21

Questi sono i giorni della passione di David, quando lui si contorce sul suo letto di spine. Procediamo a piccoli tratti. Così fa meno male.


Martedì. Il giorno delle elezioni. Per mesi il clamore della campagna elettorale ha intorbidato l’aria. Il mondo libero sta per scegliersi il suo nuovo massimo leader. I camion propagandistici rumoreggiano per tutta Broadway, eruttando slogan. Il nostro prossimo Presidente! L’uomo per tutta l’America! Vota! Vota! Vota! Vota per X! Vota per Y! Le parole vuote si mescolano, si fanno confuse, si disperdono. Repubblican-Democratico. Democrat-Repubblicano. Bum. Perché dovrei votare? Io non voterò. Io non voto. Io non sono inserito. Non appartengo al giro. Votare è una cosa che riguarda loro. Un tempo, nel tardo autunno del 1968, credo, mi trovavo fuori da Carnegie Hall, pensando di entrare in una libreria sull’altro lato della strada, quando improvvisamente sulla 57a Strada tutto il traffico si bloccò e una gran quantità di poliziotti schizzarono fuori dal pavimento come i guerrieri dai denti di drago seminati da Cadmo, e una sfilata di macchine avanzò rombante da est, e, guarda! in una limousine proprio nera arrivò Richard M. Nixon, neopresidente degli Stati Uniti d’America, che giovialmente salutava, agitando le braccia, la popolazione lì ammucchiata. Finalmente la mia grande occasione, pensai. Guarderò dentro la sua mente e scoprirò i grandi segreti di stato; scoprirò che cosa c’è in questi nostri leader che li separa dai comuni mortali. Fu così che lessi nella sua mente, e quello che vi trovai non ve lo dirò, salvo una cosa: era più o meno quello che avrei dovuto aspettarmi di trovare. E da quel giorno ho chiuso con la politica o i politici. Oggi non vado alle urne. Che eleggano il prossimo presidente senza il mio aiuto.


Mercoledì. Mi trastullo con il compito finale di Yahya Lumumba fatto a metà. E con qualche altro progetto del genere, poche futili righe per ognuno. Non concludendo niente. Mi telefona Judith. — C’è un party — dice lei. — Sei invitato. Ci saranno tutti.

— Un party? Chi? Dove? Perché? Quando?

— Sabato sera. Vicino al Columbia. Da Claude Guermantes. Lo conosci? Professore di letteratura francese. — No, il nome non è Guermantes. L’ho cambiato per proteggere il colpevole. — È uno di quei nuovi professori carismatici. Giovane, dinamico, bello, un amico di Simone de Beauvoir, di Genet. Karl e io ci andiamo. E ci va un mucchio di altra gente. Lui invita sempre la gente più interessante.

— Genet? Simone de Beauvoir? Ci saranno?

— Ma no, stupido, loro no. Però ne varrà la pena. I party di Claude sono i migliori che io conosca. Un brillante assortimento di personaggi.

— È vampiresco.

— Lui come prende così dà. Ha insistito particolarmente che invitassi te.

— Ma come fa a conoscermi?

— Attraverso me — dice lei. — Abbiamo parlato di te. Ha una voglia pazza di incontrarti.

— I party non mi piacciono.

Duv…

Conosco quel tono di voce, ammonitore. Non è proprio il momento di litigare. — Benissimo — dico, sospirando. — Sabato sera. Dammi l’indirizzo. — Perché sono così arrendevole? Perché lascio che Judith mi faccia ballare come vuole? È così che vado edificando il mio amore per lei, con queste capitolazioni?


Giovedì. Stendo due paragrafi, prima di pranzo, per Yahya Lumumba. Sono molto preoccupato per la sua reazione circa il lavoro che sto scrivendo per lui. Potrei finire per odiarlo. Se mai riuscirò a finirlo. Devo finirlo. Finora non ho mai trovato un ostacolo insuperabile. Non oso farlo. Nel pomeriggio, vado a fare un giretto alla libreria della 230a Strada, alla ricerca di un po’ d’aria fresca e per vedere come al solito se è arrivato qualcosa di interessante, dopo la mia ultima visita, tre giorni fa. Compero, è d’obbligo, alcuni paperback: un’antologia di poeti metafisici minori, Il ritorno di coniglio di Updike, e un ponderoso studio antropologico di Levi-Strauss, costumi di una certa tribù amazzonica che, lo so bene, non mi metterò mai a leggere. Al registratore di cassa c’è una nuova commessa: una ragazza sui diciannove, vent’anni, pallida, bionda, camicetta di seta bianca, minigonna scozzese, sorriso impersonale. Attraente con quei suoi occhi vacui. Non mi interessa proprio per niente, né sessualmente né in altro modo, ma probabilmente se la lasciassi perdere, poi ci rimuginerei sopra — niente di umano mi sia alieno! — Così seguendo un capriccio invado la sua mente mentre pago i libri, in modo da non giudicarla sulla sola base di elementi superficiali. Mi intrufolo facilmente, in profondità, attraversando strati su strati di sciocchezze, scavandola senza ostacolo, puntando dritto alla vera essenza. Oh! Che improvvisa sfavillante intimità, anima con anima! Lei è incandescente. È un torrente di lava. Viene a me con una vivezza e una completezza che mi stordisce, tanto raro è diventato per me questo tipo di esperienza. Adesso non è più un pallido stupido manichino. La vedo piena e pura, i suoi sogni, le sue fantasie, le sue ambizioni, i suoi amori, le sue estasi (l’accoppiamento di ieri notte, che l’ha lasciata senza fiato, e poi, la vergogna e il senso di colpa), un’anima umana completa che si agita che ribolle che sfavilla. Soltanto una volta negli ultimi sei mesi ho colto questo tipo di contatto totale, soltanto una volta, quel terribile giorno con Yahya Lumumba sui gradini della Low Library. E mentre ripenso a quell’esperienza bruciante, paralizzante, c’è qualcosa che freme in me e succede l’identica cosa. Cade un’oscura cortina. Sono disinnestato. Il mio aggancio alla coscienza di lei è caduto. Silenzio, quel terribile silenzio della mente mi si avventa addosso abbracciandomi. Io resto là, stupito, intronato, di nuovo solo e atterrito, e mi metto a tremare e lascio cadere il resto, e lei mi dice, preoccupata: — Signore? Signore? — con quella dolce voce flautata, da ragazzina.


Venerdì. Mi sveglio tutto dolorante, la febbre alta. Indubbiamente un attacco di febbre malarica psicosomatica. La mente irritata, esacerbata che flagella spietatamente il corpo indifeso. Tremiti seguiti da bollenti sudate seguite da tremiti. Vomito anche le budella. Mi sento vuoto. Una testa piena di paglia. Ahimè! Non ce la faccio a lavorare. Scribacchio qualche riga pseudo-lumumbesca e getto via il foglio. Indisposto come un cane rognoso. Bene, una buona scusa, in ogni caso, per non andare a quello stupido party. Leggo i miei metafisici minori. Qualcuno di loro non è poi tanto minore. Traherne, Crashaw, William Cartwright. Per esempio, Traherne:

Puri sorgivi poteri che Corruzione detesta,

Simili al più limpido Cristallo

O a nitido lucido Ottone

Si rivestirono volentieri dell’Immagine del loro Oggetto:

Impressioni Divine, quando giunsero,

Rapide invasero e infiammarono l’Anima mia.

Non è Materia questa, è Splendore

Che Paradiso arreca: è limpida Visione!

Felicità

Solo si mostra a chi purezza alberga.

