24

È stata un’idea balorda, Kitty, una fantasia da scemi. Non avrebbe mai potuto funzionare. Ti stavo chiedendo l’impossibile. C’era un’unica conseguenza ipotizzabile in realtà: io ti avrei annoiata ti avrei infastidita, ti avrei allontanata da me. Potrei dare la colpa a Tom Nyquist: l’idea era sua. No, la colpa è mia. Non ero mica obbligato ad ascoltare quella sua idea balorda, non è così? La colpa è mia. La colpa è mia.


Assioma: è sempre un delitto contro l’amore tentare di cambiare l’anima di qualcuno, anche se sei convinto che l’amerai di più dopo che l’avrai trasformata in qualcos’altro.


Nyquist disse: — Forse anche lei legge nel pensiero, e il blocco è un fatto di interferenze, di urto tra le sue e le tue emissioni, che finisce per cancellare le onde sia nell’una sia nell’altra direzione. Per questo non c’è nessuna emissione che ti arriva da lei e probabilmente nessuna che arrivi a lei da te.

— Ho molti dubbi al riguardo — gli dissi io. Eravamo nell’agosto del 1963, due o tre settimane dopo che io e tu ci eravamo incontrati. Non vivevamo ancora insieme però eravamo già stati a letto un paio di volte. — Lei non ha un briciolo di capacità telepatica — insistetti. — È assolutamente normale. Questo fatto è essenziale, Tom: lei è una ragazza completamente normale.

— Non esserne così sicuro — disse Nyquist.

Lui non ti aveva ancora incontrata. Voleva incontrarti, però io non avevo ancora combinato. Tu non avevi mai sentito il suo nome. Dissi: — Se c’è una cosa che so di lei, è proprio questa: è una ragazza equilibrata, bene in salute, sana di mente, assolutamente normale. Perciò non legge nel pensiero.

— Perché quelli che leggono nel pensiero non sono equilibrati, non stanno bene in salute, e non sono sani di mente. Come te e come me. Come volevasi dimostrare, eh? Parla per te, bello mio.

— Il dono obnubila lo spirito — dissi. — Oscura l’anima.

— La tua, forse. Non la mia.

Su questo punto aveva ragione. La telepatia non lo aveva danneggiato. Forse io avrei avuto i problemi che avevo anche se non fossi nato con il dono. Non posso dar la colpa di tutte le mie disavventure solo alla presenza di un’abilità fuori del comune, cosa ne dite? E Dio lo sa che in giro c’è una moltitudine di nevrotici che non hanno mai letto nel pensiero in tutta la loro vita.


Sillogismo:

Alcuni telepatici non sono nevrotici.

Alcuni nevrotici non sono telepatici.

Dunque telepatia e nevrosi non sono necessariamente correlate.


Corollario:

Tu puoi sembrare un qualunque individuo normale eppure possedere il potere.


Ero scettico. Sotto pressione, Nyquist concesse che se tu avevi il potere, probabilmente me lo avresti rivelato attraverso certi manierismi inconsci di cui ogni telepate si accorgerebbe senza difficoltà: io non avevo individuato nessuno di questi manierismi. Tuttavia suggerì che tu avresti potuto essere un telepate latente, che il dono poteva essere lì, non sviluppato, non funzionale, celato nel profondo della tua mente e in un certo qual modo attivo solo per difenderti dai miei sondaggi. Soltanto un’ipotesi, disse lui. Però mi stuzzicava, mi tentava. — Supponi che lei abbia questo potere latente — dissi. — Potrebbe essere risvegliato, non credi?

— Perché no? — disse Nyquist.

