18

Quando Toni sloggiò dal mio appartamento sulla 114a io aspettai due giorni senza fare niente. Avevo supposto che sarebbe tornata indietro una volta che si fosse calmata; mi ero immaginato che avrebbe telefonato, tutta pentita, dalla casa di qualche amico dicendo che le spiaceva di essersi lasciata prendere dal panico e che potevo andarle incontro con un tassi. Per di più, in quei giorni io non ero in grado di prendere nessuna iniziativa, perché ero ancora sotto l’effetto dei postumi di quel mio viaggio vicario; mi sentivo come se qualcuno mi avesse spaccato la testa e poi me l’avesse ricucita, tirandomi il collo quasi fosse un elastico e alla fine lasciandolo andare al posto di colpo con un secco toc! doloroso. Passai quei due giorni a letto, per lo più sonnecchiando, ogni tanto leggendo, e precipitandomi come un matto in corridoio tutte le volte che il telefono suonava.

Lei, però, non ritornò e non telefonò; il martedì dopo il viaggio con l’acido mi misi a cercarla. Prima di tutto telefonai al suo ufficio. Teddy, il suo capo, un uomo mite dolce colto, gentilissimo, molto allegro: No, non era venuta al lavoro quella settimana. Era una cosa urgente? Volevo il suo numero di casa? — Sto chiamando da casa sua — dissi io. — Lei non c’è e non so dove sia andata. Sono David Selig, Teddy. — Oh — disse lui. Molto sotto voce, con una grande compassione. — Oh. — E io: — Se capita che lei telefoni, le direte di mettersi in contatto con me? — Poi cominciai a telefonare alle sue amiche, quelle delle quali ero riuscito a trovare il numero: Alice, Doris, Helen, Pam, Grace. Alla maggioranza di loro, lo sapevo, non piacevo per niente. Non avevo bisogno di essere telepatico per rendermene conto. Pensavano che lei stesse buttandosi via per me, stesse sciupando la sua vita con un uomo senza carriera; senza prospettive, senza soldi, senza ambizioni, senza talento e neanche bello. Tutte e cinque mi dissero che non avevano avuto sue notizie. Doris, Helen e Pam mi parvero sincere. Le altre due, così sembrò a me, stavano mentendo. Saltai su un tassi per andare da Alice nel Village e lanciai su di lei una sonda, zac! nove storie nella sua testa, e imparai un mucchio di cose sul suo conto che non mi ero mai sognato; ma non riuscii a tirarci fuori dove stava Toni. Mi sentii in colpa per aver spiato e non sondai Grace. Telefonai invece al mio datore di lavoro, lo scrittore, visto che la pubblicazione del suo libro la stava curando Toni, e gli chiesi se l’aveva vista. No da settimane, mi rispose lui, gelido. Era la fine. La pista era persa.