Dopo questo vomitai di nuovo. Da non interpretarsi come espressione critica. Per un attimo mi sentii meglio. Dovrei telefonare a Judith. Chiederle che mi faccia un brodo di gallina.

Ahi, meschino!


Sabato. Senza l’aiuto di brodini di gallina, mi sono ristabilito e decido di andare al party. Disgraziato, castrato. Ricorda, ricorda, il 6 novembre. Perché David ha permesso a Judith di trascinarlo fuori dalla sua tana? Un viaggio in metrò che non finisce mai verso il centro; negri già completamente in preda all’ubriacatura di fine settimana aggiungono un particolare frisson all’usuale avventura sui mezzi di trasporto di Manhattan. Alla fine la ben nota stazione della Columbia. Devo farmi a piedi qualche isolato, tremando perché non sono vestito in modo appropriato al clima invernale, per arrivare all’enorme vecchio appartamento a Riverside Drive, 112a Strada, dove si presume viva Claude Guermantes. Mi fermo fuori esitante. Una fredda, aspra brezza mi aggredisce segando dritto l’Hudson, cattiva, portando col vento i frammenti del New Jersey. Foglie morte turbinano nel parco. Dentro, un portiere color mogano mi squadra in modo equivoco. — Il professor Guermantes? — dico io. Lui mi fa un gesto rapido con il pollice. — Settimo piano, 7-G. — Mi fa cenno verso l’ascensore. Sono in ritardo; sono quasi le dieci. Arrivato al piano superiore in quel fastidioso baraccone, crik crik crik crik, la porta dell’ascensore si richiude, una serigrafia nel corridoio indica la strada alla tana di Guermantes. Non che i poster siano necessari. Un boato foltissimo (a mille decibel) proveniente da sinistra mi dice dov’è il luogo. Suono il campanello. Aspetto. Niente. Suono di nuovo. C’è troppo rumore perché loro possano sentirmi. Oh, se fossi capace di trasmettere pensieri invece di essere capace solo di riceverne! Dovrei annunciarmi con toni tuonanti. Suono di nuovo, con maggior aggressività. Ah! Sì! La porta si apre. Una brunetta, con una faccia da studentessa, che indossa una specie di sari color arancio che lascia scoperto il suo seno destro, piccolo. Nudità à la mode. Un sorriso smagliante. — Entra, entra, entra!

Una calca. Ottanta, novanta; un centinaio di persone, vestite alla maniera dei fiammeggianti anni Settanta, riunite in gruppetti, che urlano l’una all’altra verità profondissime. Quelli che non hanno in mano whisky e soda sono tutti affaccendati a passarsi sigarette di marijuana, a tirare lunghe boccate conformi al rituale, a tossire, a esalare con forza. Prima che sia riuscito a togliermi il soprabito qualcuno mi ficca in bocca un’elaborata pipa con il fornello d’avorio. — Super hashish — mi spiega. — Appena arrivato da Damasco. Avanti, bello, serviti! — Ingurgito il fumo, per amore o per forza, e sento un effetto immediato. Stravedo. — Sì — urla il mio benefattore. — Ha il potere di annebbiare la mente della gente, non è così? — In questo casino la mia mente è già abbastanza annebbiata, senza bisogno della canapa, soltanto per sovraccarico. Pare che il potere funzioni, stasera, a un’intensità ragionevolmente alta, ma senza distinguere troppo i soggetti, e io, involontariamente, sono preso in un calderone concentrato di emissioni che mi si rovesciano addosso, un caos di pensieri che si mescolano. Tutta roba confusissima. Scompaiono la pipa e quello che me l’aveva passata e io, sotto l’influsso della droga, avanzo traballando in una stanza piena di fracasso, i muri tappezzati dal pavimento al soffitto di scaffali zeppi di libri. Scorgo Judith nell’attimo preciso in cui lei scorge me, e da lei viene su una linea di contatto diretto, un’emissione dapprima vivissima, ma che poi degenera: “Fratello, dolore amore, paura, ricordi condivisi, perdono, dimenticare, odio, ostilità, avversione, frumz, zzzhhh, mmm. Fratello. Amore. Odio. Zzzhhh”.

— Duv! — si mette a urlare. — Sono qui, Duvid!


Questa sera Judith è proprio sexy. Il suo lungo corpo flessuoso è avvolto in uno scialle rosso satinato, aderentissimo, che le arriva fino al collo, che mostra chiaramente il seno e le piccole protuberanze dei capezzoli e la fessura tra le natiche. Sul suo petto si accoccola una pietra di giada cerchiata in oro, occhieggiante, scolpita in modo complicato; i suoi capelli, sciolti, ricadono deliziosamente. Mi sento orgoglioso della sua bellezza. È fiancheggiata da due uomini dall’aspetto imponente. Da una parte c’è il dottor Karl F. Silvestri, autore di Studi sulla fisiologia della termoregolazione. Corrisponde al millesimo all’immagine che di lui avevo estratto dalla mente di Judith nell’appartamento di lei una o due settimane fa sebbene sia più vecchio di quanto avrei scommesso, almeno 55 anni, forse più vicino ai 60. Piuttosto alto, troppo, un metro e 90. Tento di figurarmi l’immagine del suo enorme corpo grande e grosso sopra quello sottile flessuoso di Judith, mentre le preme addosso. Non ce la faccio. Ha due guance floride, un’espressione imperturbabilmente piena di sé, occhi teneri intelligenti. Irradia verso di lei una protezione da zio, da padre. Mi rendo conto come mai Jude è attratta da lui: per lei rappresenta l’imponente figura paterna che quel povero cane bastonato di Paul Selig non è mai riuscito ad assumere nei suoi riguardi. Dall’altra parte di Judith c’è un uomo che sospetto sia il professor Claude Guermantes; getto una rapida occhiata dentro di lui e la mia congettura trova conferma. Ha una mente effervescente, argento vivo, una sorgente scintillante, abbacinante. Pensa contemporaneamente in tre o quattro lingue. La sua energia tempestosa mi riduce a pezzi al primo contatto. Ha circa quarant’anni, è alto poco meno di un metro e 90, muscoloso, atletico; porta i suoi eleganti capelli biondo-rossicci acconciati in onde turbinanti, barocche, e la sua corta barbetta a punta è tenuta in maniera impeccabile. I suoi abiti sono di stile così avanzato che mi mancano le parole per descriverli, inesperto come sono delle nuove mode: una specie di mantello di tessuto ruvido grezzo, verde e oro (di lino? di mussola?), una fascia scarlatta, calzoni in satin svasati, stivali alti appuntiti stile medioevale. Il suo aspetto dandy e l’atteggiamento affettato lo fanno sembrare un omosessuale, e invece irradia una potentissima aura di eterosessualità, e da come Judith è atteggiata, da come lo guarda appassionatamente, comincio a rendermi conto che devono essere stati, una volta, amanti. Può darsi che lo siano tuttora. Sono alquanto restio a sondare le menti su questo punto. Le mie incursioni nella privacy di Judith sono un argomento troppo scottante tra noi due.

— Vorrei farti conoscere mio fratello David — dice Judith.

Silvestri sorride tutto radioso. — Ho sentito parlare molto di voi, signor Selig.

— Veramente? — (C’è quell’anormale di mio fratello, Karl. Ci crederesti? Lui riesce veramente a leggere nel pensiero. Per lui i tuoi pensieri sono a sua disposizione come una trasmissione radiofonica). Quante cose effettivamente Judith ha svelato sul mio conto? Proverò a sondarlo per vedere. — Chiamami David. Tu sei il dottor Silvestri, giusto?

— Esattamente. Karl. Preferirei che tu mi chiamassi Karl.