Ero ansioso di crederci. Avevo davanti la visione di te risvegliata alla completa capacità di ricezione, capace di captare le trasmissioni con la stessa facilità e la stessa incisività con cui le captavamo Nyquist e io. Come sarebbe stato intenso il nostro amore, allora! Saremmo stati completamente spalancati l’uno all’altro, spogli di tutte quelle piccole simulazioni e difese che impediscono anche agli amanti più intimi una piena realizzazione dell’unione delle anime. Avevo già sperimentato una forma parziale di questo tipo di intimità con Tom Nyquist, ma è ovvio che non lo amavo, e in fondo non mi piaceva neanche, per cui in realtà fu un disastro, una brutale ironia, che le nostre menti potessero essere in un contatto così intimo. Tu invece? Se fossi riuscito anche solo a svegliarti, Kitty! E perché no? Chiesi a Nyquist se riteneva che fosse possibile. Prova e lo scoprirai, disse lui. Fa’ degli esperimenti. Tenendole le mani, standovene seduti insieme al buio, mettici un po’ di energia e tenta di agganciarti a lei. Val la pena di tentare, no? Sì, dissi io, è ovvio che vale la pena di tentare.

Sembravi latente in tanti altri sensi, Kitty: un essere umano potenziale piuttosto che uno reale. Ti circondava un’aria di adolescenza. Sembravi più giovane di quanto eri realmente; se non avessi saputo che eri laureata avrei scommesso che avevi diciotto o diciannove anni. Non avevi letto granché al di fuori dei tuoi campi di interesse — matematica, elaboratori elettronici, tecnologia — e, dal momento che quelli non erano i miei campi, ero convinto che tu non avessi letto proprio niente di niente. Non avevi viaggiato; tutto il tuo mondo era limitato dall’Atlantico e dal Mississippi e il grande viaggio della tua vita era stata una vacanza estiva nell’Illinois. Non avevi neppure avuto molte esperienze sessuali: tre uomini (non è così?) in 22 anni, e soltanto con uno era stato un fatto serio. Così ti vidi come materiale greggio in attesa della mano dello scultore. Sarei stato il tuo Pigmalione.

Nel settembre 1963 traslocasti da me. Comunque stavi passando tanto di quel tempo accanto a me! Fosti d’accordo che non aveva senso continuare ad andare avanti e indietro. Mi sentii proprio sposato: calze umide appese sopra l’asta della tenda della doccia, uno spazzolino da denti extra sulla mensola, lunghi capelli scuri nel lavandino. Il tuo calore accanto a me nel letto ogni notte. Il mio ventre contro il tuo dolce caldo pube, yang e yin. Ti diedi alcuni libri da leggere: poesie, racconti, saggi. Con quanta diligenza li divorasti! Leggesti Trilling sul bus andando a lavorare e Conrad nelle tranquille ore dopo cena e Yeats una domenica mattina mentre ero fuori alla ricerca del Times. Sembrava però che niente penetrasse profondamente in te; non eri proprio portata per la letteratura; penso che avresti fatto difficoltà a distinguere Lord Jim da Lucky Jim, Malcolm Lowry da Malcolm Cowley, James Joyce da Joyce Kilmer. La tua mente acuta, così pronta a padroneggiare COBOL e FORTRAN, non era capace di decifrare il linguaggio della poesia, e tu avresti alzato lo sguardo da La Terra Desolata, tutta confusa, per fare qualche domanda da scolaretta delle superiori che mi avrebbe lasciato irritato per ore. Un caso disperato, pensavo certe volte. Tuttavia un giorno che la borsa era chiusa tu mi conducesti giù al centro computer dove lavoravi e ascoltai le tue spiegazioni sull’attrezzatura e sulle tue mansioni come se mi stessi parlando in sanscrito. Mondi differenti, differenti tipi di mente. Eppure continuavo a sperare di riuscire a formare un ponte tra noi.

In momenti strategicamente calcolati parlai in modo confuso del mio interesse per i fenomeni extrasensoriali.

Lo esposi come se fosse un mio hobby, un freddo studio spassionato.

Ero affascinato, dissi, dalla possibilità di arrivare a una vera comunicazione mente a mente tra esseri umani. Fui attento a non sembrare un fanatico, per non svelare il mio caso; mantenni la mia disperazione fuori vista. Dal momento che veramente non riuscivo a leggere in te, mi riusciva più facile mirare a quell’obiettività scientifica più di quanto mi sarebbe riuscito con chiunque altro. E dovevo mirarci. La mia strategia non mi permetteva confessioni di nessun genere a nessuno. Io non dovevo tenerti, Kitty, non volevo che tu avessi motivi per considerarmi un’anormalità, oppure un lunatico. Soltanto un hobby, dunque. Un hobby.