Il mercoledì ero sovreccitato, e non sapevo più cosa fare. Alla fine, melodrammaticamente, chiamai la polizia. A un sergente di ufficio, seccato, diedi la sua descrizione: alta, esile, lunghi capelli neri, occhi scuri. Non sono stati trovati recentemente dei corpi in Central Park? Nei tunnel del metrò? Nei basamenti delle abitazioni di Amsterdam Avenue? No. No. No. Senti, fratello, se abbiamo qualcosa te lo facciamo sapere; ma mi sembrava parlasse poco sul serio. Questo è quanto, per la polizia. Agitato, disperato, mi incamminai per il Great Shanghai per un miserabile pasto buttato giù, cibo buono andato di traverso (ci sono bambini che muoiono di fame in Europa, Duv. Mangia. Mangia). Poi, seduto davanti ai miei magri sparuti rimasugli di gamberetti con riso abbrustolito e sentendomi profondamente immerso nel lutto, inserii un dispositivo di caccia a buon mercato che avevo sempre disprezzato: scandagliai una per una tutte le ragazze che c’erano in quel grande ristorante, e tra loro ce n’erano molte alla ricerca di qualcuno che fosse solo, frustrato, vulnerabile, sessualmente disinibito e in generale con un bisogno urgente di un rinforzamento dell’ego. Non c’è tanto da faticare per portarsele a letto se hai un mezzo sicuro per sapere chi è disponibile, ma naturalmente la caccia non ha più niente di sportivo. Quella che pescai era una signora sposata passabilmente attraente sui 25 anni, senza bambini, con il marito, un assistente alla Columbia, evidentemente troppo interessato alla sua tesi di dottorato. Passava tutte le notti murato vivo fra le cataste della Butler Library, a far ricerche, scivolando a casa molto tardi, esausto, irascibile, e generalmente impotente. La portai nella mia stanza, che non avevo riordinato (il che la turbò; lei lo prese come un segno di rifiuto) e passai due ore di tensione ad ascoltare la storia della sua vita. Alla fine mi diedi da fare per scoparla, e venni quasi immediatamente. Non fu certo il mio momento più bello. Quando ritornai dopo averla accompagnata a casa, a piedi — Riverside Drive, 110a Strada — il telefono stava squillando. Era Pam. — Ho avuto notizie di Toni — disse lei, e di colpo mi sentii sudicio, con un senso di colpa per la mia superficiale consolatoria infedeltà. — Si è messa con Bob Larking, nell’appartamento di lui nell’83a Strada Est.

Gelosia, disperazione, umiliazione, agonia.

— Bob chi?

— Larking. È quell’arredatore specializzato in tappezzeria d’alta qualità, di cui lei parla continuamente.

— Non con me.

— Uno dei più vecchi amici di Toni. Sono molto intimi. Penso che abbia cominciato a frequentarla quando lei era alle superiori. — Una lunga pausa. Poi Pam scoppiò in una risatina soffocata nel bel mezzo del mio intontito silenzio. — Oh, rilassati, rilassati, David! È un frocio! È proprio una specie di padre confessore per lei. Va da lui quando si sente turbata.

— Lo vedo.

— Voi due avete rotto, non è così?

— Io non ne sono sicuro. Penso di sì. Non lo so.

— Posso fare qualcosa per aiutarti? — Questo da Pam, che pensavo mi considerasse l’influsso malefico da cui Toni era stata più che avvisata di liberarsi.

— Dammi il suo numero di telefono — dissi io.

Telefonai. Squillò e squillò e squillò. Alla fine Bob Larking sollevò la cornetta. Frocio, senza dubbio, una dolce voce tenorile con il suo bravo accento bleso, per niente diverso dalla voce di Teddy-al-lavoro. Chi ha insegnato a questa gente a parlare con un accento di omosessuali? Chiesi: — C’è Toni? — Una risposta circospetta: — Chi è all’apparecchio per favore? — Glielo dissi. Lui mi chiese di aspettare, e passò un minuto o giù di lì a confabulare con lei, la mano sulla cornetta. Alla fine ritornò e disse che Toni c’era, sì, però era molto stanca e stava riposando e non aveva nessuna voglia di parlare con me proprio adesso. — È urgente — dissi io. — Per favore ditele che è urgente. — Altra consultazione, in sordina. Stessa risposta. Lui suggeriva, tra i denti, che io richiamassi fra due o tre giorni. Mi misi a lusingare, a piagnucolare, a supplicare. Nel bel mezzo di questa antieroica scena, il telefono passò bruscamente in altre mani e Toni mi disse: — Perché hai telefonato?

— Questo dovrebbe essere ovvio. Ho bisogno che tu ritorni.

— Non posso.

Lei non disse: non voglio. Disse: non posso.

Io dissi: — Ti dispiacerebbe dirmi il perché?

— Niente da fare.

— Non hai lasciato neanche un appunto. Neanche una parola di spiegazione. Sei scappata fuori e basta.

— Mi spiace, David.

— È stato qualcosa che hai visto in me mentre eri in viaggio, non è così?

— Non parliamone — disse lei. — È acqua passata.

— Per me non è acqua passata.

— Per me sì.