— Ho saputo un mucchio di cose su di te da Jude — dico io. Non riesco a captare niente. Accidenti! Questi miserabili poteri che svaniscono; colgo solo crepitii di statica, nebbiosi frammenti di pensiero inintelligibile. La sua mente è, per me, opaca. La mia testa comincia a rintronare. — Lei mi ha mostrato due dei tuoi libri. Vorrei poter capire cose come quelle.

Una risatina vacua, compiaciuta, dall’altero Silvestri. Intanto Judith ha cominciato a presentarmi a Guermantes. Lui mormora quanto sia deliziato nel fare la mia conoscenza. Quasi mi aspetto che mi baci sulle guance, o forse sulla mano. La sua voce è morbida, tutta miele; ha un po’ di accento, però non francese. Qualcosa di strano, un misto, franco-italiano, forse, o franco-spagnolo. Finalmente ce la faccio a sondare lui, proprio ora; in un certo qual modo la sua mente, più instabile di quella di Silvestri, resta alla mia portata. Mi ci infilo dentro e do un’occhiatina, intanto scambio le solite banalità sul tempo e sulle recenti elezioni. Cristo! Casanova redivivo! Questo va a letto con tutto ciò che cammina o striscia, maschio, femmina o neutro, naturalmente ivi inclusa la mia accessibile sorellina Judith, che — stando ad un ricordo di superficie ordinatamente archiviato — lui ha smesso di scopare esattamente cinque ore fa, proprio in questa stessa stanza. Il suo sperma, adesso, sta coagulandosi dentro di lei. È oscuramente scontento perché lei non è venuta insieme a lui; considera il fatto un fiasco della sua tecnica impeccabile. Il professore sta speculando, con tanta grazia, sulla possibilità di impalarmi prima che la serata sia conclusa. Niente da fare, professore. Non ho nessuna voglia di essere aggiunto alla tua collezione privata di Selig. Lui, affabilmente, si informa sui miei titoli. — Uno solo — dico io. — Laurea in Lettere nel 1956. Avevo intenzione di fare una ricerca sulla letteratura inglese, per il dottorato, però non ci ho mai lavorato veramente. — Lui insegna Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, Baudelaire, Lautréamont, tutta quella masnada di malati, e spiritualmente si identifica con loro; le sue lezioni sono affollatissime di ragazze del Barnard in adorazione, e le loro cosce si aprono felici per lui, sebbene nella sua personalità rimbaudiana non sia affatto restio a far all’amore coi sani maschi della Columbia, eventualmente. Mentre chiacchiera con me, affettuosamente, da padrone si balocca con le scapole di Judith. Il dottor Silvestri fa finta di non accorgersene, o addirittura non gliene frega niente. — Tua sorella — bisbiglia Guermantes — è una meraviglia, è un’originale, uno splendore, un tipo, M’sieu Selig, un tipo. — Un complimento alla francese. Io frugo di nuovo nella sua mente e vengo a sapere che sta scrivendo un racconto su un giovane divorziato amareggiato, voluttuoso, un intellettuale francese, incarnazione della forza vitale, e che si aspetta di ricavarne miliardi. Mi affascina: così appariscente, così contraffatto, così ben rifinito, anche attraente a dispetto di tutte le sue vistose mancanze. Mi offre cocktail, whisky e soda, liquori, brandy, LSD, hashish, cocaina, tutto quello che desidero. Mi sento risucchiato e me la do a gambe, con un po’ di scena, sgusciando via per andarmi a versare un po’ di rum.

Una ragazza mi si accosta al tavolo dei liquori. Una delle studentesse di Guermantes; non ha più di vent’anni. Capelli neri grossolani che cascano giù a riccioli: un naso rincagnato; occhi selvaggi svegli; labbra carnose. Non proprio bella ma in un certo senso interessante. Evidentemente anch’io le interesso, perché mi fa un ampio sorriso e dice: — Ti piacerebbe tornare a casa con me?

— Sono appena arrivato.

— Più tardi. Più tardi. Non c’è fretta. A occhio dovresti essere uno spasso quando scopi.

— Dici la stessa cosa a tutti quelli che incontri?

— Non ho incontrato nessuno — puntualizza. — E poi no, non lo dico a tutti. Anche se l’ho detto a un mucchio di gente. Che c’è di sbagliato? Di questi tempi le ragazze possono ben prendere l’iniziativa. D’altra parte, è un anno bisestile. Sei poeta?

— Non proprio.

— Lo sembri. Scommetto che sei sensibile e che soffri molto. — La mia solita, ebete fantasia, che si realizza davanti ai miei occhi. I suoi occhi sono cerchiati di rosso. È imbottita di droga. Un odore penetrante di sudore sale dalla sua maglietta nera. Le sue gambe sono troppo corte rispetto al torace, le labbra troppo larghe, i suoi seni troppo pesanti. Probabilmente ha la blenorragia. Sta scaricandomela? Scommetto che sei sensibile e che soffri molto. Sei un poeta? Tento di esplorarla, ma a vuoto; la stanchezza sta velando la mia mente, e le urla collettive di quella folla ammassata, i partecipanti al party, adesso, stanno soffocando ogni emissione individuale. — Come ti chiami? — chiede lei.

— David Selig.

— Lisa Holstein. Sono senior al Barn…

Holstein? — il nome mi fa scattare. Kitty, Kitty, Kitty! — Come hai detto? Holstein?

— Holstein, sì, e risparmiami giochi di parole con le relative vacche olandesi.

— Hai una sorella che si chiama Kitty? Chaterine, suppongo. Kitty Holstein. Sui 35 anni. Una sorella, forse una cugina…

— No. Mai sentita. Qualcuna che conosci?

— Che conoscevo — rispondo. — Kitty Holstein. — Prendo il mio drink e me ne vado.

— Ehi — mi urla dietro. — Pensi forse che stessi scherzando? Mi porti a letto sì o no stasera?

Un colosso nero mi affronta. L’immensa aureola africana, quella faccia da giungla terrificante. I suoi abiti, uno sprazzo di colori esplosivi. Lui, qui? Oh, Dio mio! Proprio la persona che avevo meno bisogno di vedere. Penso, con un senso di colpa, al compito finale non terminato, zoppicante, goffo, una mostruosità, che sta là sulla mia scrivania. Ma che cosa ci sta a fare lui qui? Come ha fatto Claude Guermantes a trascinare Yahya Lumumba nella sua orbita? Il ricordo nero della serata, forse. Oppure il delegato degli sport di massa, convocato qui per dimostrare la versatilità intellettuale del nostro anfitrione, il suo eclettismo. Lumumba incombe su di me, sdegnoso, mi squadra con freddezza dalla sua altezza incredibile come uno Zeus d’ebano. È abbracciato a una negra spettacolare, una dea, titanica, alta molto più di un metro e 80, la pelle come onice tirato a lucido, gli occhi simili a fari. Una coppia stupenda. Ci fanno vergognare tutti con la loro bellezza. Finalmente, Lumumba dice: — Io ti conosco, uomo. Ti conosco, devo averti visto da qualche parte.

— Selig. David Selig.

— Mi sembra di averlo già sentito. Dove ti ho conosciuto?

— Euripide, Sofocle ed Eschilo.

— Che c’entra il college? — È confuso. Si blocca. Poi, sorride. — Ah, sì. Sì, baby. Quel fottuto che fa i compiti finali. Come ti sta andando con quello, vecchio mio?

— Sta andando.

— Ce la fai per mercoledì? È mercoledì che devono consegnarlo.

— Ce la farò, Lumumba. — “Farò del mio meglio, capo.”

— Meglio per te, ragazzo. Conto su di te.