Tu non riuscivi a credere all’ESP. Se non può essere misurata con un voltmetro o registrata su un elettroencefalografo, dicesti tu, non esiste. Sii più larga di vedute, protestai. Ci sono fenomeni come i poteri telepatici. So che ci sono (attento, Duv!). Non potevo parlare di tracciati EEG; non avevo mai avuto a che fare nella mia vita con un EEG, non avevo nessuna idea se il mio potere sarebbe stato registrato. E mi ero severamente vietato di conquistare il tuo scetticismo chiamando qualche estraneo e facendo una specie di gioco di società leggendogli nella mente. Però potevo offrire altri argomenti. Da’ un’occhiata ai risultati di Rhine, da’ un’occhiata a tutta quella serie di corretti lettori delle carte Zener. Come puoi spiegare tutto questo, se non come ESP? E poi l’evidenza della telecinesi, del teletrasporto, della chiaroveggenza…

Tu restasti scettica, smontasti freddamente la maggioranza dei dati da me citati. Il tuo modo di ragionare era sottile e rigido; non c’è niente di indistinto nella tua mente quando si trova nel territorio che le è familiare, il metodo scientifico. Rhine, dicesti, mise insieme alla meglio i suoi risultati operando i test su gruppi eterogenei, selezionando poi per test successivi soltanto i soggetti che rivelavano insolite successioni di colpi di fortuna, e trascurando gli altri. E pubblicò soltanto i dati che gli parvero confermare la sua tesi. È un’anomalia statistica, non extrasensoriale, quella che fa saltar fuori tutte quelle risposte esatte sulle carte Zener, insistevi. Inoltre, chi fa l’esperimento è già vittima del pregiudizio di credere nell’ESP, e questo fatto certamente lo porta a ogni genere di inconsci errori di procedura, sottili interventi di pregiudiziali preterintenzionali che inevitabilmente fanno deviare il risultato. Con molta cautela io ti invitai a tentare qualche esperimento su di me, permettendoti di scegliere tu stessa le procedure da seguire. Tu dicesti okay, soprattutto, ritengo, perché era qualcosa che potevamo fare insieme, e — si era all’inizio di ottobre — perché eravamo già, coscienti e imbarazzati, alla ricerca di aree di intimità, e la tua educazione letteraria era diventata un motivo di tensione per ambedue.

Fummo d’accordo — con quanta sottigliezza la feci passare per una tua idea personale! — di concentrarci per trasmettere immagini o idee dall’uno all’altra. E proprio in partenza un esito crudelmente ingannevole. Raccogliemmo alcuni mucchietti di disegni e tentammo di collegarci mentalmente. Ho ancora, qui in archivio, i nostri appunti su quegli esperimenti:



Neanche un colpo azzeccato da parte tua. Però quattro su dieci potevano essere considerate associazioni molto strette: le calendule con le rose, l’Empire State e il Pentagono, l’elefante e il trattore, la locomotiva e l’aeroplano (fiori, edifici, oggetti molto pesanti, mezzi di trasporto). Sufficienti per darci false speranze di una vera e propria trasmissione. E quel che seguì:



Anche per me nessun colpo azzeccato. Però anche qui tre associazioni molto strette, tre su dieci: spiaggia tropicale e paesaggio assolato, il ponte George Washington e il Monumento a Washington, la sopraelevata nell’ora di punta e l’alveare; il denominatore comune era rispettivamente: il sole, George Washington, un’intensa attività frenetica. Alla fine ci illudemmo considerandole strette associazioni piuttosto che coincidenze. Riconosco che io per tutto il tempo annaspai al buio, indovinando più che leggendo, eppure anche così avevo un poco di fiducia nella qualità delle nostre risposte. Ciononostante quelle collusioni, probabilmente casuali, di immagini, stuzzicarono la nostra curiosità: qui c’è qualcosa, forse, tu cominciasti a dire. E andammo avanti.

