morse, le molle di sganciamento…

Lei uscì di nuovo, senza mostrarsi più emozionata di prima, ed a questo punto mi resi conto di un’altra cosa. Era ben poco importante, rispetto a quello che avevo già visto… o almeno, mi parve poco importante nel momento in cui lo notai; ma quando ci pensai sopra, diventò un grosso enigma.

Come ho detto, la muta era perfettamente normale, a parte il casco e la zavorra. Era così normale che aveva addirittura una piccola bombola tra le spalle, l’estremità superiore toccava il casco, e presumibilmente era collegato ad esso, sebbene io non vedessi i tubi. Tutto questo era logico e ragionevole; la nota stridente stava nel fatto che non c’erano bolle.

Ora, io conosco i sistemi di respirazione a circuito, conosco le scorte chimiche… miscugli di perossidi e superossidi di metalli alcalini che reagiscono con l’acqua liberando ossigeno e assorbendo anidride carbonica. Li conosco abbastanza bene per sapere che debbono avere, oltre al contenitore delle sostanze chimiche e all’impianto di miscelatura, una sorta di «polmone»: un serbatoio a volume variabile ed a pressione ambientale, con le sostanze chimiche sistemate tra questo e i polmoni del sommozzatore. Il gas esalato deve andare pure da qualche parte, fino a quando è pronto per essere inalato di nuovo. Il «polmone» deve avere un volume abbastanza grande per contenere tutta l’aria che un sommozzatore può esalare con un respiro… in altre parole, deve avere un volume corrispondente all’incirca a quello dei polmoni umani. Ma su quella muta non si vedevano sacche di questo tipo, e la bombola sul dorso non era abbastanza grande per contenerla. A quanto sembrava, quindi, l’apparecchio non aveva una riserva chimica d’ossigeno; e a meno che una pompa microscopica assorbisse il gas via via che la donna lo espirava, e lo comprimesse in un’altra parte di quella piccola bombola ad una pressione incredibilmente alta, avrebbero dovuto esserci delle bollicine. Non vedevo la ragione di un sistema di recupero di quel genere, ma non vedevo neanche le bolle. Già mi chiedevo, perplesso, quale miscuglio di gas poteva respirare… a quella pressione, l’ossigeno al cinque per mille le avrebbe bruciato i polmoni, e non mi risultava che esistessero mezzi per diluirlo. Persino l’elio, a quella profondità, era abbastanza solubile per imporre una decompressione della durata di molte ore.

Per un momento mi balenò nella mente l’idea che gli esseri umani potessero vivere permanentemente sotto una simile pressione, respirando un’atmosfera di elio quasi puro con una frazione infinitesimale di ossigeno: ma anche se era così, non capivo perché dalla muta della donna non uscivano bollicine. D’accordo, da un punto di vista economico c’erano tutte le migliori ragioni per recuperare l’elio: ma vi erano problemi tecnici che non credevo fossero di facile soluzione.

No. Tutte le ipotesi sono inadeguate. Continua ad osservare. Fino ad ora, risulta soltanto che la donna sembra vivere e muoversi normalmente in un sistema chiuso alla pressione esterna, e che la pressione esterna (lasciando da parte la vecchia superstizione secondo la quale schiaccerebbe un corpo umano) è sufficiente per sovvertire tutti i processi biofisici o biochimici che riguardano la dinamica dei gas.

Comunque, non c’era molto da osservare. La donna tornò ad agganciarsi la lampada alla cintura, diede un’ultima occhiata al relitto e se ne allontanò a nuoto. Non tornò indietro, ma proseguì sulla mia destra, allontanandosi di taglio dalla zona illuminata. Dopo pochi secondi era sparita, sebbene io sapessi che non poteva essere arrivata a una grande distanza.

Mi pareva probabile che fosse andata a cercare aiuto, per rimuovere il relitto dal tetto. Non sapevo fra quanto tempo sarebbe ritornata. Poteva esserci un ingresso a poche centinaia di metri, come poteva darsi che non ce ne fosse uno per parecchie miglia. Sembrava un po’ più verosimile la prima ipotesi, ma non ero disposto a scommetterci neppure un soldo.

Solo il mio futuro.

La donna poteva aver notato il meccanismo che aveva trattenuto e poi lanciato la mia capsula; non sarebbe stato necessario che fosse una grande attrice per nascondere un’espressione insospettita, in quelle circostanze. Se l’aveva notato e l’aveva segnalato, coloro che sarebbero venuti con lei avrebbero esplorato attentamente l’intera zona. L’esterno della capsula era piuttosto irregolare, di proposito, in modo da non apparire artificiale a prima vista; ma non bastava ad ingannare chiunque l’avesse osservato attentamente. Forse sarebbe stato meglio se mi fossi allontanato un po’. Non pensavo alla sicurezza personale: avrei sempre potuto andarmene, ma volevo vedere il più possibile, prima che si rendesse necessaria una misura del genere.

Almeno, fu quel che dissi a me stesso.

Il movimento sarebbe stato lento: la capacità di spostarsi non era una delle caratteristiche migliori della capsula. C’erano due dozzine di gambe, e l’energia accumulata era sufficiente per farle rientrare parecchie migliaia di volte (ce n’erano volute, di discussioni, per ottenerlo!), ma io non ero uno scugnizzo di mare. Mi ero esercitato un po’ a far rotolare la capsula sott’acqua, ma il meccanismo aveva lo scopo di permettermi una sisemazione in una posizione migliore per osservare, non di tenermi lontano dai curiosi. Se mi avessero scoperto, l’unica cosa che potevo fare era scaricare la zavorra e risalire alla superficie. Era un’operazione che si poteva compiere una volta sola, e non volevo farvi ricorso prima che si rendesse indispensabile. C’era ancora qualche speranza, secondo me, di scoprire piuttosto dettagliatamente ciò che succedeva laggiù.

Forse era coraggio, o forse soltanto ottimismo congenito.



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