— …Tom Nyquist…

Il nome balzò fuori all’improvviso, in modo sensazionale, dal vocio di fondo che copriva l’intera gamma sonora delle chiacchiere del party. Per un attimo restò sospeso nell’aria fumosa come una foglia morta afferrata da un’indolente brezza d’ottobre. Chi nominava Tom Nyquist proprio in quel momento? Chi aveva pronunciato il suo nome? Una piacevole voce baritonale, a non più di una decina di passi da me. Guardai alla ricerca dei possibili proprietari di quella voce. C’erano uomini da tutte le parti. Tu? Tu? Tu? Non c’era modo di parlare. Sì, un modo c’era. Le parole pronunciate ad alta voce, riecheggiano nella mente di chi parla per un breve istante (anche nella mente di coloro che lo ascoltano, però gli echi hanno una diversa tonalità). Invoco la mia abilità che se ne sta andando e, tendendomi al limite, obbligo le ventose a cercare nelle coscienze lì vicine, a caccia degli echi. Uno sforzo immenso, suicida. I crani in cui entro sono solide cupole ossee attraverso le cui scarsissime fenditure lotto per conficcare le mie sonde fiacche, deboli. Però entro. Cerco gli echi in questione. Tom Nyquist? Tom Nyquist? Chi ha pronunciato il suo nome? Lei? Lei? Ah. Eccolo qui. L’eco è quasi sparita, soltanto un debole cupo suono all’altra estremità di una caverna. Un uomo alto grassottello con un comico pizzetto biondo.

— Scusatemi — dico. — Non intendevo origliare, però vi ho sentito fare il nome di un mio vecchissimo amico…

— Ah?

— …E non sono riuscito a trattenermi dal chiedervi di lui. Tom Nyquist. Lui e io, un tempo, eravamo molto intimi. Se sapete dove si trova adesso, che cosa sta facendo…

— Tom Nyquist?

— Sì. Sono certo di avervi sentito fare il suo nome.

Un sorriso vacuo. — Temo che ci sia un errore. Non conosco nessuno che abbia quel nome, Jim? Fred? Potete dare una mano?

— Ma io sono sicuro di aver sentito… — L’eco. Bum nella caverna. Mi ero sbagliato? A ritmo serrato tento di buttarmi nella sua testa, per andare a caccia, nel suo archivio, di una qualche conoscenza di Nyquist. Invece non riesco a funzionare per niente, adesso. Loro stanno discutendo con convinzione. Nyquist? Nyquist? Qualcuno ha sentito parlare di un certo Nyquist? C’è qualcuno che conosce un certo Nyquist?

All’improvviso uno di loro urla: — John Leibnitz!

— Ecco — dice tutto giulivo il grassottello. — Forse è questo nome che avete sentito. Stavo parlando di John Leibnitz qualche momento fa. Un amico comune. In questo casino può essere benissimo successo che a voi sia suonato come Nyquist.

Leibnitz Nyquist. Leibnitz. Nyquist. Bum. Bum. — Assolutamente possibile — convengo. — Non c’è dubbio che sia successo proprio così. Sono stato uno stupido. — John Leibnitz. — Spiacente di avervi importunato.


Guermantes dice, in punta di forchetta mentre si pavoneggia tutto, accanto a me: — Veramente, voi dovete venire a sentire le mie lezioni uno di questi giorni. Mercoledì prossimo, nel pomeriggio, comincio Rimbaud e Verlaine, la prima di sei lezioni. Fatevi vedere. Sarete al campus mercoledì, vero?

Mercoledì è il giorno in cui devo consegnare il compito finale di Yahya Lumumba sui tragici greci. Certo che ci sarò, al campus. Devo esserci. Però come fa Guermantes a saperlo? Legge, in un modo o nell’altro, nella mia testa? E se anche lui avesse questo dono? E io sono completamente spalancato per lui, lui conosce ogni cosa, il mio povero patetico segreto, la mia crescente perdita quotidiana e se ne sta la, trattandomi con condiscendenza perché io sto spegnendomi mentre lui è forte com’ero io una volta. Poi un improvviso attacco paranoico: non soltanto è vero che ha il dono ma forse è una specie di sanguisuga telepatica, che mi sta succhiando, assorbendo il potere dritto dalla mia mente per versarlo nella sua. Forse, in sordina, sta succhiandomi già dal ’74.

Scaccio via queste inutili idiozie. — Sì, penso di essere da quelle parti, mercoledì. Forse verrò.

Però non c’è alcuna probabilità che io vada ad ascoltare la lezione di Claude Guermantes su Rimbaud o Verlaine. Se lui ha il potere, che se lo metta nella pipa, e se lo fumi!

— Mi farebbe molto piacere se veniste — dice lui. Si piega verso di me. La sua androgina dolcezza, tipicamente mediterranea, gli permette, accidentalmente, di rompere il codice americano, ratificato, che vuole riservati i rapporti uomo-con-uomo. Annuso la lozione per capelli, il dopobarba, il deodorante, e vari altri profumi. Una piccola soddisfazione: non tutti i miei sensi stanno svanendo in un colpo. — Vostra sorella — mormorò. — Donna stupenda! Quanto la amo! Parla spesso di voi.

— Ah, sì?

— Con grande amore. Anche con un grande senso di colpa. Pare che voi due siate rimasti come estranei per molti anni.

— Adesso è finito. Finalmente stiamo diventando amici.

— Com’è meraviglioso per entrambi. — Fa ampi gesti sbattendo gli occhi. — Quel dottore. Non va bene per lei. Troppo vecchio, troppo statico. Dopo i 50 la maggioranza degli uomini perde la capacità di rinnovarsi. La annoierà a morte nel giro di sei mesi.

— Forse, quello di cui lei ha bisogno è proprio la noia — rispondo io. — Ha avuto una vita di eccitazione. E non l’ha resa felice.

— Nessuno ha bisogno della noia — dice Guermantes, e mi strizza un occhio.


— Karl e io gradiremmo averti a cena la settimana prossima, Duv. Ci sono un mucchio di cose di cui noi tre dovremmo parlare.

— Vedrò, Jude. Non sono ancora sicuro di niente per la prossima settimana. Ti telefonerò.


Lisa Holstein. John Leibnitz. Credo proprio di aver bisogno di un altro bicchierino.


Domenica. Eccessivamente imbottito. Hashish, rum, vino, erba. E Dio sa che cos’altro. E qualcuno che mi ficca sotto il naso del nitrito di amile verso le due del mattino. Quel lurido party del cazzo. Non avrei dovuto mai andarci. La mia testa, la mia testa, la mia testa. Dov’è la macchina per scrivere? Ho un lavoro da fare. Allora, andiamo:


Si vede, così, il diverso modo in cui questi tre tragici si accostano alla stessa storia. La preoccupazione primaria di Eschilo sono le implicazioni teologiche del delitto e l’inesorabile attività degli dei: Oreste è dilaniato tra il comando di Apollo di assassinare sua madre e il suo orrore per il matricidio, e finisce per impazzirne. Euripide si ferma alle caratterizzazioni, e sostiene una meno allegorica…


Maledizione, non vale niente. Aspetta più tardi.