Variammo le condizioni per la trasmissione del pensiero. Tentammo di farlo nell’oscurità più assoluta, una stanza appartata. Tentammo con la luce accesa, tenendoci per mano. Tentammo mentre facevamo all’amore: entrai in te e ti tenni tra le mie braccia e pensai con forza a te, e tu pensasti con forza a me. Tentammo sotto l’effetto dell’alcool. Tentammo a digiuno. Tentammo sotto condizione di lunga privazione del sonno, sforzandoci di stare alzati nella speranza puramente aleatoria che le menti barcollanti per la fatica potessero permettere agli impulsi mentali di scivolare attraverso le barriere che ci separavano. Avremmo tentato anche con droghe e acido, però non pensavamo molto all’acido nel ’63. Cercammo in una decina di altri modi di aprire i condotti telepatici. Forse tu ricordi ancora i particolari; l’imbarazzo li ha cancellati via dalla mia mente. So che lottammo con il nostro futile progetto notte dopo notte per più di un mese, mentre il tuo interesse aumentava, si faceva evanescente e sfumava di nuovo, trasportandoti attraverso tutta una serie di fasi, dallo scetticismo al freddo interesse distaccato a un indubbio fascino fino all’entusiasmo, poi alla consapevolezza di un fiasco inevitabile, a un senso dell’impossibilità della nostra meta, per cedere infine alla stanchezza, alla noia, alla rabbia. Io non mi accorsi di nulla: pensavo che tu fossi concentrata sul lavoro come lo ero io. Invece quello aveva smesso di essere sia un esperimento sia un gioco; ormai per te era soltanto una ricerca ossessionante, e parecchie volte in novembre chiedesti se potevamo smettere. Tutto questo leggere nel pensiero, dicevi, ti lasciava con spaventosi mal di testa. Io, però, non potevo lasciar perdere, Kitty. Ribattei alle tue obiezioni e insistetti perché andassimo avanti. Ero intestardito, ero duro, ti intimidii spietatamente obbligandoti a cooperare, ti tiranneggiai in nome dell’amore, mirando sempre a quella Kitty telepatica che avrei prodotto. Ogni dieci giorni, forse, qualche ingannevole barlume di apparente contatto riportava a galla il mio idiota ottimismo. Noi dovevamo sfondare; noi dovevamo arrivare a toccare l’uno la mente dell’altra. Come avrei potuto arrestarmi adesso, quando eravamo così intimi? E invece non eravamo mai stati intimi.

All’inizio di novembre Nyquist diede uno dei suoi occasionali party con cena, facendosi mandare i cibi da un ristorante di Chinatown che prediligeva. I suoi party erano sempre brillanti; rifiutare l’invito sarebbe stato assurdo. Perciò alla fine fui costretto a esporti a lui. Per più di tre mesi ti avevo tenuta lontana da lui, più o meno deliberatamente, sfuggendo il momento del confronto, una vigliaccheria di cui non mi ero pienamente reso conto. Arrivammo in ritardo: tu eri lenta a prepararti. Il party era già cominciato, quindici o sedici persone; molti erano celebrità, anche se non per te, perché cosa ne sapevi tu di poeti, compositori, romanzieri? Ti presentai a Nyquist. Lui sorrise e sussurrò un complimento sdolcinato e ti diede un bacio blando, impersonale. Apparivi timida, quasi timorosa nei riguardi di lui, della sua schiettezza e dolcezza. Dopo un brevissimo scambio di parole se la filò per andare ad aprire la porta. Un po’ più tardi, mentre stavamo prendendo il nostro primo drink, io gli piantai in testa un pensiero.

— Be’? Che ne pensi di lei?