Per me sì. Era come il suono di un enorme cancello che mi si chiudeva sul muso. Non ero ancora arrivato al punto di accettare che tagliasse tutti i fili. Le dissi che aveva dimenticato alcune delle sue cose nel mio appartamento, alcuni libri, alcuni vestiti. Una menzogna: aveva fatto una pulizia coi fiocchi. Però io riesco a essere persuasivo quando sono messo alle strette, e lei cominciò a pensare che poteva essere vero. Mi offrii di portarle su la roba immediatamente. Lei non voleva che andassi. Preferiva non rivedermi mai più, così mi disse. Tutto sommato questo modo era meno penoso. Però la sua voce mancava di convinzione; la sua voce era troppo acuta e più nasale di quanto lo fosse quando parlava con sincerità. Sapevo che mi amava ancora, più sì che no; dopo l’incendio della foresta, alcuni dei tronchi bruciati sono ancora vivi e da loro schizzano fuori nuovi verdi germogli. Così dissi a me stesso: pazzo che sono stato. In ogni caso lei non poteva tornare indietro da me completamente. Esattamente come non era riuscita a frenarsi dal prendere il telefono, così adesso trovava impossibile rifiutarmi di andare da lei. Parlammo molto alla svelta, la martellai perché accondiscendesse. Sta bene, disse. Vieni. Vieni. Però butti via il tuo tempo.

Era quasi mezzanotte. L’aria estiva mi si appiccicava addosso ed era viscida, con un accenno di pioggia. Non si vedevano stelle. Mi affrettai per il centro, soffocato dai vapori umidi della city e dal veleno del mio amore andato in frantumi. L’appartamento di Larkin era al 19° piano di una nuova immensa torre a terrazze, in mattoni bianchi, molto in alto in York Avenue. Aprendomi la porta, lui mi scoccò un tenero sorriso, pieno di compassione, quasi a dire: povero bastardo, sei pieno di ferite e stai ancora sanguinando, e adesso vieni qui per fartele riaprire. Aveva circa trent’anni, un uomo tracagnotto, con una faccia da bambino, lunghi capelli disordinatamente riccioluti e grandi denti irregolari. Irradiava calore, simpatia e gentilezza. Potevo capire perché Toni era corsa da lui in un momento come quello. — Lei è nel soggiorno — disse. — A sinistra.

Era un posto ampio, impeccabile, un pochino stravagante nell’arredamento, con linee frastagliate di colore che danzavano sulle pareti, manufatti precolombiani in vetrinette, in evidenza, illuminati da riflettori, bizzarre maschere africane, mobili in acciaio cromato, il tipo di arredamento improbabile che si vede nella sezione arredamento del numero domenicale del Times.

Il centro dello show era il soggiorno, una vasta stanza con le pareti tinteggiate in bianco e una lunga finestra ricurva che rivelava tutti gli splendori di Queens attraverso l’East River. Toni sedeva all’estremità opposta, accanto alla finestra, su un divano ad angolo, azzurro cupo con riflessi oro. Indossava abiti vecchi, trasandati, che urtavano con lo splendore che la circondava: una giacchetta rossa antiquata che io detestavo, una gonna corta, scura, sciatta, calze nere… ed era buttata lì, risentita, sulla schiena, appoggiata a un gomito, le gambe che sporgevano goffamente. Una posizione che la faceva sembrare ossuta e sgraziata. Una sigaretta che le pendeva tra le dita, e nel portacenere accanto a lei un’enorme pila di cicche. Gli occhi erano tristi. I suoi lunghi capelli arruffati. Non si mosse mentre io andavo verso di lei. Da lei proveniva un’aura di ostilità che mi bloccò a cinque o sei metri di distanza.

— Dov’è la roba che eri venuto a portarmi? — chiese.

— Non c’era niente. Era solo una scusa per vederti.

— Me l’ero immaginato.

— Che cosa è andato male, Toni?

— Non chiedermelo. Proprio non chiedermelo. — La sua voce era piombata su un registro bassissimo, un contralto amaro, rauco. — Tu non avresti dovuto venire qui, assolutamente.