Tra orecchio e orecchio, in me, c’è il silenzio. Il vuoto, nero, echeggiante. Oggi non c’è proprio niente che fila, niente. Penso che se ne sia completamente andato. Non riesco nemmeno a captare il fracasso degli ispano-americani vicini alla porta. Novembre è il mese più crudele; inaridisce la mente morta. Sto vivendo un poema di Eliot. Sto muovendomi tra le parole su di una pagina. Posso restarmene qui a sentirmi tutto amareggiato per me stesso? No. No. No. No. Ricomincerò a combattere. Esercizi dello spirito concepiti apposta per rigenerare il mio potere. Inginocchiati, Selig. Piega la testa. Concentrati. Trasformati in un’antenna capta-pensieri, un sottilissimo raggio laser telepatico, che si stenda da questa stanza fino in prossimità di quella deliziosa stella che è Betelgeuse. Fatto? Bene. Quel tagliente puro raggio mentale che penetra l’universo. Tienilo. Tienilo compatto. Vecchio mio, non è permesso sfaldarsi alle estremità. Bene. Adesso sali. Stiamo salendo la scala di Giacobbe. Questa sarà un’esperienza extra-corporea, David. Su, su, vai! Attraversa il soffitto, attraversa il tetto, attraversa l’atmosfera, attraversa la quelchetiparesfera. Fuori. Inoltrati nei vuoti spazi interstellari. Oh! Buio buio buio. I sensi raggelati, il perché dell’azione perduto. No, blocca questa roba! In questo viaggio sono permessi soltanto pensieri positivi. Innalzati! Innalzati! Verso i piccoli uomini verdi di Betelgeuse IX. Capta le loro menti, Selig. Entra in contatto. Entra… in… contatto. Innalzati, indolente d’un ebreo bastardo! Perché non ti innalzi? Innalzati!

Bene?

Niente.

Nada. Niente. Il nulla. Nulla. Nicht.

Ripiombò sulla Terra. Nel bel mezzo del funerale silente. Tutto bene, lascia perdere, se è questo che vuoi. Va bene. Fermati, per un secondo. Fermati e poi prega, Selig. Prega.


Lunedì. I postumi sono passati. Il cervello ha ricominciato a funzionare una volta ancora. In una gloriosa vampata di parossismo creativo, riscrivo Il tema di “Elettra” in Eschilo, Sofocle, e Euripide da capo a fondo, ricostruendolo, cambiando i termini, schiarendolo e rafforzandone le idee mentre contemporaneamente vi introduco quello che ritengo sia il tono spigoloso ed estemporaneo del negro. Mentre sto scolpendo le ultimissime parole, squilla il telefono. Ha proprio scelto il momento questo; mi sento socievole. Chi chiama? Judith? No. È Lisa Holstein. — Avevi promesso di portarmi a casa dopo il party — dice lugubre, con tono di accusa. — Che cazzo hai fatto, te la sei svignata?

— Come hai avuto il mio numero?

— Da Claude. Il professor Guermantes. — Quel diavolo effemminato. Quello sa tutto. — Senti, adesso, in questo preciso momento, cosa stai facendo?

— Ho in testa di farmi una bella doccia. Ho lavorato tutta la mattina e puzzo come una capra.

— Ma che cavolo di lavoro fai?

— Stendo i compiti finali per degli studenti della Columbia.

Lei ci pensa su un momento. — Certo che tu sei un uomo strano, bello mio. Dico sul serio: che cosa fai?

— Te l’ho appena detto.

Un lungo silenzio. Sta assimilando. Poi — Okay. Posso capirlo. Tu stendi compiti finali. Senti, Dave, fatti la tua doccia. Quanto tempo ci vuole, in metrò, per casa tua venendo dalla 110a Strada a Broadway?

— Quaranta minuti, se becchi subito il treno.

— Magnifico! Allora ti vedo tra un’ora. — Clic.

Scrollo le spalle. Una vacca cocciuta! Dave, mi chiama. Nessuno mi chiama Dave. Mi spoglio, mi avvio sotto la doccia, mi insapono con tutta comodità, a lungo. Poi, buttandosi sul letto in un raro interludio di relax, Dave Selig rilegge le fatiche del mattino e prova piacere per quello che ha scritto. Puoi contarci: ci proverà piacere anche Lumumba. Poi prendo il libro di Updike. Lo apro a pagina quattro e il telefono squilla ancora. Lisa: è alla stazione della 225a; adesso ha bisogno di sapere come trovare il mio appartamento. Sta diventando qualcosa di più di un gioco, adesso. Perché mi si è appiccicata così ostinatamente? Ma sì, okay. Posso stare al suo gioco. Le do le istruzioni necessarie. Dieci minuti dopo, un colpetto alla porta. È Lisa in un ruvido maglione nero, lo stesso di sabato notte, e attillati blue jeans. Un sorriso timido, stranamente fuori tono in lei. — Ciao — dice. Cerca di mettersi a suo agio. — Quando ti ho visto per la prima volta, ho avuto questa intuizione, un lampo: Questo qui ha qualcosa di speciale. Fattela con lui. Se c’è una cosa che ho imparato, è quella di fidarmi delle intuizioni. Io, Dave, seguo gli impulsi, seguo gli impulsi. — Adesso il suo maglione è partito. I suoi seni sono sodi e ben torniti, con capezzoli piccoli, quasi invisibili. Una stella di Davide occhieggia nella valle profonda che li divide. Lei gira per la casa, dà un’occhiata ai miei libri, ai miei dischi, alle mie fotografie. — Allora dimmi — dice. — Adesso che sono qui. Avevo ragione? C’è qualcosa di diverso in te?

— C’era un tempo.

— Che cosa?

— Sono fatti miei saperlo e fatti tuoi scoprirlo — ribatto. E, raccogliendo tutte le mie forze, insinuo la mia mente nella sua. È un brutale assalto frontale, un violentarla, una scopata mentale. Naturalmente lei non prova niente. Dico: — Possedevo un dono speciale, veramente. Adesso se n’è andato quasi del tutto, ma talvolta si rifà vivo, e si dà il caso che io stia usandolo su di te proprio in questo preciso istante.