Lui, però, era troppo occupato con gli altri ospiti per entrare in contatto con me e non colsi nessuna risposta alla mia domanda. Dovevo cercare la soluzione per conto mio nella sua stessa testa. Mi inserii (mi lanciò un’occhiataccia attraverso la stanza, ben comprendendo quello che stavo facendo) e andai alla caccia di informazioni. Strati di porcherie da stalliere coprivano i suoi livelli superficiali; simultaneamente stava offrendo da bere, sostenendo una conversazione, facendo segno che era tempo che gli strudel fossero serviti, e intimamente stava scorrendo la lista degli ospiti per vedere chi doveva ancora arrivare. Tagliai corto superando questa roba e in un attimo trovai il suo angolino dei pensieri su Kitty. Di colpo venni a sapere quello che volevo e temevo. Lui era capace di leggerti. Sì. Per lui eri trasparente come chiunque altro. Soltanto per me eri opaca, per motivi che nessuno conosceva. Nyquist ti aveva penetrata istantaneamente, ti aveva valutata, si era formato il suo giudizio su di te, ed era lì pronto perché io potessi esaminarlo: ti vedeva goffa, immatura, ingenua sì, però attraente e piena di charme (ecco come ti ha vista. Non sto affatto tentando, per mie ragioni personali, di renderlo più critico nei tuoi riguardi di quanto sia stato in realtà. Tu eri molto giovane, non eri per niente sofisticata, e lui lo vide). La scoperta mi lasciò di ghiaccio. La gelosia si incrostò in me. Il lavoro massacrante che avevo fatto per tante settimane per arrivare a te, tutto da buttare via; mentre lui poteva così facilmente penetrare nel tuo intimo, Kitty! Immediatamente diventai sospettoso. Nyquist e i suoi scherzi maliziosi: era anche questo uno dei tanti? Era davvero capace di leggerti? Come potevo essere sicuro che non fingesse, a mio uso e consumo? Lui colse questo pensiero.

“Non ti fidi di me? È naturale che io legga nella sua mente.”

“Può darsi di sì, come può darsi di no.”

“Vuoi che te lo provi?”

“Come?”

“Sta a guardare.”

Senza interrompere neanche per un attimo il suo ruolo di padrone di casa, entrò nella tua mente, mentre la mia restava attaccata strettamente alla sua. E così, tramite lui, io ebbi la mia prima e unica visione del tuo intimo, Kitty, riflesso attraverso Tom Nyquist. Oh! Non era la visione di cui avevo bisogno, proprio per niente. Vidi me stesso attraverso i tuoi occhi tramite la sua mente. Fisicamente io apparivo, per quel che importa, meglio di quanto immaginavo di essere, le spalle più larghe di quello che erano di fatto, il volto più scarno, le fattezze più regolari. Nessun dubbio che tu eri sensibile al mio corpo. Ma le associazioni emotive! Mi vedevi come un padre severo, un maestro di scuola arcigno, un tiranno brontolone. Leggi questo, leggi quello, metti alla prova la tua mente, ragazzina! Studia sodo per essere degna di me! Oh! E poi quel nucleo fiammeggiante di risentimento per i nostri esperimenti ESP: più che inutili e dannosi, per te, una noia mastodontica, un viaggio nella pazzia, una fatica enorme, lacerante. Notte dopo notte essere tormentata da quel monomaniaco, io. Addirittura le nostre scopate infestate dalla folle ricerca del contatto mente-a-mente. Quanto eri disgustata di me, Kitty! Come mi consideravi mostruosamente pazzo!

Un attimo di rivelazione di questo tipo fu più che sufficiente. Punto sul vivo, mi tirai indietro, allontanandomi rapidamente da Nyquist. Mi ricordo: stavi guardandomi allarmata, quasi sapessi a uno stadio subliminale che potenti energie mentali erano sprizzate attraverso la stanza, mettendo a nudo l’intimità della tua anima. Sbattesti le ciglia e le tue guance si arrossarono e buttasti giù un enorme sorso del tuo drink. Nyquist mi lanciò un sorriso sardonico. Non riuscii a incrociare i suoi occhi. Ma anche allora opposi resistenza a quanto lui mi aveva rivelato. Non avevo già visto strani effetti di rifrazione in precedenza, in collegamenti di questo tipo? Non era mio dovere dubitare dell’esattezza del suo quadro dell’immagine che ti eri fatta di me? Non poteva darsi che lui l’avesse oscurata e colorita, introducendovi maliziose distorsioni e ingigantendo alcuni particolari? Davvero ti avevo tormentato tanto, Kitty, o si trattava di semplice noia scherzosamente esagerata in vivido malessere? Non potevo accettare di averti annoiato a morte. Noi tutti tendiamo a interpretare gli avvenimenti secondo come più ci piace vederli. Però mi ripromisi di andarci piano, con te, in futuro.