— Se mi avessi detto che cosa ho…

— Hai cercato di farmi del male — disse. — Hai cercato di farmi fare un brutto viaggio. — Spense la sigaretta e subito ne accese un’altra. I suoi occhi, tristi e velati, rifiutavano di incontrare i miei. — Mi sono resa finalmente conto che mi eri nemico, che dovevo scappare lontano da te. Così ho impacchettato tutto e sono scappata.

— Tuo nemico? Ma lo sai bene che questo non è vero.

— È stata una cosa strana — disse lei. — Non ho capito che cosa sia successo. Ho parlato con della gente che ha ingoiato un mucchio di acido e non hanno capito neppure loro. Era come se le nostre due menti fossero collegate, David. Tra noi si era aperto come un canale telepatico. E da te fluiva dentro di me ogni genere di roba. Roba odiosa. Roba velenosa. Io pensavo i tuoi pensieri. Vedevo me stessa come mi vedevi tu. Ricordi, quando dicesti che anche tu stavi viaggiando, sebbene tu non avessi preso acido per niente? Allora mi dicesti che tu stavi, quasi, leggendo la mia mente. È stato questo che mi ha atterrita. Che le nostre due menti sembravano insudiciarsi insieme, sovrapporsi. Diventare una sola. Non ho mai saputo che l’acido facesse uno scherzo del genere.

Era l’imbeccata giusta per dirle che non era stato soltanto l’acido, che non era stata una fumata deludente, che quanto lei aveva provato era l’urto di un potere speciale che possedevo dalla nascita, un dono, una maledizione, un’anomalia di natura. Però le parole mi si congelarono nella bocca. Suonavano come parole di un pazzo, a me stesso. Come avrei potuto confessarle un fatto del genere? Lasciai sfumare quell’occasione. Dissi, invece, debolmente: — Okay, è stato uno strano momento per tutti e due. Eravamo un poco in orbita. Però adesso il viaggio è finito. Non hai bisogno di nasconderti da me, adesso. Ritorna, Toni.

— No.

— Tra qualche giorno, allora?

— No.

— Questo non lo capisco.

— È cambiato tutto — disse lei. — Adesso non potrei mai più vivere con te. Tu mi fai troppa paura. Il viaggio è finito, però io ti guardo e vedo dèmoni. Vedo un qualcosa che è metà pipistrello, metà uomo, con grandi ali di gomma e lunghe zanne gialle e, oh, Gesù mio, David, non posso farci nulla! Io mi sento ancora adesso come se le nostre due menti fossero agganciate. C’è qualcosa che scivola fuori dalla tua testa verso la mia mente. Non avrei mai dovuto prendere l’acido. — Distrattamente lei spense la sigaretta e ne cercò un’altra. — Tu adesso mi metti un terribile disagio. Vorrei che te ne andassi. Anche solo starti vicino mi dà un terribile mal di testa. Per favore. Per favore. Mi spiace, David.