— Fuori tiro — dice lei, e si toglie i jeans. Niente mutandine. Sarà grassa prima dei trenta. Le sue cosce sono piene, il ventre sporgente. I peli del pube sono stranamente densi e molto estesi, non tanto un triangolino quanto piuttosto una specie di diamante, un diamante nero che si estende, quasi oltre i lombi fino alle anche. Le natiche hanno profonde fossette. Mentre ispeziono la sua carne, saccheggio selvaggiamente la sua mente, non risparmiando nessuna zona di privacy, godendo dei miei eccessi proprio ora che il potere langue. Non ho nessun bisogno di essere educato. Non le devo nulla: è lei che mi ha forzato. Innanzitutto cerco di verificare se mentiva quando diceva di non aver mai sentito parlare di Kitty. È la verità: Kitty non è per niente sua parente. Un’omonimia senza implicazioni, tutto qui. — Sono sicura che tu sei un poeta, Dave — dice mentre ci abbracciamo e ci buttiamo sul letto sfatto. — Anche questo — un lampo di intuizione. Anche se adesso stai facendo questo lavoro da negro, la poesia è ciò per cui sei veramente portato, vero? — Faccio scorrere la mia mano sui suoi seni e sul suo ventre. Un odore acuto proviene dalla sua pelle. Scommetto che sono tre o quattro giorni che non si lava. Non importa. Misteriosamente i suoi capezzoli vengono fuori, sottili rigidi rosei noduli. Lei si dimena. Io continuo a saccheggiare la sua mente come un barbaro che saccheggi il Foro. Lei è completamente spalancata per me; vado in visibilio per questo inatteso ritorno di forza. La sua autobiografia si va costruendo da sola. Nata a Cambridge. Ha vent’anni. Il padre un professore. La madre, professoressa. Un fratello più giovane. Un’infanzia da monella. Morbillo, varicella, scarlattina. La pubertà a undici anni, persa la verginità a dodici. Abortisce a sedici. Avventure lesbiche. Un interesse appassionato per i poeti decadenti francesi. Acido, mescalina, psilocibina, cocaina, un’escursione nell’eroina. Procuratale da Guermantes, che per di più se l’era portata a letto cinque o sei volte. I ricordi di questo fatto erano vividi. La sua mente mi rivela, di Guermantes, più di quanto io desideri vedere. È lì sospeso, in esposizione, in modo veramente impressionante. Lisa me lo proietta con un’immagine dura, aggressiva, capitano della sua anima, padrone del suo destino, eccetera. Sotto, naturalmente, è tutto il contrario: lei è spaventata a morte. Non è una ragazza vuota. Mi sento un pochino colpevole per il modo casuale nel quale mi sono infiltrato nella sua testa, senza riguardi per la sua privacy, per niente. Ma ho le mie necessità. Continuo ad andare a caccia dentro di lei; nel frattempo lei se lo ficca in bocca. Mi riesce molto difficile ricordare l’ultima volta che qualcuno l’ha fatto. Mi riesce difficile ricordare il mio ultimo amplesso, è stato tutto così terribile recentemente. È bravissima a lavorare con la bocca. Mi piacerebbe ricambiarla, ma non ce la faccio a costringermi; certe volte sono schizzinoso e lei non è il tipo adatto. Oh, be’, lasciamo questa roba per i vari Guermantes del mondo. Per me io imbroglio le carte sbirciandole nel pensiero e godendomi il pompino della sua calda bocca. Mi sento virile, esuberante, sicuro di me, e, perché no, uno che spinge contemporaneamente da due parti, nella testa e in mezzo alle gambe. Senza tirarmi indietro dalla sua mente, finalmente mi ritiro indietro dalla sua bocca, mi volto, apro le sue cosce, e mi infilò in profondità nello stretto pertugio delle labbra tra le gambe. Selig lo stallone. Selig dal grosso cazzo. — Oooh — dice lei, piegando le ginocchia. — Oooh. — E diventiamo la bestia a due schiene. Segretamente mi nutro delle sue risposte di piacere, raddoppiando le mie; ogni spinta mi procura un piacere moltiplicato e deliziosamente elevato all’ennesima potenza. Ma ecco che si verifica una cosa strana. Benché lei non stia affatto venendo — un evento che, lo so bene, manderebbe a pezzi il contatto mentale nell’attimo stesso in cui si verificasse — la trasmissione che proviene dalla sua mente sta facendosi saltuaria e indistinta, un rumore più che un segnale. Le immagini si frantumano in un ticchettio di statica. Quello che arriva è tutto a monconi e remoto; io mi affanno per conservare la presa sulla sua coscienza, però è inutile, è inutile, lei scivola via, attimo dopo attimo si ritira da me, finché non c’è più nessuna comunicazione. E in quell’istante di separazione il mio cazzo di colpo si affloscia e scivola fuori da lei. Ne rimane scossa, presa alla sprovvista. — Che cos’è che ti ha smontato? — chiede. Capisco che è impossibile spiegarglielo. Mi ritorna in mente Judith che, qualche settimana fa, mi chiedeva se non aveva mai considerato questo mio perdere i poteri mentali come una specie di metafora dell’impotenza. Certe volte sì, le avevo detto. Ed ecco qui, adesso, che, per la prima volta, la metafora si fonde con la realtà; i due insuccessi si sono integrati. Impotente. Impotente. Povero David. — Penso di essermi distratto — le dico. Bene, lei è molto abile; per una mezz’ora mi lavora per bene, con le mani, le labbra, la lingua, i capelli, i seni, e non riesce a farlo montare neanche un pochettino, anzi mi butta sempre più giù quanto più aumenta la sua tenacia. — Non capisco proprio — dice. — Stavi venendo così bene. C’è qualcosa in me che ti ha sgonfiato? — Io la rassicuro. Tu sei stata grande, piccola mia. Roba del genere ogni tanto succede, nessuno sa perché. Le dico: — Fermiamoci un po’ e forse ritornerò in vita. — Ci fermiamo. Fianco a fianco, accarezzando le sue spalle distrattamente, io rifaccio qualche tentativo, qualche sforzo di sondaggio. A livello telepatico niente, assolutamente niente. Proprio niente. Un silenzio totale. Ci siamo, è la fine, proprio qui e adesso? È così e in questo posto che io mi spengo, definitivamente? E adesso io sono come tutti voi. Condannato a comunicare con le pure parole. — Ho un’idea — dice lei. — Facciamoci una doccia insieme. Certe volte questo è eccitante. — Da parte mia nessuna obiezione; potrebbe essere l’idea giusta, e comunque, dopo, il suo odore sarà un po’ migliore. Ci avviamo verso il bagno. Torrenti di acqua fresca, frizzante.

Evviva. L’abile trattamento delle sue mani insaponate mi ridà vigore.

Saltiamo sul letto. Ancor bello duro, io la infilo e la prendo. Affanno su affanno, gemiti di languore languore languore. Ma mentalmente non afferro proprio niente. Improvvisamente lei ha un curioso piccolo spasmo, intenso ma rapidissimo, e segue immediatamente il mio orgasmo. E questo è tutto, per il sesso. Ci raggomitoliamo insieme, l’abbracciami-baciami degli ultimi sprazzi. Tento di nuovo di sondarla. Zero. Zero. È finito? Penso che veramente sia finito. Oggi avete assistito a uno storico evento, signorina. La fine di un grande potere extrasensoriale. Che si lascia dietro questo miserabile guscio vuoto. Ahimè.

— Mi piacerebbe tanto leggere qualcuna delle tue poesie, Dave — dice lei.


Lunedì sera, verso le sette e trenta. Finalmente Lisa se n’è andata. Io esco fuori per andare a cenare, in una pizzeria qui vicino. Sono assolutamente calmo. L’impatto di quello che mi è successo non è ancora veramente assimilato. Quant’è strano che io sia così disposto ad accettarlo. Lo so, ci sarà un momento in cui mi salterà addosso, mi stritolerà, mi distruggerà; piangerò, urlerò, picchierò la testa contro il muro. Un modo strano di sentirsi, quasi fossi sopravvissuto a me stesso. E anche un senso di sollievo: la sospensione se n’è andata, il processo si è completato, il moribondo è crepato, e io sono sopravvissuto. Naturalmente non mi aspetto che questo stato d’animo duri. Ho perso qualcosa di essenziale per il mio essere e adesso sto aspettando il dolore, l’angoscia e la disperazione che sicuramente scoppierà tra poco.

Però sembra proprio che il mio lutto debba essere rimandato. Quello che io pensavo fosse completamente finito non è finito affatto. Entro nella pizzeria e il cameriere mi butta in faccia quel suo sorriso di benvenuto piatto e freddo tutto newyorkese, e io, senza averlo cercato, capto da dietro la sua faccia untuosa: “Ehi, ecco qua quel culo che vuole sempre le acciughe extra”.

Leggo dentro di lui con chiarezza. Ma allora non è ancora morto! Non del tutto! Si è soltanto bloccato per un attimo. Si era soltanto nascosto.


Martedì. Freddo pungente; uno di quei terribili giorni di autunno avanzato quando ogni goccia di vapore si congela nell’aria e la luce del sole sembra fatta di tante lame. Termino altri due compiti finali che consegnerò domani. Leggo Updike. Judith telefona dopo pranzo. Il solito invito a cena. La mia solita risposta evasiva.

— Che ne pensi di Karl? — chiede.

— Proprio un uomo notevole.

— Vuole che lo sposi.

— Non è una bella notizia?