Più tardi, dopo che avemmo mangiato, ti scorsi che parlavi animatamente con Nyquist all’altro estremo della stanza. Tu eri leggera e frivola, come eri stata con me quella prima volta nell’ufficio di cambio. Immaginai che steste discutendo di me e che non fossero complimenti. Tentai di captare la conversazione passando attraverso Nyquist, però al primo tentativo di sondaggio lui se la prese a male.

“Stai lontano dalla mia testa, d’accordo?”

Obbedii. Vi sentii ridere, troppo sonoramente, coprivate il mormorio della conversazione. Mi allontanai per parlare con un’agile piccola scultrice giapponese il cui seno piatto, bronzeo spuntava poco attraente da una guaina nera scollata. Stava pensando in francese, e le avrebbe fatto piacere che io le chiedessi di venire a casa con me. Io, invece, tornai a casa con te, Kitty, che te ne stavi seduta imbronciata e sgraziata accanto a me nel metrò vuoto, e quando ti chiesi di che cosa tu e Nyquist avevate discusso, dicesti: — Oh! Stavamo soltanto prendendo in giro un po’ questo, un po’ quello. Stavamo soltanto divertendoci.


Circa due settimane più tardi, in un chiaro frizzante pomeriggio autunnale, il presidente Kennedy fu ucciso a Dallas. Il mercato di borsa chiuse prestissimo subito dopo quel terribile assassinio e Martinson tenne chiuso l’ufficio, buttandomi fuori, intontito, sulla strada. Non riuscivo con facilità ad accettare che fosse vera quella successione di eventi. Qualcuno ha sparato al presidente… Qualcuno ha sparato al presidente… Qualcuno ha sparato al presidente, alla testa… Il presidente è stato ferito; è gravissimo… Il presidente è stato trasportato di corsa al Parkland Hospital… Il presidente ha ricevuto gli ultimi sacramenti… Il presidente è morto. Non sono mai stato un tipo particolarmente interessato alla politica, ma questa coltellata alla salute stessa della nazione mi buttò a terra. Kennedy era stato l’unico candidato alla presidenza per cui avevo votato che avesse vinto, e loro me lo ammazzavano: la storia della mia vita in una sintetica parabola di sangue. E adesso ci sarebbe stato come presidente quel Johnson. Sarei riuscito ad adattarmici? Io mi aggrappo con le unghie alle zone di stabilità. Quando avevo dieci anni e morì Roosevelt, Roosevelt che era stato presidente durante tutta la mia vita, assaggiai, sulla punta della lingua, quelle sillabe poco familiari: presidente Truman, e le sputai di colpo, dicendomi che avrei chiamato anche lui presidente Roosevelt, perché era così che io ero abituato a chiamare il presidente.