Non osai dare un’occhiata nella sua mente. Avevo paura di trovarci qualcosa che potesse inaridirmi e farmi avvizzire. Ma in quei tempi il mio potere era ancora così forte che non potevo impedirmi di cogliere, la cercassi o no, una generalizzata radiazione mentale a basso livello proveniente da coloro cui mi avvicinavo, e quello che colsi in quel momento da Toni, confermò ciò che lei mi aveva appena detto. Non aveva smesso di amarmi. Però l’acido, anche se era acido lisergico e non acido solforico, aveva scalfito e corroso la nostra relazione aprendo quel terribile baratro tra noi due. Per lei era una tortura essere nella stessa stanza con me. Nessuna mia abilità avrebbe potuto rimediare a questo. Presi in considerazione varie strategie, vari spiragli a cui aggrapparmi, modi diversi per ragionare con lei, per curarla con parole morbide e calorose. Niente da fare. Assolutamente niente da fare. Passai rapidamente in rassegna nella mia mente una decina di tentativi di approccio e tutti finivano con Toni che mi supplicava di sparire dalla sua vita. Proprio così. Era finito. Lei continuava a starsene seduta lì, quasi immobile, abbattuta, tutta scura in faccia, la sua bocca larga serrata per il dolore, il suo sorriso smagliante troncato. Sembrava invecchiata di vent’anni. La sua strana, esotica bellezza da principessa del deserto era completamente svanita. Improvvisamente lei fu più reale per me, nel suo sudario di dolore, di quanto non fosse mai stata prima. Rossa in volto per la sofferenza, ravvivata dall’angoscia. E per me nessuna possibilità di raggiungerla. — Va bene — dissi tranquillamente. — Dispiace anche a me. — Passato, finito, rapidamente, improvvisamente, senza preavviso, la pallottola che fischia nell’aria, la granata che traditrice rotola dentro la tenda, l’incudine che crolla giù da un placido cielo. Finito così. Di nuovo tutto solo. Anche senza lacrime. Urlare? Perché dovrei urlare?

Bob Larking, con molto tatto, era rimasto fuori, nel suo lungo ingresso rivestito di carte da parati con abbacinanti illusioni ottiche in bianco e nero, per tutto il tempo della nostra breve conversazione sotto voce. Di nuovo, quando riemersi, ritrovai in lui quel gentile sorriso spiacente.

— Grazie per avermi permesso per quest’ultima volta di infastidirti — dissi.

— Nessun disturbo. Va molto molto male tra te e Toni. — Annuii. — Sì: molto, molto male.

Ci guardammo in faccia vicendevolmente incerti, poi lui mi si avvicinò, affondando per un attimo le dita nel muscolo del mio braccio, dicendomi, senza parole, di adattarmici, di uscire fuori dalla bufera, di rimettermi in sesto. Era così spalancato che la mia mente, inaspettatamente, affondò dentro di lui e vidi la sua schiettezza, la sua bontà, la sua gentilezza d’animo, il suo dolore. Uscendo da lui un’immagine crebbe dentro di me, un amaro ricordo ormai sepolto: lui e una Toni tutta piangente, distrutta, due notti prima, che giacevano nudi insieme su un letto rotondo alla moda, la testa di lei appoggiata contro il petto muscoloso, villoso, di lui, mentre accarezzava dolcemente i pallidi seni sodi. Il corpo di lei tutto tremante per il bisogno. La sua mascolinità riluttante floscia che si dibatteva per offrirle la consolazione del sesso. Il suo spirito gentile in lotta contro se stesso, inondato di pietà e di amore per lei ma disgustato dalla sua femminilità che lo disturbava, quei seni, quella fessura, quella morbidezza. Non avertene, Bob, lei continua a ripetere, non avertene, proprio non avertene, ma lui le dice che lo desidera, è ormai ora che lo facciamo dopo che ci conosciamo da tanti anni, ti tirerà su, Toni, e comunque un uomo ha bisogno di qualche piccola distrazione, giusto? Il suo cuore è tutto riversato su di lei ma il suo corpo resiste, e il loro far l’amore, quando succede, è una cosa affrettata, patetica, goffa, un urtarsi di corpi tremanti riluttanti, che finisce in lacrime, tremolii, un’angoscia condivisa, e, infine, uno scoppio di risa, un trionfo sulla sofferenza. Lui toglie con i baci le sue lacrime; lei, con serietà, lo ringrazia per i suoi sforzi. Piombano in un sonno infantile, uno accanto all’altra. Quanta gentilezza, quanta tenerezza. Mia povera Toni. Arrivederci. Arrivederci. — Sono contento che sia venuta da te — dissi. Lui mi accompagnò all’ascensore. Che cosa dovrei fare, mettermi a urlare? — Se lei ne esce fuori sono sicuro che ti telefonerà — mi disse. Misi la mia mano sul suo braccio come lui aveva fatto con me, e gli rivolsi il miglior sorriso del mio repertorio. Arrivederci.

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