— È troppo presto. Non lo conosco veramente, Duv. Mi piace, lo ammiro tremendamente, però non so se lo amo.

— Allora non precipitare niente con lui — dico io. Mi seccano le sue sospensioni da romanzo a puntate. Comunque non riesco a capire perché certa gente abbastanza avanti negli anni per vedere le cose con una certa completezza decide di sposarsi. Perché l’amore dovrebbe richiedere un contratto formale? Ma perché andarti a mettere sotto le grinfie dello stato e concedergli dei poteri su di te? Perché invitare gli avvocati a venire a mettere le zampe sui tuoi affari? Il matrimonio è per gente immatura, insicura e ignorante. Noi che conosciamo bene a fondo questa istituzione, eravamo ben contenti di vivere insieme senza costrizioni legali, eh, Toni? Eh? Io dico: — Inoltre, se te lo sposi, probabilmente dovrai mollare Guermantes. Non penso che te la farebbe passare liscia.

— Sai di me e Claude?

— Naturalmente.

— Tu sai sempre tutto.

— È assolutamente ovvio, Jude.

— Pensavo che il tuo potere stesse andandosene.

— Ma sì, ma sì, sta andandosene più veloce che mai. Ma questo fatto era assolutamente ovvio lo stesso. A occhio nudo.

— Va bene. Che te n’è sembrato?

— È la morte. È un assassino.

— Ti sbagli a giudicarlo così, Duv.

— Io stavo nella sua testa. Io l’ho visto, Jude. Non ha niente di umano. Le persone sono dei burattini per lui.

— Se potessi sentire adesso il suono della tua voce, Duv. Quell’ostilità, quella gelosia fuori posto…

Gelosia? Ma cosa sono? Un incestuoso?

— Lo sei sempre stato — dice lei. — Ma lasciamo perdere. Pensavo veramente che ti facesse piacere conoscere Claude.

— Sì. Mi faceva piacere. E mi è piaciuto. Era affascinante. Penso che anche i cobra siano affascinanti.

— Oh, vai a dar via il culo, Duv.

— Ma cosa pretendi? Che mi piaccia?

— Non ti chiederò più un piacere. — L’antica gelida Judith.

— Com’ha reagito Karl a Guermantes?

Lei resta in silenzio. Poi, finalmente: — Assolutamente male. Karl è stereotipato, lo sai. Proprio come te.

— Io?

— Oh! Tu sei così maledettamente onesto, Duv! Sei un tale puritano! Hai continuato per tutta la mia maledettissima vita a farmi lezione di morale. La primissima volta che sono andata a letto con un uomo, c’eri tu con il dito puntato su di me…

— Perché a Karl non è piaciuto?

— Non lo so. Ritiene Claude un essere sinistro. Un avventuriero. — La sua voce è improvvisamente piatta e opaca. — Forse è proprio geloso. Lo sa che vado ancora a letto con Claude. Oh, Cristo, Duv, perché stiamo ancora litigando? Perché non ce la facciamo a parlare e basta?

— Non sono mica io che litigo. Non sono mica stato io ad alzare la voce.

— Mi provochi. Fai sempre così. Tu spii dentro di me, poi mi provochi e tenti di buttarmi a terra.

— Le vecchie abitudini sono lente a morire, Jude. Comunque, dico sul serio: io non sono per nulla arrabbiato con te.

— Sembri così soddisfatto di te.

— Io non sono arrabbiato. Tu lo sei. Tu ti sei arrabbiata quando hai visto che Karl e io la pensiamo allo stesso modo nei riguardi del tuo caro Claude. Tutti si arrabbiano, quando gli si dice qualcosa che non vorrebbero sentirsi dire. Ascolta, Jude, fai quel che ti piace. Se Guermantes ti va a pennello, vai avanti.

— Non lo so. Proprio non lo so. — Una concessione inattesa: — Forse c’è qualcosa di marcio nella mia relazione con lui. — La sua spietata sicurezza di sé, che improvvisamente va in fumo. È la cosa più straordinaria, considerando chi è lei: ti ritrovi con una Judith diversa ogni due minuti. Adesso si ammorbidisce, si sgela, ti pare insicura di sé. Un attimo dopo rivolge altrove la sua attenzione, ben lontano da ciò che la turba, contro di me. — Verrai a cena nella prossima settimana? Abbiamo proprio un enorme bisogno di incontrarci con te.

— Tenterò.

— Sono preoccupata per te. Duv. — Sì, ecco il punto. — Sembravi così abbattuto sabato sera.

— Ne ho proprio passate di tutti i colori. Ma me la caverò. — Non mi sento come uno che parla di se stesso. La sua pietà non mi serve, perché una volta ottenuta la sua, dovrò cominciare ad avere io pietà per me. — Senti, ti telefonerò quanto prima, okay?

— Sei così mal ridotto, Duv?

— Mi sto adattando. Sto accettando la situazione. Voglio dire, andrà tutto bene. Stammi bene, Jude. Salutami tanto Karl. — E Claude, aggiungo, mentre metto giù la cornetta.


Mercoledì mattina. Scendo in centro per consegnare la mia ultima infornata di capolavori. È addirittura più freddo di ieri, l’aria più limpida, il sole più splendente, più remoto. Quanto sembra arido il mondo. L’umidità è meno del 60 per cento, credo. È proprio il tipo di clima nel quale ero solito funzionare con una sconvolgente chiarezza di percezione. Invece oggi sono riuscito a fatica ad afferrare qualche cosettina nel tragitto in metrò fino alla Columbia, piccoli rumori vaghi e squittii, niente che avesse senso. Non ho più la sicurezza di possedere ancora il potere, ogni giorno che passa. Oggi è uno dei giorni no. Imprevedibile. Ecco che cosa sei tu che vivi nella mia mente: imprevedibile. Stai colpendo a casaccio nella tua agonia. Me ne vado al mio solito posto e aspetto i clienti. Loro arrivano, ritirano quello per cui sono venuti, mi sganciano i verdoni. David Selig, benefattore del mondo studentesco. Vedo Yahya Lumumba come una nera sequoia che percorre la sua strada venendo verso di me dalla Butler Library. Perché sto tremando? È colpa dell’aria frizzante, senz’altro, l’allusione all’inverno, la morte dell’anno. Mentre si avvicina, la star della pallacanestro ondeggia, annuisce con il capo, sorride; tutti lo conoscono, tutti lo chiamano ad alta voce. Provo un senso di partecipazione alla sua gloria. Forse, all’inizio della stagione andrò a vedere le sue partite.

— Hai portato i fogli, vecchio mio?

— Sì, li ho qui. — Li tiro fuori dal mucchio. — Eschilo, Sofocle, Euripide. Sei pagine. Fanno 21 dollari, meno i cinque che già mi hai dato vengono 16 dollari.

— Piano, piano, vecchio mio. — Si mette a sedere accanto a me sui gradini. — Prima devo leggermi questa roba, d’accordo? Come faccio a sapere che hai fatto un lavoro come si deve se non lo leggo?

Lo osservo mentre legge. In un certo senso mi aspetto di vederlo muovere le labbra, incespicare sulle parole che non gli sono familiari, invece no, i suoi occhi scorrono velocissimi sulle righe. Si morde le labbra. Legge sempre più veloce, girando le pagine con impazienza. Mi guarda a lungo e c’è la morte nei suoi occhi.

— Questa è merda, vecchio mio — dice. — Voglio dire, che questa qui è proprio merda. Che razza di porcheria hai buttato giù?