Quel pomeriggio di novembre captai vibrazioni di terrore in tutti gli angoli, mentre, spaventato, me ne andavo verso casa. Paranoia generalizzata in tutti e dappertutto. La gente camminava di traverso guardandosi cautamente attorno, spalla contro spalla, pronta a darsela a gambe. Pallide facce di donna occhieggiavano da dietro le tendine appena scostate delle finestre di torreggianti condomini, alti sopra le strade silenti. I conducenti di automobili guardavano in ogni direzione agli incroci, come se si aspettassero di veder comparire i carri armati delle truppe d’assalto rombanti giù per Broadway (a quell’ora quasi tutti ritenevano che l’assassinio fosse il primo colpo di un tentativo rivoluzionario di estrema destra). Assolutamente nessuno indugiava all’aperto; tutti se la filavano verso i rifugi. Adesso tutto poteva succedere. Mute di volpi potevano irrompere fuori dal Riverside Drive. Patrioti impazziti potevano lanciarsi in un pogrom. Dal mio appartamento — la porta chiusa a chiave, le finestre bloccate — tentai di telefonarti al centro computer, pensando che tu, per chissà quale motivo, potessi non aver saputo la notizia, o forse avevo bisogno di sentire la tua voce in quel momento traumatico. Le linee telefoniche erano fuori uso. Ripetei il tentativo venti minuti dopo. Poi, camminando avanti e indietro, senza motivo, dalla camera da letto al soggiorno, stringendo convulsamente la radiolina e facendo ruotare il selettore nel tentativo di trovare a tutti i costi una stazione radio il cui annunciatore mi dicesse che lui, dopo tutto, era ancora vivo, deviai verso la cucina, e lì, sul tavolo, scovai un bigliettino: diceva che tu mi lasciavi, che non ce la facevi più a restare con me. L’appunto indicava l’ora: le 10,30; prima dell’assassinio, in un’altra era. Mi precipitai nel gabinetto accanto alla camera da letto e vidi quello che fino ad allora non avevo ancora visto: le tue cose erano sparite. Quando le donne mi piantano, Kitty, mi piantano di colpo e di soppiatto; non mi danno nessun preavviso.


Verso sera telefonai a Nyquist. A quell’ora le linee erano libere. — C’è Kitty? — chiesi. — Sì — disse lui. — Aspetta un minuto. — E ti passò il telefono. Tu mi spiegasti che te n’eri andata a vivere con lui per un po’, finché fossi riuscita a vederci chiaro. Lui ti era stato molto di aiuto. No, tu non provavi rancore nei miei riguardi, proprio per niente. Era soltanto per quello che io sembravo, sì, insensibile, mentre lui… lui era istintivo, afferrava subito i tuoi bisogni emotivi, lui riusciva a cogliere da dentro il tuo cammino, Kitty, mentre io non riuscivo a farlo. Per questo sei andata da lui, per conforto e amore. Arrivederci, dicesti, e grazie di tutto, e io bisbigliai un arrivederci e misi giù la cornetta. Durante la notte il tempo cambiò, e un week-end dal cielo plumbeo con una pioggia gelida accompagnò nella sua tomba John Fitzgerald Kennedy. Ho scordato tutto, la cassa da morto nella rotonda, la vedova coraggiosa e i bravi bambini, l’assassinio di Oswald, il funerale, tutta la storia di quel momento. Sabato e domenica dormii fino a tardi, mi ubriacai, lessi diversi libri senza assimilare una sola parola. Il lunedì, il giorno di lutto nazionale, ti scrissi quella lettera incoerente, Kitty, spiegandoti ogni cosa, dicendoti quello che avevo cercato di cavar fuori da te e perché, confessandoti il mio potere e descrivendoti le conseguenze che aveva avuto sulla mia vita, parlandoti anche di Nyquist, mettendoti in guardia su quello che lui era, che anche lui aveva il potere, che poteva leggerti nel pensiero e che non avresti potuto avere nessun segreto per lui, avvertendoti di non prenderlo per un essere umano, perché era una macchina, autoprogrammata per il massimo di autorealizzazione, dicendoti che il potere lo aveva reso gelido e forte mentre aveva reso me debole e nervoso, insistendo che in fondo in fondo lui era malato quanto me, un manipolatore, incapace di dare amore, capace soltanto di servirsene. Ti dissi che ti avrebbe ferita se tu fossi diventata vulnerabile ai suoi colpi. Non mi rispondesti. Non ho mai più sentito parlare di te, non ti ho rivista mai più, e neppure ho sentito parlare di lui né l’ho più rivisto. Tredici anni. Non ho la minima idea di cosa può esservi successo. Probabilmente non lo saprò mai. Però ascolta. Ascolta. Io ti amavo, signora, alla mia goffa maniera. Ti amo ancora adesso. Eppure, per me, sei perduta per sempre.

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