— Ti garantisco che prenderai un “ottimo”. Non mi pagherai fino a quando non avrai preso il voto. Se prendi meno di “ottimo”…

— No, ascoltami. Chi ha parlato di voti? Non posso presentare questa porcheria, assolutamente. Sta attento, metà di ’sta roba è in gergo da ebrei, l’altra metà è copiata di sana pianta dal libro. È merda di merda, ecco cos’è. Il prof lo legge, mi squadra, mi dice: Lumumba, chi ti credi che sia io? Mi credi uno scemo, Lumumba? Queste cagate non le hai scritte tu, mi dice. Qui di tuo non c’è neanche una parola. — Si alza arrabbiatissimo. — Ecco, ti leggo qualcosa, vecchio mio. Ti faccio vedere che roba mi hai appioppato. — Scorrendo le pagine, lui lancia occhiate torve, sputa, scrolla la testa. — No. Perché poi, maledizione, dovrei? Lo sai che cosa ci hai messo! Tu m’hai fatto fesso, ecco come stanno le cose. Ti sei preso gioco di quel negro scimunito.

— Ho fatto di tutto per renderlo più vicino possibile a come l’avresti scritto tu…

— Merda. Hai buttato giù una schifezza. Hai fatto un bel mucchio di puzzolente merda giudea su Euripide e speravi che io mi mettessi nei pasticci tentando di farla passare come roba mia.

— Questo è falso. Io ho fatto il migliore lavoro possibile, e non pensare che non ci abbia sudato sopra un bel po’. Quando incaricherai qualcun altro perché ti scriva un compito, ritengo che tu debba essere preparato ad aspettarti un certo…

— Quanto tempo ci hai messo? Un quarto d’ora?

— Otto ore, forse dieci — dico. — Lo sai che cosa penso che stai tentando di fare, Lumumba? Stai ribaltando contro di me il razzismo. Giudeo questo e giudeo quello, se i giudei non ti piacciono, perché non sei andato a prenderti un negro per fargli fare il compito? Perché non te lo sei scritto da solo? Io ho fatto un lavoro in tutta onestà, per te. Non mi piace per niente sentirmi dire che ho cagato della puzzolente merda giudea. E ti dico che se lo presenti, prenderai di sicuro un voto più che passabile, probabilmente almeno un “buono”.

— Sarò bocciato, ecco.

— No. No. Forse non ti rendi conto di quello che ho messo insieme. Lascia che tenti di spiegartelo. Se me lo restituisci per un minuto in modo che possa leggere un paio di cosette… forse ti riuscirà più chiaro, se io… — Alzandomi in piedi, allungo una mano per prendere i fogli, ma lui fa la faccia scura e li solleva sopra la mia testa, ben alti. Mi ci vorrebbe una scala per arrivarci. Non sono abituato a saltare. — Buono, maledizione, non metterti a giocare con me! Lascia che li prenda! — Io scatto e lui dà un colpetto di polso e i sei fogli volano via presi dal vento verso est, lungo il viale del College. Con la morte nell’anima, li osservo mentre volano via. Chiudo i pugni, una straordinaria vampata di rabbia esplode in me. Ho voglia di prendere a cazzotti quella sua faccia irridente. — Non avresti dovuto fare questo — dico — assolutamente non avresti dovuto buttarli via.

— Restituiscimi i miei cinque dollari, vecchio mio.

— Buono. Io ho fatto il lavoro che mi avevi chiesto di fare, e…

— Hai detto tu: niente paga se i fogli non andavano bene. Okay, i fogli erano merda. Niente paga. Restituiscimi i miei cinque dollari.

— Tu non stai giocando pulito, Lumumba. Stai tentando di farmi uscire dai gangheri.

— Chi è che sta cercando di far uscire dai gangheri qualcuno? In ogni caso chi si è messo in tasca quell’anticipo? Io? Tu. Adesso cosa faccio io per il compito finale? Finisco per prendermi un’insufficienza e questo per colpa tua. Metti il caso che mi dichiarino non eleggibile nella squadra a causa di tutto questo. Eh? Eh? Allora cosa faccio? Senti, bello, mi fai venir voglia di vomitare. Sgancia quei cinque dollari.

Vuole sul serio essere rimborsato? Non so dirlo. L’idea di rifondergli la paga mi disgusta, e non soltanto perché ci smeno dei soldi. Vorrei poterlo leggere, ma non riesco a cavare niente da lui a quel livello; adesso sono completamente bloccato. Blufferò. Dico: — Che storia è questa? E tutta quella fatica sprecata? Io il lavoro l’ho fatto. Non capisco proprio quali dannati irragionevoli motivi tu abbia per rifiutarlo. Almeno mi tengo i cinque dollari. Almeno quelli.

— Restituiscimi i soldi.

— Va in malora.

Comincio ad andarmene. Lui mi acchiappa — il suo braccio, completamente steso verso di me, dev’essere lungo quanto una delle mie gambe — e mi tira verso di lui. Comincia a scrollarmi. Sto battendo i denti. Lui ha un sorriso più largo che mai, però i suoi occhi sono demoniaci. Agito i miei pugni verso di lui, però, con le braccia che ha, non arrivo neanche a toccarlo. Mi metto a urlare. Si riunisce una folla. Di colpo ci sono tre o quattro altri uomini con i giaccotti da universitari che ci circondano, tutti neri, tutti giganteschi, anche se non grossi come lui. I suoi compagni di squadra. Ridono, schiamazzano, saltellano. Per loro io sono soltanto un burattino. — Ehi! Ti disturba? — chiede uno di loro. — Ti serve aiuto, Yahya? — strilla un altro. — Cosa t’ha fatto quel fottuto merdone vociante? — urla un terzo. Formano un anello e Lumumba mi spinge verso l’uomo alla sua sinistra, che mi afferra, e mi sballottano qui è là nel cerchio. Giro vorticosamente; incespico; barcollo; loro non mi lasciano mai cadere. Intorno e intorno e intorno. Una gomitata mi esplode sulle labbra. Sento sapore di sangue. Qualcuno mi schiaffeggia violentemente, e la mia testa rimbalza all’indietro. Dita tese mi si conficcano nelle costole. Sento che mi stanno facendo del male, parecchio; che insomma questi giganti stanno pestandomi ben bene. Una voce che mi sembra vagamente la mia offre a Lumumba il rimborso, ma nessuno ci fa caso. Loro continuano a farmi girare dall’uno all’altro. Adesso niente schiaffi, niente colpi secchi, ma pugni. Dov’è la polizia del campus? Aiuto! Aiuto! Porci poliziotti aiutatemi! Invece non viene nessuno. Non ce la faccio più a respirare. Quanto mi piacerebbe lasciarmi cadere sulle ginocchia, raggomitolarmi per terra. Loro stanno urlandomi qualcosa, epiteti razziali, parole che afferro solo vagamente, un gergo da fratelli di sangue che dev’essere stato appena inventato; io non capisco che cosa stanno urlandomi, però posso sentire l’odio in ogni sillaba. Aiuto! Aiuto! Il mondo ruota vorticosamente, selvaggiamente. Adesso lo so che cosa proverebbe una palla da canestro, se potesse provare qualcosa. Il pestaggio continua, l’annullamento di un movimento senza fine. Per favore, qualcuno, chiunque, mi aiuti, li fermi. Provo un forte dolore allo stomaco: un mucchio di metallo bianco-caldo dietro il mio sterno. Non riesco a vedere. Riesco soltanto a sentire. Dove sono i miei piedi? Finalmente sto crollando. Guardo come arrivano veloci verso di me i gradini. Il freddo bacio della pietra mi ammacca la guancia. Può darsi che abbia già perso conoscenza: come faccio a parlare? Un motivo di conforto, uno solo, c’è, almeno. Più in basso di così non posso scendere.

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